Bruno Neri, il calciatore partigiano simbolo di Libertà e Visione

Visione. Ai suoi compagni, negli istanti pre-gara, è ciò che sempre raccomanda: "Quando si riceve palla, bisogna aver già deciso come giocarla". E' fatto così il centrocampista Bruno Neri, le idee chiare su tutto, non solo attorno al calcio, ai suoi segreti. Sulla libertà, innanzitutto. Sceglie di farne la sua bandiera nelle stagioni in cui il regime fascista, anche nello sport, allunga lugubremente i suoi tentacoli. Arroganza verso cui nutre un disprezzo mai celato. Neri, faentino, personalità dirompente, gioca da due anni nella Fiorentina, destinato a diventarne un pilastro, quando la vita lo obbliga a decidere da che parte stare. Con o contro i suoi princìpi. Accade il 13 settembre del '31, nella domenica scelta dal regime per inaugurare, con un'amichevole con l'Admira Vienna, il nuovo stadio di Firenze, modernissimo per l'epoca, voluto direttamente dal Duce. Quindi progettato a forma di lettera "D" e intitolato a Giovanni Berta, squadrista locale gettato nell'Arno da un operaio socialista. Sugli spalti 12mila spettatori, in tribuna un nutrito manipolo di gerarchi. Prima del fischio d'avvio, la consueta foto ufficiale. Che immortala la classica selva di mani tese nel saluto romano. Tutte, meno una, quella di Neri, che resta giù, incollata al fianco. Il peggiore oltraggio al protocollo. Uno schiaffo gonfio di ostile indifferenza. Negando l'omaggio alle autorità, Neri affigge, a 21 anni, nel pieno della carriera in ascesa, il suo manifesto antifascista. E' il rifiuto che lo consacra simbolo. Ma anche lo sgarbo che il regime lividamente annota, minacciando ritorsioni. Ma Neri tira dritto, ha le idee chiare, le ha sempre avute. E poi ha una mente aperta, coltivata con studi universitari, letture impegnate, pomeriggi nei musei. C'è persino chi giura di averlo visto conversare, in un caffè di Firenze, con Eugenio Montale. E in campo continua a scavare la differenza. Al punto da debuttare nella Nazionale di Pozzo nel '36 e a meritarsi la chiamata del Torino di Erbstein in odore di grandezza. Che sfiorerà, lasciando nel '40, dopo tre stagioni in granata, prima dell'avvio del leggendario ciclo. Ma allo scoppio della guerra Bruno Neri capisce che la partita si sposta altrove. Che il calcio, inteso come professione, dopo oltre duecento partite in Serie A, appartiene al passato. Che la sua Visione insegue altre prospettive. Non ha dubbi, come sempre. Sceglie ancora di stare dalla parte giusta della Storia. Lo fa arruolandosi nella resistenza partigiana sull'Appennino, diventa il vicecomandante Berni del Battaglione Ravenna in azione sulla Linea Gotica, responsabile del recupero dei lanci aerei degli alleati, viveri, armi e munizioni. Scende a valle una sola volta, nel maggio '44, sedotto dal richiamo della sua vecchia maglia, quella del Faenza, vestita per giocare un'amichevole contro il Bologna. Sarà l'ultima carezza al gioco, alla passione di una vita. Perché solo due mesi dopo, il 10 luglio, durante una perlustrazione nei boschi attorno all'Eremo di Gamogna, il calciatore Bruno Neri cade vittima di un'imboscata tedesca. Si spegne, a 33 anni, come era vissuto, da spirito libero. Ma la sua Visione resta testimonianza sempre accesa. Neppure scheggiata dalle raffiche naziste.

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Bruno Neri, il calciatore partigiano simbolo di Libertà e Visione

Giorgio Porrà