Guardiola e Mourinho, l’armonia degli opposti: una riflessione sul gesto di Pep

'You're getting sacked in the morning' cantato ossessivamente in coro sulle note di Guantanamera, melodia popolare cubana portata al successo da Joselito Fernandez negli anni ’30 su testo di Josè Martì , poeta dei versos sencillos, guarda caso scritti durante le guerre d’indipendenza dalla Spagna. Ormai è questa la colonna sonora della crisi del City di Guardiola, da qualche tempo bersagliato dallo scherno dei tifosi avversari. Prima a Brighton, poi a Liverpool. Solo che stavolta Pep non si è limitato ad ascoltare e incassare. Sarà che la sesta sconfitta nelle ultime sette partite, per nulla mitigata dal pareggio di Champions contro il Feyenoord vissuto come un disastro , non poteva che tendere i nervi dell’allenatore catalano sino al limite umano consentito. Sarà che la presa d’atto di essere diventato bersaglio del sarcasmo avversario lo ha posto insospettatamente nella galleria degli antipatici cui 'farla pagare' non appena possibile, fatto sta che stavolta Guardiola non ha resistito. E ha fatto il Mourinho. Almeno così hanno pensato tutti quando lo hanno visto girarsi verso il pubblico componendo con le dita il numero sei, quante sono le Premier che ha vinto. Sì, perché Josè è il Re dei gesti provocatori e delle dichiarazioni di rottura. Che, da allenatore dell’altro Manchester, aveva disegnato con la mano il numero tre in due occasioni: una volta in conferenza stampa dopo una sonora sconfitta contro il Chelsea, quando ricordò ai giornalisti di aver vinto tre volte la Premier e aggiungendo che quel numero superava la somma di titoli di tutti gli altri allenatori a quel tempo sulle panchine inglesi. E una seconda volta rivolgendosi ai tifosi della Juventus che lo stuzzicavano per il suo passato interista, a ricordare loro il 'triplete' conquistato in nerazzurro. Dunque, la nemesi in un istante, dopo una parabola che per anni ha opposto i due allenatori su traiettorie diverse e antitetiche. Guardiola, il 'buono', sorridente e affabile, reso vincente da una filosofia 'giochista', e Mourinho, il 'cattivo', imbronciato e ineffabile, reso vincente da una filosofia 'risultatista', per un attimo sovrapposti in un gesto, allineati sullo stesso asse come sole e luna, a produrre un’eclissi logica sul pianeta calcio. Ma davvero quel gesto fonde due personalità apparentemente così distinte in una identica forma psicologica e caratteriale? Guardiola ha provato a diluire la forza del suo gesto nelle interviste post partita, sciorinando il suo solito sorriso rassicurante e un po’ ironico, spiegando che sì, in effetti non si aspettava quel coro dalla gente di Anfield ma che sì, in effetti quella gente potrebbe avere ragione sulla questione licenziamento. Anche Mou nelle sue dichiarazioni ha spesso usato l’ironia, se non il sarcasmo, per rintuzzare gli attacchi, ma mai per edulcorare i messaggi del corpo. Piuttosto per enfatizzarli. Perché l’impressione è che esista una differenza di fondo tra i due, anche quando utilizzano lo stesso registro comunicativo. Mou conosce benissimo la legge umana che porta il vincente sul versante dell’antipatia a prescindere dai comportamenti. E l’ha sempre sfruttata a suo vantaggio, in modo lucido e strategico: vinco, ergo inimicus sum, perciò è più conveniente percorrere sino in fondo questo sentiero per compattare la mia parte rendendola una falange macedone. Per lui il gesto eclatante e provocatorio in uno stadio ricolmo di tifosi non è sterile reazione irrazionale, è riaffermazione del sé come guida e rafforzamento psicologico della propria parte, tanto più se in un momento di difficoltà. Il gesto di Guardiola invece sembra sintomo di fragilità, che di per sé suscita umana comprensione ma che non sembra finalizzato a una strategia. Un momento irrazionale, umano, non provocatorio ma totalmente difensivo. In altre parole, a Liverpool ha proprio ceduto all’irritazione mandando a quel paese, nel modo meno becero possibile, la torma dei suoi 'nemici'. Pep ha sempre cercato di apparire come l’allenatore benevolente, quello che vince ma non distrugge, quello che esulta ma con misura, quello che esalta gli avversari pur studiandone i punti deboli. E perciò appare disorientato quando scopre di non essere amato universalmente: hostes non delendos, quindi perché non sperare nell’apprezzamento di tutti? Ed è questo cortocircuito, non la strategia, a determinare la reazione. Eppure, Guardiola in passato ci ha provato a utilizzare gli stilemi mourinhani, quasi persuaso che certe iperboli fossero funzionali al consolidamento della personalità, dello spessore e dell’autorevolezza della propria persona . E così quando lasciò il Bayern per la panchina del City, in un’intervista evocò i 'nemici', gli stessi sul cui 'rumore' Mou ai tempi dell’Inter costruì una delle sue conferenze stampa rimaste nella storia. Pep disse: “Nello sport, in ogni sport, quando non possono competere con te provano a screditarti. Caratterialmente ho bisogno di nemici, di persone che mi odino perché il calcio è cercare di migliorare sé stessi”. Ora, francamente sfugge il nesso diretto tra l’odio dei nemici e il miglioramento del sé, perché identificare lo stimolo alla crescita con l’ostilità altrui appare una forzatura. E tuttavia non sembra affatto casuale l’accostamento con il solito amicus/hostis evocato a più riprese dal tecnico portoghese per compattare la propria fazione. Vero, qui Guardiola trasferisce a livello individuale una legge politica di carattere sociale, ma la funzione stimolatrice del 'nemico' sembra avere la stessa matrice. E quando nell’ottobre del 2016 il suo City perse 4-0 a Barcellona, affrontò i giornalisti in conferenza stampa ricalcando il cliché di Mou: “Secondo voi dovrei cambiare qualcosa? Mi spiace, no – disse col solito sorriso un po’ forzato e volutamente sarcastico – con questa filosofia di gioco ho vinto 21 titoli in 7 anni. Non la cambio di certo, no”. Dunque il gesto di Liverpool non rappresenta un unicum rispetto alla sovrapposizione dialettica e mimica di Guardiola e Mourinho. E la circostanza non deve sorprendere più di tanto. Per due ordini di ragioni. La prima attiene al peculiare ruolo dell’allenatore: non è un caso che certe rivendicazioni emergano nei momenti di crisi, quelli in cui l’autorevolezza viene messa in discussione a torto o a ragione. Guardiola ha attinto a quel registro dopo il fallimento al Bayern, dopo la prima eclatante sconfitta del suo City in Champions e dopo una lunga teoria di sconfitte che oggi lo pongono come oggetto dello scherno altrui. Mou lo ha fatto sempre, come detto in funzione ampiamente strategica per alimentare la forza della sua fazione, ma anche per difendere il suo status di guida nei momenti critici, dopo le sconfitte del suo Real proprio al cospetto del Barcellona di Pep o dopo le critiche ricevute a Manchester, sponda United. La seconda attiene alle regole cicliche della storia, che prima o dopo presenta il suo conto. Ogni guida carismatica, in politica, in guerra o nei movimenti culturali, sperimenta il momento della solitudine e dell’opposizione. E, se vuole provare a resistere, è costretta ad alimentare il proprio culto attraverso la rivendicazione dei successi passati o allargando la cesura tra il sé e il 'nemico' che strumentalmente vorrebbe comprimerla. Per altro la storia insegna anche che non è difficile misurare i moti di rivoluzione e di trasformazione caratteriale di chi detiene il potere. Basti pensare a Napoleone Bonaparte che divenne Imperatore in nome dei principi rivoluzionari, per definizione refrattari a ogni forma di dittatura. E che quindi assunse toni, simboli e metodi antitetici ai valori di cui si proclamava portatore. In altre parole, non è affatto antistorico percorrere una parabola che porta a vestire abiti, anche mentali, molto diversi da quelli originari. Fino a toccare il proprio antagonismo e confondersi con esso. La vera differenza tra Guardiola e Mou risiede dunque non negli strumenti usati per alimentare il sé, ma nella fonte della loro autorevolezza, per entrambi conferita dal basso e non per volere divino. Per Mou è l’empatia con i suoi giocatori e con la sua fazione, quasi fosse un comandante in stile Giulio Cesare: l’adorazione dei soldati, l’utilità del nemico, l’esaltazione della propria fazione. Per Pep è l’empatia delle sue idee offerte al gruppo e la cui efficacia è per la gente anche sinonimo di bellezza, quasi fosse un politico illuminato in stile Federico II: adesione ideologica, etica ed estetica filosofica. Tra di loro non ci sarà mai vera armonia, perché facce opposte della stessa medaglia. Entrambi hanno alimentato un dualismo e una irriducibile rivalità di cui probabilmente oggi sentono vibrazioni nostalgiche. Gli episodi della loro 'guerra ideologica' si sprecano, ma basti ricordare la prima scintilla e l’acme della loro frizione. A cominciare fu certamente Mou, secondo alcuni commentatori piuttosto irritato dalla decisione del Barcellona di puntare sull’allenatore ragazzino piuttosto che su di lui, collaboratore di Robson in blaugrana fino al 2000 e diventato vincente al Porto e al Chelsea. Che sia vero o no, quel che è certo è che all’Inter seppe creare una pressione enorme sul rivale alla vigilia della semifinale di Champions del 2010. Prese il concetto di 'ossessione' e l’applicò al Barcellona declinandolo più e più volte: “Per loro la Champions è un ossessione, per noi no”. Come andò a finire lo sanno tutti. Ma il periodo più caldo fu certamente quello che li vide opposti sulle panchine di Barcellona e Real Madrid. Mille punzecchiature su qualsiasi tema e argomento, dalla tattica agli arbitri, fino all’esplosione di Pep. Che alla vigilia di un’altra semifinale di Champions, quella del 2011, sbottò: “Domani ci affrontiamo in campo alle 20:45. Fuori dal campo mi ha già battuto. Glielo concedo. In questa stanza lui è il fottuto capo, il fottuto maestro e non voglio competere in nessun momento. Gli ricordo solo che abbiamo lavorato insieme quattro anni. Lui conosce me e io conosco lui”. E stavolta vinse Guardiola. Ecco, il famoso “puto amo, puto jefe” fu l’apice dello scontro, il momento in cui la frattura tra diverse visioni del mondo raggiunse il punto di non ritorno. Eppure, come in ogni dualismo irriducibile, l’uno alimentava sé stesso nutrendosi dell’altro. Oggi Guardiola ha fatto il Mourinho, a Liverpool, è vero. Ma non è diventato Mourinho. E oggi Guardiola senza Mou pianta le unghie sul proprio viso, come ad ammettere che il suo “nemico” gli manca e che quell’assenza rischia di lasciarlo solo a combattere con sé stesso. Mentre Mou, senza Pep, oggi appare come uno stanco condottiero in esilio, senza avversari all’altezza in grado di rianimarne lo spirito. Dunque, dietro il gesto di Liverpool non c’è un esperimento sociologico, magari indotto di mefitici fratelli Duke di 'Una poltrona per due', teso a dimostrare che due antagonisti, se messi nelle giuste condizioni, possono scambiarsi il ruolo incarnando il proprio opposto. Forse c’è solo la nostalgia per una dialettica scomparsa e che ha lasciato i protagonisti orfani del proprio nemico. Ma questo crepuscolo non è necessariamente sinonimo di declino. Anche Winston Churchill divenne famoso per un gesto, il V-sign, e anche lui perse le elezioni del 1945 malgrado avesse appena vinto la guerra. Non ne fu travolto né moralmente né psicologicamente, continuando a vestire i panni del gigante, tanto che all’Università di Zurigo nel 1946 offrì agli studenti la prospettiva di spendersi per la creazione degli Stati Uniti d’Europa . Guardiola e Pep, nel loro ambito, possono trarne insegnamento: non c’è crisi che possa soffocare afflati di innovazione o idee rivoluzionarie. Del resto, secondo Seneca, soltanto la tempesta mette alla prova il buon pilota, il combattimento il buon soldato, le avversità della vita l’uomo virtuoso. Perché, diceva, “la disgrazia è occasione di virtù”.