Sono passati 12 decenni durante i quali il Milan è diventato uno dei club più titolati al mondo, certamente il più vincente d’Italia. Una storia, quella del Milan Football Club, affollata di figure rivoluzionarie, di cicli leggendari, di formazioni che hanno cambiato il calcio. E di fuoriclasse destinati all'immortalità. Nella puntata de “L’Uomo della Domenica” abbiamo provato a mettere in sequenza una carrellata degli undici grandi campioni della storia rossonera. Eccoli
Gunner Nordahl arrivò in Italia quasi ventottenne, era il gennaio del '49, osannato dai tifosi. Spalle da lottatore, novanta chili di peso, torace ampio centocinque centimetri. Divenne subito il Pompierone, in alternativa il Bisonte. Un fuoriclasse, nato da madre sarda, oltre il circolo polare artico, e già leggendario con la Svezia
L'Uomo della Domenica: "Milan 120, il Diavolo in corpo"
Nel Milan non si smentì, 221 gol in 8 stagioni, miglior marcatore all-time nella storia rossonera, gol fatti nei modi più svariati, di precisione, potenza, in mischia, in acrobazia, Nordahl schiacciava di testa decine di palloni a partita. Ma era anche un bomber allegro, generoso, romantico, un grande esempio di fairplay
Milan, il super party per i 120 anni di storia rossonera
“Nordhal, per noi ragazzi del Milan, diventò subito un mito. Non ci rese solo più orgogliosi, ma ci fece anche cambiare pettinatura. Lui portava la riga in mezzo e noi, prima di ogni partitella, ci bagnavamo la testa per acconciarci come lui. Nordahl vendicò tutte le sconfitte subite dagli interisti. Era il pompierone, uno strepitoso centravanti di sfondamento”. Tratto da “NORDAHL” di FAUSTO BERTINOTTI
Classe, tecnica, carisma, dotato di superiore talento naturale. Liedholm era il Barone, per i modi aristocratici, per l'ironia, per quel sublime distacco. Mai un'offesa, un insulto, una caduta di stile. Nel calcio di Liedholm la bellezza del gesto si univa alla pulizia dei comportamentiClasse, tecnica, carisma, dotato di superiore talento naturale. Liedholm era il Barone, per i modi aristocratici, per l'ironia, per quel sublime distacco. Mai un'offesa, un insulto, una caduta di stile. Nel calcio di Liedholm la bellezza del gesto si univa alla pulizia dei comportamenti
Si vantava di non aver mai subito un'ammonizione, ma anche delle sue rimesse laterali, che avevano la gittata di un calcio d'angolo. E quando cannoneggiava dalla distanza, giura chi c'era, poteva anche accadere che il pallone colpisse così forte la traversa da rimbalzare a metà campo
I piedi di Schiaffino pensavano insieme alla testa. Si è sempre sospettato che quelle estremità nascondessero un paio di torce, tale era la luce sprigionata. Piedi teleguidati da un cervello finissimo, tra i più sofisticati nella storia del calcio. Nessuno, meglio del Pepe, sapeva stare in campo, un'intelligenza tattica che gli consentiva di sfruttare la posizione, di intuire un attimo prima la destinazione della palla. Nel Milan, dove sbarcò quasi trentenne, e dove vinse tre scudetti, incrociò il giovane Rivera. Schiaffino e il suo capello ingellato, davano sempre l'impressione di muoversi nel futuro, in un'altra dimensione
Di Altafini ha sempre colpito il gusto pieno per la vita, con il gol, i sentimenti, il gioco a litigarsi il podio. Altafini è stato sontuoso goleador, della categoria riassumeva in se le migliori qualità, aveva scatto, progressione, tocco, trucchi assortiti, alternava perfidi svolazzi a fredde esecuzioni, era un gatto col gomitolo, castigava con tacchi e rabone, quasi vergognandosi nell'umiliare i portieri
Solo nel Milan 161 gol, due scudetti, quella Coppa Campioni del '63 vinta da capocannoniere. Altafini è stato un istrione, un improvvisatore, fosse stato più duro, più ambizioso, sarebbe forse diventato il più grande centravanti di tutti i tempi
“Una partita senza un gol è come l'amore senza un bacio”. JOSE' ALTAFINI
Gipo Viani, altro mito milanista, gli diceva sempre che era “nato vecchio”, perchè a 17 anni, Rivera, già debuttante in A, appariva straordinariamente maturo, strutturato. Già riuniva in sé, come scrisse Enzo Biagi, le virtù dello stinco e le capacità della mente.
Il Golden Boy col Milan ha vinto tutto, perchè è stato il primo Pallone d'Oro italiano, perchè disponeva di cartesiana visione di gioco, perchè usava i piedi come Mozart le mani, perchè la sensazione era quella che possedesse venti diottrie, un immenso data base. Rivera ha spalmato ovunque la sua diversità, incidendo nel costume, nella società, non ha solo incarnato il fascino irresistibile del numero 10
“Io l'allenatore potrei farlo dappertutto. Sarei tra Rocco e Liedholm. Rocco diceva: “Mì te digo de far questo e te digo de far quell'altro, però in campo te va tì”. Gli allenatori non devono mai essere protagonisti”. GIANNI RIVERA
Baresi e la sua aura quasi mitologica. Per la leadership dominante, l'istinto guerriero, l'interpretazione del ruolo di libero. Un re barbaro, potente, indistruttibile, con quel sorriso malinconico a scandirne qualunque impresa. Baresi e il suo fascino antiretorico, nessuno orpello a corredo della silenziosa vocazione al comando. Il magnetismo a fare scudo, in campo, fuori, a quella mitica difesa
Una figura totemica. Come diceva Sacchi: “Baresi è il mio zoccolo duro dentro la squadra”. Uno zoccolo che pensava per undici, micidiale nei takle, nelle chiusure in scivolata, una molla pronta ad allungarsi ovunque. Una regia, una visione che divenne oggetto di studio
“Baresi è dotato di uno stile unico, prepotente, imperioso, talora spietato. Si getta sul pallone come una belva, e se per un caso dannato non lo coglie, salvi il buon Dio chi ne è in possesso!” GIANNI BRERA
Aveva 10 anni Paolo Maldini, quando cominciò a sgambettare in rossonero, 16 quando debuttò in serie A, 41 quando lasciò, dopo aver vinto qualcosa come 26 trofei, polverizzando ogni record
E in tutti quei passaggi la sua visione romantica, la stessa conservata da dirigente, condivisa con Zvone Boban, prima con Leonardo, altri grandi custodi dei valori milanisti, è sopravvissuta a tutto, anche alla fama globale, vissuta in modo asettico, distante. Paolo è sempre rimasto fedele alla sua idea di bellezza, quella trasmessagli dal padre Cesare, il capitano della prima Coppa Campioni rossonera. E' in questo modo che Paolo Maldini è diventato il più forte terzino sinistro di tutti i tempi
Tutto ciò che produceva Marco Van Basten risplendeva di una bellezza disarmante. Qualunque fosse la dinamica dei gol, l'eleganza era sempre la stessa, si restava incantati. Non erano reti normali, scavalcavano la cronaca, erano tele già incorniciate, folgori da spedire in cineteca. Per questo, anche a distanza di decenni, non si è ancora estinto, né mai si estinguerà il lutto per il suo ritiro anticipato
Perchè Marco ha dispensato stupori convivendo col dolore, quello alla caviglia martoriata da mille interventi, circostanza che ne amplifica i meriti, la portata dei tre palloni d'Oro. E’ stato il genio che si combina all'efficacia. Un 9 con tecnica, intuizioni da 10. Il giocatore perfetto in una squadra perfetta
“Mi dite che sono stato il più grande, la verità è che ho giocato in una squadra imbottita di campioni”. MARCO VAN BASTEN
Trent'anni fa dedicò il Pallone d'Oro a Nelson Mandela, circostanza che ribadì la sua diversità, la stessa imposta sull'erba, con quella energia esplosiva a farlo diventare più personaggio di Rijkaard e Van Basten, ad acquisire piena centralità nel laboratorio di Sacchi
Lui era il Tulipano Nero, il Moro, Simba, l'uragano delle Antille, fu dirompente l'impatto di Ruud Gullit col calcio italiano, per la potenza atletica, lo spirito anarchico, i messaggi universali, l'impegno nel sociale, le spericolate curve sentimentali, per la sfrontata disinvoltura con cui diffondeva il suo manifesto di libertà, anche in un club inflessibile sull'etichetta
“Gullit è l'emblema del nostro gioco, togliere Gullit a noi sarebbe come togliere Maradona al Napoli, Platini alla Juve o Falcao alla Roma”. ARRIGO SACCHI
Gli occhi sbarrati del rigorista. Pozzi nei quali fermentava la tensione. Lo sguardo che saettava dall'arbitro al portiere. Un istante di solenne sospensione. L'essenza del ragazzo dell'est diventato il più prolifico marcatore nella storia del Milan dopo Nordahl, capace di issarsi sino al Pallone d'Oro innaffiando di sudore ogni conquista, proteggendo il candore delle origini
Il miglior Sheva rossonero è stato spietato finalizzatore. Tecnicamente completo. Inafferrabile nello spazio. I difensori li prendeva alle spalle, li bruciava nello scatto, li sorprendeva con eccezionale tempismo
“Sheva aveva una resistenza fuori dal normale. Non accusava mai la fatica, sembrava che tutto gli scivolasse addosso. Era una forza della natura. Un fuoriclasse stakanovista”. CARLO ANCELOTTI
Kakà si conquistò la devozione popolare, diffondendo la sua luce di brasiliano atipico, e non solo per l'estrazione borghese. Sempre a testa alta, mai perso in ghirigori, idea e azione fuse insieme, grazia quasi da ginnasta, da pianista, ma devastante quando, dominando lo spazio, il tempo, accelerava all'improvviso, arrivava lanciato ai venti metri, provava la soluzione da lontano
Toda joia, stile e stiletto, poesia in movimento. E a fine stagione, nella classifica del Pallone d'Oro, si lasciò alle spalle Messi e Ronaldo, fu l'espressione massima della fantasia brasiliana
Ecco l'undici dipinto- attraverso le foto dell'archivio AIC- da Giorgio Porrà all'interno dell'appuntamento "L'Uomo della Domenica" dedicato ai 120 anni del Milan. In onda da lunedì 16 dicembre sui canali Sky Sport, disponibile on demand e su Sky Go
