Fazio: "Italia? Chissà, l'Argentina non chiama..."
Serie AIl "Comandante" si racconta a L'Ultimo Uomo: lui, la Serie A, l'esperienza in Inghilterra, il rapporto con Sabella e l'Argentina. Fino ad un'apertura verso Ventura e la Nazionale azzurra: "Forse...". A tutto Federico Fazio
All'inizio in pochi ci credevano: "Fazio? Ah, il socio della Littizzetto". E giù battute, critiche, dubbi. Forse anche leciti, perché negli ultimi anni il ragazzo aveva giocato veramente poco. Poi la metamorfosi, la rinascita definitiva. E adesso Fazio si è preso la Roma, uno dei migliori centrali della Serie A. 29 presenze stagionali, 2 reti. Prestazioni super. Attraverso un'intervista concessa all'Ultimo Uomo, l'ex centrale del Siviglia si è raccontato. Passato, presente e futuro, con un occhio anche alla Nazionale italiana (Fazio ha origine siciliane, suo nonno era di Erice).
Il rapporto con la Nazionale argentina - "Comincio a dubitare che mi chiami: sono regolarmente tra i titolari a Siviglia, riconosciuto in Spagna, mi sento in forma, mi piacerebbe avere almeno una chance, ma da quando c’è Sabella questa chance non è mai arrivata. Magari adesso non tanto, dopo dieci anni di carriera finisci per essere più conosciuto, ma prima forse venivo dalla Segunda, non sono passato per un club importante in Argentina, magari la gente non aveva avuto modo di conoscermi davvero. Mi dispiace non aver avuto l’opportunità di dimostrare il mio valore. Ci sono molte partite, eliminatorie, amichevoli, mondiali: forse però uno vuole avere il suo gruppo ben formato. Anche se se stai facendo le cose per bene un premio, insomma fa sempre piacere ricevere un riconoscimento al lavoro che stai facendo… L’importante è sempre guardare al futuro, per la Nazionale… chissà, pure per quella italiana".
Idolo? "Walter Samuel!" - "In quegli anni, al Mondiale del 2002, quando lo seguivo, anche qua a Roma e prima nel Boca, di cui ero tifoso, pensa che in quel periodo neppure giocavo come difensore. Però aveva un modo di essere leader, Samuel… Non era tanto il suo ruolo in campo, ma il ruolo nella squadra, da leader. Mi piaceva per la stessa ragione pure Batistuta".
Sulla sua crescita - "Non sono stato solo io a crescere dalla gara d’andata contro la Fiorentina a oggi, ma tutta la squadra, e in molti aspetti: se i giocatori crescono individualmente anche la squadra diventa unita, acquisiamo più sicurezza e fiducia l’uno nell’altro. Non è solo per Manolas o Rüdiger, ma è soprattutto merito del centrocampo, specie se giocano De Rossi e Strootman. Siamo tutti in grande forma, e questo permette a ognuno di migliorarsi".
Come si diventa leader? - "Bisogna avere ambizione, consapevolezza. Fare tesoro delle cose che ti capitano. Aiuta anche aver giocato, in carriera, con altri leader: capire qual è il loro ruolo, apprendere quanto più puoi. Poi in realtà è qualcosa che devi avere dentro: non ci si sveglia la mattina dicendo voglio essere un leader, e quando sei giovane devi capire chi comanda, apprendere da lui. Il mio riferimento fuori dal calcio? Mio fratello più piccolo, ha dodici anni".
Sull'Italia e l'amico Perotti - "La Serie A è molto simile alla Liga, si gioca un calcio molto tattico, che mi piace abbastanza; ma forse è stato più facile per me, perché sono stato avvantaggiato dal tipo di vita che si vive a Roma, dalla cultura; l’Italia per noi argentini è come casa, sono Paesi con caratteristiche molto simili, condividiamo le stesse radici. Roma poi somiglia molto a Siviglia, mia moglie dice che le trova uguali anche se con le dovute proporzioni, ma anche a Buenos Aires: sono città molto futboleras, in cui si vive con grande attaccamento al gioco, anche se poi non saprei dirti bene com’è giocare a Buenos Aires, ho sempre giocato in Segunda e non è proprio lo stesso che giocare in un club grande". Capitolo Perotti, amico di una vita: "Ero venuto già a trovarlo a marzo scorso, era qua da un mese soltanto ma si trovava già molto bene; sono venuto a vederlo a Trigoria, agli allenamenti, Roma mi ha colpito da subito e quando è uscita fuori la possibilità di venire qua è stato facile accettare".
Sull'esperienza al Tottenham - Mi è sempre sembrato un campionato vistoso. La guardavo in tv: l’ambiente mi attraeva molto, l’atmosfera. E poi il fatto che ci fosse un ct argentino (Pochettino) è stato un incentivo per scegliere il Tottenham. Il primo anno ho giocato 33 partite, mi sentivo bene. Non al livello top, però insomma. Poi, dopo dieci anni di carriera, per la prima volta già prima dell’inizio della nuova stagione (quella 2015-16, Ndr) sapevo che non avrei giocato mai, perché mi hanno comunicato che non rientravo nei loro piani. Ambientarsi alla Premier League è più difficile: si gioca un calcio molto diverso da tutti gli altri. Ci sono più 1 contro 1, più ribaltamenti di fronte, più spazi, meno tattica. Anzi, diciamo che non ci si lavora proprio sulla tattica. È tutta questione di fisicità. La squadra deve prima di tutto star bene fisicamente, la differenza poi la fa quello che un giocatore sa fare di per sé, il suo livello tecnico. La verità è che tutte le partite si giocano allo stesso modo, non si studia il rivale: ogni squadra ha il suo stile e rispetta solo quello, senza troppa attenzione al resto, senza cambiare mai. È divertente vedere le partite, ma solo per il tifoso, per gli spettatori che sono sugli spalti, per le occasioni da gol… Ma è sempre la stessa cosa. Non c’è tattica, non c’è pianificazione. Praticamente il centrocampo non esiste: stai attaccando, termina l’azione e già stanno attaccando te. È un po’ noiosa, per un calciatore. Non hai margine di crescita, non impari a studiare, fai sempre le stesse cose. Non cambi posizione, non apprendi nulla tatticamente"