L'attaccante del Napoli dedica una lunga lettera alla sua squadra e alla città, con tanti riferimenti a Maradona: "Avevo visto giocare solo Ronaldo, chiedo scusa a Diego, qui c'è un solo Dio". Tra Zeman, l'infanzia e lo Scudetto, ecco l'intervista completa
"Prima di cominciare questa storia devo chiedere perdono a Dio". Esordisce così Lorenzo Insigne. Talentissimo del Napoli, vicecapitano di una squadra che lotta con tutte le sue forze per cancellare un tabù: lo Scudetto. Una parola, un trofeo, un obiettivo che manca dai tempi di Di(eg)o. Già, lui, Maradona, colui che in città non è un essere umano. È davvero un Dio. "Per Dio, intendo 'D10S'… Diego Armando Maradona. E voglio chiedere perdono anche a mio padre. Gli chiedo perdono perché quando avevo otto anni ho commesso un peccato: forse per la maggior parte della gente non lo sarebbe ma se cresci a Napoli, soprattutto negli anni in cui io ero bambino, lo è eccome".
L'altezza e... le scarpe
Avevo appena iniziato a giocare nella scuola calcio della mia zona e desideravo tanto delle vere scarpe da calcio: non le avevo, perché in realtà non sarei neanche dovuto essere un membro di quella scuola. Ero troppo giovane, e sicuramente troppo piccolo di statura. Ero “bassino”, come diranno tanti. A me però non importava. Io volevo giocare a calcio a tutti i costi e così un giorno sono andato alla scuola calcio, dove mio fratello maggiore doveva sostenere un provino insieme ad altri ragazzi del quartiere. Sarei dovuto rimanere solo a guardarli ma i miei piani erano diversi: mi sono spinto in campo, mi sono buttato sul terreno di gioco e ho pianto finché non mi hanno lasciato giocare. E finalmente uno degli allenatori ha detto: “Ok, va bene! Lasciate giocare il bambino per un minuto”. Credo che volessero solo farmi smettere di piangere, ma alla fine penso di aver sfruttato questa possibilità perché mi hanno fatto subito entrare nella scuola calcio, permettendomi di giocare con i ragazzi più grandi. Io ovviamente ero felicissimo, ma a quel punto mi servivano delle vere scarpe da calcio: ogni giorno pregavo mio padre di comprarmene un paio, ma c’erano due problemi. Innanzitutto, la mia famiglia ha origini molto umili. Frattamaggiore, il piccolo comune nel quale sono cresciuto, era un posto con tanti problemi: in quegli anni non c’era niente, non c’era lavoro e la mia famiglia non aveva tanti soldi per tirare avanti, quindi era praticamente impossibile poter comprare delle scarpe costose. Inoltre io volevo un paio di scarpe in particolare: le R9. Erano le scarpe del Fenomeno, Ronaldo. Ve le ricordate? Di colore argento, blu e giallo. Una vera icona: Ronaldo aveva appena giocato il Mondiale del ’98 in Francia con quelle scarpe e io non parlavo d’altro. “Papà, per favore, ti prego, prendimi le scarpe di Ronaldo”. Ogni giorno. Ogni santo giorno. “Per favore papà, le scarpe da calcio". A ripensarci ora, lui probabilmente mi avrebbe strozzato perché l’unico giocatore di cui mio padre voleva sentir parlare era Maradona. Io sono cresciuto col mito di Diego, sentendo parlare della sua grandezza, e ovviamente lui era una leggenda a livello mondiale… Ma a Napoli? A Napoli? Beh a Napoli Diego era come un Dio. Mio padre voleva che io prendessi delle semplici scarpe da calcio nere come quelle che indossava Maradona. Avete presente, no? Ma io non lo avevo visto giocare, ero troppo piccolo e gli rispondevo: “No papà, non hai capito. Ronaldo è il migliore”. Mi dispiace papà! Mi dispiace Diego! Mio padre era un grande tifoso del Napoli, ovviamente Ronaldo giocava nell’Inter in quegli anni e spesso faceva piangere i tifosi azzurri. Io però ero solo un ragazzino ed ero ossessionato da queste scarpe. Così una sera, completamente a sorpresa, mio padre mi disse: “Vieni, andiamo a fare compere”.
"Gli chiesi perché. Lui rispose: “Andiamo a prendere le tue scarpe da calcio”. Mio padre sicuramente non aveva soldi da sprecare in cose futili, ma in qualche modo era riuscito a trovarli per me e io non so spiegarvi l’emozione che sentivo quella sera, mentre camminavo con lui e con mio fratello più grande per cercare quelle scarpe nei negozi di articoli sportivi dell’intera città. Il primo negozio non le aveva. Il secondo negozio non le aveva. Il terzo negozio le aveva, ma non le aveva del mio numero. Abbiamo camminato praticamente per tutta Napoli. Le abbiamo cercate in altri quattro o cinque negozi, senza risultati.
Ronaldo, il Fenomeno
Mi ricordo che stava diventando buio e io ormai avevo perso le speranze. Finalmente, quasi all’orario di chiusura, abbiamo trovato il negozio che aveva le scarpe R9, e le aveva della mia misura. Sono sicuro che questo ricordo mi rimarrà impresso per tutta la vita: mio padre che dà al negoziante i soldi per pagare le scarpe e poi mi dà la scatola. E’ il regalo più bello che io abbia mai ricevuto. Sapete, è buffo, perché adesso che sono un calciatore professionista tramite gli sponsor mi arrivano tante scarpe gratis e ovviamente perdono un po’ di significato rispetto a quando ero un bambino. Ma quelle prime scarpe…mamma mia. Indossarle era una sensazione indescrivibile: nella mia testa mi dicevo “va bene, forse sono basso e la mia famiglia ha origini umili, magari non sono nemmeno bravo a giocare ma ora indosso queste scarpette, le stesse che usa Ronaldo, il Fenomeno. Forse un giorno potrò diventare forte come lui”. Non sto scherzando: pulivo quelle scarpe tutti i santi giorni. Noi giocavamo su campi che non erano certamente perfetti: c’erano fango e sassi, potete immaginare come si riducessero quelle scarpe. Quindi io tornavo a casa e le pulivo con uno strofinaccio, perché conoscevo i sacrifici che aveva fatto mio padre per riuscire a comprarmele: lui e mia madre nonostante le difficoltà non hanno mai fatto mancare nulla a me e ai miei fratelli. Le ho indossate così a lungo che erano uscite di produzione e nei negozi non si trovavano più: il giorno che si sono rotte definitivamente ed è stato impossibile aggiustarle ho pianto. Ho pianto a lungo, perché ci tenevo così tanto. Per me erano sacre. Forse sono pazzo per il calcio, non lo so. Ma a sentire la mia famiglia sono sempre stato così. Mia madre racconta spesso la storia di quando era venuta a prendermi all’asilo e mentre gli altri bambini giocavano con dei pezzi di Lego – costruendo case, castelli e tutte le altre cose che i bambini sono soliti fare – io ero in un angolo della stanza, scalciavo qualcosa e correvo in giro. Lei non capiva cosa stessi facendo, poi si è avvicinata e ha visto che avevo costruito una piccola palla da calcio con della carta e che ci stavo giocando da solo. Probabilmente con quella carta avrei dovuto fare i compiti, ma in testa avevo un solo pensiero: il calcio. Forse era destino. Il mio sogno, da sempre, era giocare con la maglia del Napoli al San Paolo. Non esistevano altri sogni. Non praticavo altri sport. Non pensavo a nient’altro al di fuori dal calcio. Ma mentre crescevo e facevo i provini con le giovanili di diverse squadre – Inter, Torino, anche il Napoli – gli osservatori mi dicevano sempre la stessa cosa.
"Ci piace ma è bassino"
"Beh in verità non lo dicevano a me. Lo dicevano a mio padre e lui poi mi dava la notizia. Ed era sempre lo stesso verdetto ogni volta. "Ci piace, ma è bassino". In Italia la gente è molto diretta: tutti mi scartavano per la mia statura. Dopo che il Torino mi ha liquidato così quando avevo 14 anni, diciamo che non avevo più voglia di giocare. Ho detto alla mia famiglia che sarebbe stato tutto inutile. Ero troppo basso. Sulla tecnica, sulla forza e sulla velocità puoi lavorarci sodo, puoi migliorarle. Ma sulla statura? Cosa potevo farci? Mi svegliavo ogni mattina con la speranza di essere cresciuto durante la notte. Ma niente. E allora dissi a mio padre: “Basta, è inutile continuare, io col calcio ho chiuso". Lui allora mi ha detto: “Va bene, quindi se non giochi a calcio che farai nella vita?” Io ci ho pensato e ho detto: “Merda, che farò?”.
Un sogno chiamato Napoli
Così ho continuato a giocare nella scuola calcio a Grumo Nevano e alla fine il Napoli mi ha dato un’altra possibilità quando avevo 15 anni. C’erano tantissimi ragazzini al provino. Tantissimi. Ma per qualche motivo l’osservatore ha visto qualcosa in me e mi ha scelto. Quando sono entrato nelle giovanili azzurre è stato incredibile: la mia famiglia è sempre stata molto tifosa del Napoli ma quando ero piccolo non potevamo permetterci di andare a vedere molte partite. Così, una volta entrato nelle giovanili del Napoli, chiedevo sempre di fare il raccattapalle per poter andare al San Paolo e stare a bordocampo durante le partite. Da napoletano fatico a esprimere con le parole la sensazione di essere in quello stadio e di sentire quell’energia. Pensavo: “Cavolo, se un giorno potessi giocare una sola partita qui con la maglia del Napoli morirei felice”. E’ stato divertente, perché quando ho giocato la prima partita con il Napoli serie A nel 2010 abbiamo giocato in trasferta, a Livorno. Ovviamente, per la mia famiglia era una cosa molto importante: un ragazzo di Frattamaggiore che gioca con la maglia del Napoli, un grande onore. E mi ricordo che dopo la partita a Livorno mio padre è venuto a prendermi all’aeroporto e rientrando a casa in macchina gli ho chiesto: “C’è qualcuno del mio quartiere che mi sta aspettando?” E mio padre disse: “Ah, no no. E’ molto tardi. Sono tutti molto orgogliosi di te, ma a quest’ora sono andati tutti a dormire”. Io ho risposto: “Dai, non scherzare”. Ci ero rimasto male. Lui ha detto: “No, dico davvero, mi dispiace ma non voglio che resti deluso. Non c’è nessuno che ti aspetta”. Ovviamente, arriviamo a casa e trovo l’intero paese lì che mi aspetta in strada, tutti a cantare cori e a sparare i fuochi d’artificio: c’è perfino una torta speciale per i festeggiamenti. Tutti i ragazzi del quartiere erano tifosi del Napoli, figuriamoci. Vedere la faccia di mia madre è stata la parte più bella perché lei va pazza per il calcio, ancora più dei maschi: essendo l’unica donna della famiglia si è appassionata, mi seguiva fin dai tempi della scuola calcio e ora non si perde una partita allo stadio. Ancora adesso quando vado a casa la trovo lì che si riguarda le repliche delle partite del Napoli. Il Napoli è nel nostro cuore, nel nostro Dna, scorre nel nostro sangue. E io devo tutto al club perché mi sono stati vicini nei tempi duri: dopo il mio debutto nel 2010 ho giocato due anni in prestito, in C al Foggia e poi in B al Pescara.
Zeman e le sigarette
Al Foggia il mio allenatore era un vero personaggio: Zdeněk Zeman. Sapevo che era un tecnico che chiedeva tanto ai suoi giocatori in allenamento, che faceva lavorare in modo intenso ma era anche uno molto abile a lavorare con i giovani e aveva lanciato tanti campioni. L’impatto con lui è stato veramente buffo perché sembrava un tipo uscito da un vecchio film: tutte le mattine faceva venire ogni giocatore nel suo ufficio e faceva pesare tutti su una vecchia bilancia di metallo. Però là dentro Zeman fumava come una ciminiera. Aprivi la porta e c’era solo fumo bianco, si riusciva a malapena a respirare. Sembrava di stare a Milano in quella stanza. Quindi un giorno sono entrato e gli ho detto: “Mister, magari potresti smettere di fumare quando entriamo?” Lui ci ha pensato un attimo. Poi ha dato un’altra tirata e ha detto: “…allora puoi anche uscire”. Gli voglio molto bene e lo ringrazierò sempre: è lui ad avermi lanciato nel grande calcio. Avevamo un ottimo rapporto. Lui credeva davvero in me e probabilmente ci voleva un personaggio come lui per farmi crescere. Ho segnato 18 gol in quella stagione e quando l’anno dopo Zeman è andato ad allenare il Pescara il Napoli mi ha permesso di seguirlo, come avevo richiesto alla società non appena il tecnico mi ha detto che avrebbe allenato in B. Quello è stato un momento davvero molto importante.
Jennifer
Ed è stato un anno fondamentale per la mia vita, perché ho conosciuto mia moglie Jenny. Se conoscete un po’ le usanze dell’Italia meridionale non vi sorprenderà sapere che ho conosciuto Jenny tramite suo cugino, che era stato a scuola con me a Frattamaggiore. E’ il posto da cui provengo, tutti conoscono tutti. Jenny è di Frattaminore, fin da subito volevo stare con lei. Il problema era che in quel momento stavo vivendo a 250 chilometri di distanza, a Pescara, e a Napoli tornavo solo nei giorni liberi. Le ho detto: “Vieni con me a Pescara”. Ma potete immaginare cosa hanno risposto i suoi genitori in merito a quella proposta. Non la lasciavano venire con me. Neanche per sogno. Quindi avevo una doppia motivazione in quella stagione a Pescara: dovevo convincere il Napoli a riportarmi lì a fine stagione, in modo da poter vivere il sogno di giocare per la mia squadra del cuore e anche di poter stare con Jenny. In quella stagione nulla poteva fermarmi.
Il sogno divenuto realtà
Ho segnato 19 gol e quando è finita la stagione mi sono incontrato con mister Mazzarri, l’allenatore del Napoli. Lui mi ha detto: “Se vuoi un posto qui, te lo dovrai conquistare da solo”. E mi ricordo la mia risposta: “Nessun problema. Fin da piccolo nessuno mi ha mai regalato nulla: sono abituato alle sfide”. Così è stato: mi sono guadagnato il posto. All’inizio della stagione ho segnato il mio primo gol al San Paolo contro il Parma ed è stato davvero speciale, perché avevamo appena scoperto che mia moglie era incinta del nostro primo figlio, Carmine. Ho preso la palla e me la sono messa sotto la maglia come dedica a loro, mi ricordo che i tifosi cantavano il mio nome. Queste non sono emozioni descrivibili con le parole: sono cose che puoi solo sentire nel tuo cuore. Adesso sono sei anni che indosso questa maglia e provo ancora la stessa emozione ogni volta che segno un gol per il Napoli. Significa tanto per me, perché sono fiero di essere di questa città. Sapete, a volte sento alcune persone parlare male e dire cattiverie discriminatorie su Napoli: per me è molto frustrante perché non conoscono la città, le persone buone e quelle meno buone si trovano dappertutto. Per me questa è la città più bella del mondo: abbiamo il sole, il mare, si mangia bene. E se non credete a me, la prova sono i miei compagni di squadra: magari alcuni arrivano qui con un po’ di timore perché sentono parlare male di Napoli, ma guardate quanti giocatori sono rimasti qui, invece di trasferirsi in club più grandi. Alcuni di loro sono qui da tre o quattro stagioni e non vogliono andarsene, né loro né le loro famiglie. Il nostro capitano, Marek Hamšík, è slovacco e vive qui da 11 anni. Quando chiedo ai miei compagni perché vogliono rimanere loro mi dicono: “Amo questa città, amo la vita qui, amo i tifosi del Napoli”.
"Questa città ha bisogno di vincere"
Noi qui facciamo sentire a casa tutti: Napoli è stupenda e spero che un giorno se ne accorga anche chi parla male di questa città. Ora il mio unico obiettivo è vincere lo scudetto con il Napoli. E’ stato molto doloroso non qualificarsi al Mondiale con la nazionale e non c’è nulla che posso dire per esprimere tutta la mia delusione. Mi fa ancora arrabbiare, perché avrei voluto vivere un Mondiale da protagonista dopo quello in Brasile in cui ero giovane e avevo giocato poco. Ma devo chiudere quel capitolo e concentrarmi per cercare di vincere il tricolore con il Napoli, il primo della mia vita. Lo voglio fare per la mia città, il mio paese, i miei amici, la mia famiglia e per i miei figli: questa città ha bisogno di vincere.
"Io sono napoletano e qui c'è un solo re"
Ogni volta che indosso la maglia del Napoli al San Paolo mi viene la pelle d’oca. Perché so cosa significa per la mia famiglia, e ripenso a tutto quello che ha sacrificato mio padre negli anni per tirare avanti e per permettermi di coltivare questa passione. Non so cosa abbia dovuto fare per avere i soldi per comprare le mie prime scarpe, ma so che è stato faticoso. Quel sacrificio ha dato inizio a questo sogno. E ora posso scendere in campo nella mia città e mi vengono i brividi perché penso: “Qui ha giocato il più grande giocatore della storia. Qui è dove ha giocato Maradona”. Con tutto il dovuto rispetto, caro Ronaldo, adesso che sono più grande e che conosco la mia storia, devo pentirmi e devo dire che Maradona è il più grande giocatore che sia mai esistito. Ronaldo, avevi delle scarpe meravigliose. Eri il Fenomeno. Eri la mia ispirazione. Ma io sono napoletano, qui c’è un solo re. E il suo nome è Diego Armando Maradona.