Allegri: "Smetto fra cinque anni, ma se chiama la Nazionale..."
Serie ALo scrittore Sandro Veronesi ha incontrato Massimiliano Allegri per raccontare il mondo dell'allenatore bianconero. Dalla sua infanzia con il padre al porto di Livorno alla psicologia dei calciatori della Juventus, passando per la suggestione di allenare la Nazionale in futuro: l'intervista esclusiva sul numero di ottobre di GQ
"Tra cinque o sei anni smetto. Perché finché mi diverto ad andare in campo e insegnare io continuo, ma nel momento in cui non mi divertirò più smetterò, e avrò risolto il problema. A me piace vedere i giocatori crescere, mi piace far debuttare i ragazzini e vederli diventare grandi. A me piace insegnare. Alla fine dell’anno mi piace vedere dei giocatori che sono migliorati, per me è una soddisfazione enorme. Nel momento in cui smetto di sentire questa magia, non ha più senso che alleni". Così parla Massimiliano Allegri nel numero di ottobre di GQ. Il mensile diretto da Giuseppe De Bellis ha incontrato l'allenatore della Juventus due volte: una nella sua abitazione torinese per il servizio fotografico di Lorenzo Bringheli, una nella sua città d’origine, Livorno, per l’incontro con lo scrittore premio Strega Sandro Veronesi. Un’intervista lunga e profonda, in cui Allegri apre le porte del suo mondo e fa conoscere le sue idee sul calcio e non solo.
La suggestione Nazionale
"Tra 5-6 anni smetto, ma la Nazionale mi interessa. La Nazionale è un’altra cosa. È un motivo d’orgoglio. E ti dico anche che la Nazionale italiana dei nati tra il 1992 e il 2000 ha due generazioni di giocatori molto bravi. Sarà una Nazionale forte, nei prossimi anni".
Il ruolo dell'allenatore
"Il lunedì mattina mi arrivano dei pacchi di roba così, tutti i numeri possibili e immaginabili estratti dalla partita della domenica. Io non li leggo nemmeno, guardo soltanto il numero dei falli fatti e subiti e i duelli aerei vinti e persi. Fine. Non guardo altro. Perché se fai fallo, vuol dire che sei vicino alla palla, e dov’è che si difende, nel calcio? Vicino alla palla. Se metti undici giocatori attaccati l’uno all’altro sulla linea di porta, non la coprono tutta. Se fai fallo, vuol dire che sei vicino alla palla, e se sei vicino alla palla vuol dire che stai difendendo. A Genova ci hanno gonfiato come zampogne, così come a Cardiff nel secondo tempo, perché nel primo eravamo molto più aggressivi. Appena è finita l’aggressività, è finita la partita. Io non sono uno che sta ventisei ore a pensare a una partita. Io dico sempre che ci sono gli allenatori costruiti e gli allenatori naturali. Io sono di quelli naturali. Non devo star lì a vedere video per ore e ore. Guardo quello che devo guardare e in un quarto d’ora capisco quello che posso capire. Se sto tutto il giorno a vedere video alla fine non capisco nulla…".
La psicologia nel calcio
"Il calcio è semplice, ragazzi. È inutile complicarlo, è semplice: in campo tu devi fare l’opposto di quello che fa l’avversario. Se l’avversario ti viene incontro, ti allontani. Se si allontana, gli vai incontro. Fine. Vogliono renderlo più difficile di quello che è. L’aspetto psicologico è l'ottanta per cento della prestazione dei giocatori. Io ora delego molto allo staff, per la preparazione atletica, la tecnica eccetera. Io entro nell’esercitazione principale, lavorando su ogni singolo giocatore, per capire quando gli va dato qualcosa, quando gli va tolto, cosa gli va chiesto, a ognuno, perché alla fine sono dei ragazzi e ognuno di loro ha bisogno di coccole e di severità, ma in momenti diversi e in situazioni diverse l’uno dall’altro. C’è il momento in cui uno dev’essere ripreso da solo e quello in cui dev’essere ripreso davanti ai compagni. E c’è il momento in cui devi tirarti indietro te, in cui devi mollare".
Tra incoscienza e "sana follia"
"Io sono contentissimo della rosa che ho alla Juventus. È migliorata, e non era facile. Siamo fortissimi. Ai tifosi dico di liberarsi della negatività, di non arrovellarsi sulle sconfitte passate. Le finali si perdono e si vincono, è sempre stato così, e così sarà anche per la Juventus. Lo dico anche ai giocatori, perché per fare grandi cose, col talento che hanno, gli ci vuole solo l’incoscienza. Un po’ di sana follia, mettere da parte i ragionamenti e pensarsi invincibili. Di fenomeni nel mondo del calcio continua a essercene solo uno, o due, com’era prima, per ogni generazione… La differenza è che ora ci sono tanti più soldi e tante più squadre con diversi giocatori forti. Vincere la Champions ora non è come vincerla trent’anni fa".
Di padre in figlio
"Mio padre lavorava al porto. E a quel tempo lì, il porto funzionava bene, al diciottesimo anno di età il figlio maschio entrava a lavorare al porto di diritto. E infatti io cosa feci? Dopo aver preso la patente B presi la C, perché con quella avrei potuto prendere la D che mi sarebbe servita per entrare in porto. La strada era già segnata. Non è che avessi scelta".