Castellitto: "Una volta esultai in mutande per la Roma"

Su Whatsapp c’è una foto che campeggia: il figlio Cesare in accappatoio con la sciarpa della Roma al collo. “Era appena uscito dalla doccia, mi piaceva”, racconta Sergio Castellitto, che con uno scatto rappresenta due dei suoi amori più grandi. “Sì, comunque era prima della partita contro il Como. Meglio lasciar perdere…” taglia corto. Perché per Castellitto la Roma è una componente costante della sua vita: gioie e dolori che lo accompagnano in settimana. Ma non diciamo ‘da film’, perché sarebbe un po’ scontato. Però la passione si sente. "E direi pure parecchio: in una scala da 1 a 10, è certamente 10. Mi piace definirla una passione ‘totale’, in famiglia ce l’abbiamo un po’ tutti quanti. Vengo da una generazione che ha conosciuto da ragazzino le gradinate di marmo della Curva Sud: andavo all’Olimpico con mio fratello. C’era un personaggio quasi mitologico, si chiamava Dante: era il capo della curva, un omone in canottiera che si portava i panini alla mortadella e arringava la folla. I cori erano meno bellicosi, sembravano più da commedia all’italiana. Qualche tempo fa ho fatto vedere a mio figlio più piccolo, Cesare, le foto in bianco e nero di quegli anni: anche lui, in qualche modo, ha potuto conoscere Dante". Anche quel nome, Dante, rimanda a un calcio che sembra appartenere a un’altra epoca. Le manca? "Dico la verità, un po’ sì. Ma siccome detesto sembrare uno alla ‘Si stava meglio, quando si stava peggio’, dico solo che ogni cosa ha una sua evoluzione e un suo cambiamento. Però non mi riconosco tanto in questa spettacolarizzazione: i giochi di luce, i concerti prima delle partite. È chiaro che il business abbia un po’ spostato gli equilibri: io ero abituato a calciatori – passatemi il termine – più poveri, figli di una piccola borghesia o addirittura della classe contadina. Questo però si vede anche negli altri sport: è un cambiamento epocale, non lo puoi fermare e non sarebbe nemmeno giusto criticarlo troppo". Però traspare un po’ di nostalgia. "Sì, ma è più di una mia generazione: i miei figli sono abituati a un altro tipo di spettacolo. Se c’è una parola che detesto in questo settore è ‘professionista’: è un concetto sbagliato, perché toglie ogni tipo di passione. Un calciatore non fa bene perché è un ‘professionista’: lo fa perché è un atleta e vuole vincere. Il ‘professionista’ cerca di fare bene il suo lavoro anche quando non gli va". Ma allora perché continuiamo a vedere le partite? "La cosa straordinaria del calcio è nel nome della Federazione stessa: è un ‘gioco’e resta sempre tale. Ti trovi allo stadio o sul divano o dove ti pare: quando comincia la partita, la dimensione storica della battaglia sportiva diventa la cosa più importante. Per questo ci piace sempre. Mio figlio Cesare è abbonato in Curva Sud, qualche volta anche di recente sono andato con lui: si percepisce il sapore di uno spettacolo abbastanza irripetibile. Alla fine è un po’ come andare a teatro, accade tutto in quel momento e solo grazie agli interpreti che sono lì in quel momento. È un passaggio molto potente". Teatro, non cinema? "In Italia non siamo molto capaci a fare il cinema sportivo. Riusciamo meglio a raccontare la psicologia. Gli americani sono più bravi con le grandi storie di sport: hanno molta padronanza. Uno degli esempi più belli secondo me è ‘Fuga per la vittoria’, il film con Michael Cane, Sylvester Stallone e Pelé sulla famosa partita della morte. Raccontare un uomo di sport o un evento sportivo è molto difficile: occorre una preparazione particolare". E suo figlio Pietro in ‘Speravo de morì prima’ l’ha fatta? Era solamente Francesco Totti... "Eccome! Faccio un esempio su tutti: Pietro è mancino, c’è una scena importante in cui deve tirare chiaramente con il destro. Ci ha messo parecchio, non era facile". Per un tifoso della Roma con passione a “livello 10”, conoscere Totti deve essere stato emozionante. "Loro si sono conosciuti, io purtroppo no. Francesco è stato davvero molto affettuoso con Pietro. Io credo che a Roma ci sia un prima e un dopo Totti, anche se questa piazza continua a mantenere quel tipo di tradizione calcistica di cui parlavo prima. Però non è un caso che Francesco se ne sia andato, ed è un peccato: la sua presenza significherebbe qualcosa, vorrebbe dire dare un peso anche all’aspetto emotivo, al cuore. È impensabile, oggi, avere un giocatore che per amore della sua squadra rinunci a grandi offerte da altri club. Però per fortuna c’è Ranieri: su di lui direi cose che già sappiamo, mi permetto di aggiungere che vive la Roma da appassionato, non da ‘professionista’. Io ero innamorato di Mourinho, che non avrei mai mandato via, come non avrei mai mandato via De Rossi. Ma purtroppo la dirigenza in carne e ossa, quella – scusatemi la nostalgia di nuovo – di Viola e Sensi è stata rimpiazzata un po’ troppo dall’algoritmo. E certe scelte diventano poco comprensibili. Vorrei aggiungere una cosa". Prego. "Se Pietro ha avuto la fortuna di conoscere Totti, a me farebbe piacere parlare proprio con Ranieri. Se dovessi immaginarmi un film, lo farei su di lui: l’epopea del Leicester appartiene a tutti, è stata un’avventura straordinaria. Mi chiedo ancora come ci sia riuscito. È stato un momento di enorme gioia". E lei? Quali sono stati i momenti emotivamente più forti da tifoso della Roma? "Parto da quello più devastante: il rigore sbagliato da Graziani nell’84, che regalò la Coppa Campioni al Liverpool. L’ho visto dalla tv: quell’errore ha rappresentato un trauma sportivo e psichico di un’intera generazione". A proposito, tra i tanti film e serie che l’hanno vista protagonista, c’è anche ‘In treatment’, dove interpreta il ruolo dello psicologo. Prima parlavamo di come siamo più bravi a raccontare storie di questo tipo rispetto alla classica narrazione sportiva. Un film su un atleta come potrebbe venire? "Beh, diciamo che, anche riallacciandosi al discorso del Leicester, sui giocatori esistono molte aspettative. E non credo che ci sia niente di più inquietante di un atleta che entra in depressione: deve rinunciare al suo temperamento, alla sua forza fisica. Ci sono stati tanti casi di perdita dell’autostima. Il rigore di Liverpool ha rappresentato, dicevo, un trauma sportivo anche per la squadra, non solo per noi tifosi. Ma per fortuna ho vissuto anche tanti momenti belli, tra cui quello dei tre gol al Barcellona. Quando ho festeggiato per strada in mutande…" Come? "Sì, in mutande. Ma non ero allo stadio, ci erano andati i miei figli: io non avevo la forza di vederla e ho preferito uscire a cena con mia moglie. Non volevo saperne nulla, siamo andati in un ristorante non lontano da casa. Pagando il conto, ho sentito che la Roma stava sul 2-0. Ero agitatissimo. Nel tragitto a piedi che mi portava a casa, avevo incontrato una pattuglia dei carabinieri e ho chiesto il risultato: “Ha appena segnato la Roma, 3-0”. Ho tenuto spento il cellulare, avevo chiesto quanto mancasse ed era esattamente il tempo che mi sarebbe servito per arrivare a casa. Ho fatto quei 3-4 minuti a piedi in totale silenzio, poi ho riacceso la tv: era finita. Mi sono spogliato, ho preso la bandiera della Roma, sono corso per strada a esultare. La foto? No, la tengo per me. Basta l’immaginazione…"

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Valentino Della Casa