"Veni, vidi, vici": la storia di Antonio Conte

Antonio Conte e il Napoli, il big bang che scuote il calcio italiano, ne incendia lo scenario, con le fiamme alzate da un allenatore barricadero dentro un club tornato protagonista. È riesploso il Contismo che centrifuga fierezza e furia tellurica, assieme al gusto mai spento di riedificare dal nulla squadre di vertice, sfibrando anime e muscoli, imponendo regole non negoziabili. Il Conte partenopeo, in fondo, è il Conte di sempre. Forse non piace a tutti, ma non bluffa, non illude, e quasi sempre vince. Persino al primo colpo. Milleculure "Napoli è un luogo che sopporta qualunque definizione: di elogio, di invettiva, di scandalo e di salmo. Li mischia e ne fa fumo d’incenso, per sé e il suo golfo anfiteatro. Leggendario è il luogo in cui si accorpa il magnifico e l’atroce. Perciò Napul’è tutto nu suonno, dove sonno e sogno stanno compressi in un’unica parola, dove nessun forestiero è clandestino, tranne gli stonati che non sanno cantare né suonare. Napul’è e continua a essere la voce assetata di Pino Daniele". Tratto da “Con i battiti contati” di Erri De Luca Forse ha ragione Paolo Sorrentino quando sostiene che Conte e Napoli, al di là di peculiarità in apparenza distanti, sono fatti per piacersi, scoprirsi affini, crescere assieme. Sodalizio, in larga parte, già cementato. Nella capitale dei contrasti, tra splendori e oscurità, Conte ha trasferito i suoi, altrettanto marcati, furiosi, con l’indole dinamitarda, l’adrenalina a mille, a venire a patti con la necessaria lucidità imposta dal ruolo. E sinora l’equilibrio, comunque precario, Conte sembra averlo trovato. Come Napoli, nella sua storia. Nella città che, anche nel calcio, gli amori li scalda o li incenerisce, lui è il mattatore col potere di eccitare, o raffreddare, le corde della sensibilità popolare. Perché in pochi, come Conte, sanno allenare, assieme ai presidenti, anche le comunità, intercettandone i desideri, governandone gli umori, mai rinunciando ad esternare pubblicamente i propri malesseri. A volte, con durezza inquisitoria. Oppure usando il sarcasmo come arma contundente. Il Napoli vibra delle sue inquietudini, del maniacale perfezionismo. È solido dietro, si esalta nell’emergenza, è laboratorio tattico in continuo divenire. E dispone di quel raffinato sadismo che eleva ad arte anche il successo di corto muso. E poi distilla gocce di calcio sinfonico ma spiegando ai puristi che a volte la ragion pratica s’impone sulle seduzioni dell’estetica. Conte e il senso del bello, perché coglierlo soltanto nei lampi dell’artista? Anche se il funambolismo di Neres ruba l’occhio, incanta, quanto la classe di chi ormai appartiene soltanto a un glorioso passato. E nel luogo in cui resta viva, lo sarà in eterno, la memoria del più 'Grande', non poteva sfuggire il pellegrinaggio notturno del tecnico nei quartieri spagnoli per omaggiare Maradona, a quattro anni dal suo distacco. E il Conte raccolto davanti all’altare pagano, nel clima sospeso da realismo magico, resta l’immagine più simbolica del suo decollo partenopeo. Quasi un’urgenza di benedizione in quel santuario a cielo aperto. Certo, Conte a Napoli è ancora romanzo tutto da scrivere, ma i primi capitoli, tra picchi di grandezza e sporadiche flessioni, già pompano quell’energia creativa che odora di best seller. E non sarebbe una sorpresa vista la sua abitudine alle corse di testa, agli obiettivi centrati in mezzo a qualunque difficoltà. La panchina come trincea, luogo di comando, di dispotico dominio, non avrai altro sciamano all’infuori di me. Ogni ordine teso a ribadire la centralità della sua figura. E la tenacia nell’investigare a fondo le coscienze, piegandole al bene comune. Ma senza mai rinnegare, ed è Sorrentino a suggerirlo, la sua dimensione sentimentale, parte integrante del Contismo, dei suoi miilleculure, da sempre tenuta al riparo dall’incessante frastuono scatenato dalle sue missioni. Strada “Antonio, guarda in fondo alla strada. Papà sta arrivando con un macchinone" grida mio fratello Gianluca. "Mamma mia com’è bella, tutta azzurra, cromata" dico a mia madre con gli occhi che scintillano. Papà Cosimo è a bordo di una fiammante 131 Fiat. Dev’essere il suo ultimo acquisto, lui noleggia auto. Quando arriva a pochi metri da casa, tira fuori la mano sinistra dal finestrino per invitarci a salire. Gli amici sono tutti in cortile, accarezzano l’auto, ci infilano dentro la testa per ammirare gli accessori. "Papà dai accelera" urliamo io e mio fratello. E lui implorante: “Ragazzi, calma, non è che la dobbiamo sfasciare subito, mi serve per i matrimoni!” Tratto da “Testa, cuore e gambe” di Antonio Conte con Antonio Di Rosa Il Conte ragazzo assai simile a quello adulto. Almeno così garantiscono le tracce biografiche. La strada come casa, territorio fascinoso, scivoloso, in quell’infanzia leccese con pochi soldi e rigidissimi codici familiari. Sempre elettrico, impaziente, in conflitto con se stesso, con l’ambiente, divampa già lì, nei turbolenti Settanta, quella tempesta emotiva che andrà a scandire la sua avventura nel calcio, il modo viscerale di scandagliarne ogni aspetto, da fighter in servizio permanente. E poi il destino preso a morsi, senza scorciatoie, con l’urlo di Tardelli in tv a tracciargli le coordinate, ad escludere piani alternativi. Il futuro, per lui, non è mai stato un’ipotesi. Gli è bastato allacciarsi le cinture. Conte agguanta il Lecce a 12 anni, la serie A a 16, la Juve a 22, comincia dando del ‘voi’ a Baggio e Schillaci, si tempra con Trapattoni, diventa leader con Lippi, s’impone da capitano, vince tutto con Vialli e Del Piero. Un impasto di muscoli, tacchetti, senso tattico, polmoni stracciati. Lui c’è, ovunque, quando si veste d’azzurro, quando riaffiora dai tanti infortuni. La tigna è quella e quella resta. Le radici non tradiscono, figurarsi quelle pugliesi. Il gioco, la vita, mai presi di striscio. Il Conte mediano uguale a quello in panca, tira una riga sull’erba, pianta lo sguardo sul nemico. Per poi sorprenderlo con intuizioni improvvise, come certi gol in Europa, quello in mischia all’Olympiakos nella bolgia di Atene o quella rasoiata allo United a spettinare il ciuffo di Beckham. Trionfi e tonfi, sempre rumorosi, nella Conteide mai scampoli di banalità. La sconfitta come un lutto, sorta di morte apparente, lo scudetto annegato a Perugia, la Champions sfilata dal Milan. Ma anche l’orgoglio, le unghie per risalire burroni in sequenza, per poi cancellarli dalle mappe. Come quando da piccolo, su quelle strade di quartiere, sapeva riconoscere gli inganni, sottraendosi ai precipizi. Rinascita Glasgow. 12 Febbraio 2013. Ore 20.43. Quanto tempo ci vuole per ripercorrere mentalmente il film della propria esistenza? Io l’ho fatto stare tutto in pochi minuti e in pochi metri, sono arrivato alla fine del tunnel che porta in campo. Celtic-Juventus sta per cominciare, ed è una serata magica, non solo perché segna il mio debutto da allenatore in Champions League. Oggi si chiude il capitolo più brutto della mia vita. Dall’ingiustizia del calcioscommesse sono uscito più maturo, un uomo diverso che si è lasciato alle spalle la mediocrità di quanti hanno provato a trascinarlo nel fango. Il futuro comincia oggi. So che non camminerò mai da solo. E adesso, andiamo in campo per vincere. Tratto da “Testa, cuore e gambe” di Antonio Conte con Antonio Di Rosa Quegli istanti speciali che restituiscono il senso ad una storia, a una esistenza. E la panchina a un professionista in castigo. Ad Antonio Conte accade in quella notte scozzese di 12 anni fa, quando con la Juve esordisce in Champions battendo il Celtic 3-0 negli ottavi d’andata. La fine dell’incubo, ventidue partite ufficiali saltate per squalifica. E l’inizio della rinascita, o forse, qualcosa di persino più potente. Perché è a Glasgow, in quegli attimi pre-gara, che Conte comprende di essere cambiato nel profondo. E che i caratteri più solidi sono quelli cosparsi di cicatrici. Nasce lì il Conte incontenibile, che assembla squadre pattuglia con applicazione feroce. Che se ne infischia di tendenze, profeti, suggestioni avanguardiste, convertendo i veleni in energie, i furori in guerre sante, incentrando il lavoro attorno al ferreo dogmatismo, al potere persuasivo capace di indirizzare con decisione le campagne acquisti dei suoi club. Conte l’incontentabile, che insegna solo il suo calcio doc, privo di barocchismi, ideologie da affermare, con quei tumulti in panca a svelarne di continuo le pulsioni da rockstar, il gusto sfacciato di cavalcare l’istinto. Coerenza di sistema, di filosofia, attorno a cui poggia il suo Vangelo, la narrazione dei successi. Centrati, quasi sempre, in tempi rapidissimi, ovunque abbia allenato. Con la Juve tre scudetti in sequenza, il primo da imbattuta, il terzo col record di punti. La raccoglie nelle tenebre, le restituisce credibilità etica, passione competitiva, creando spogliatoi setta, perfette alchimie, individuando e liberandosi all’istante di chi non aderisce all’atto di fede. Del resto, è cosa nota, con Conte non si finge, gli alibi non esistono, si è obbligati a condividere il diavolo che gli brucia dentro. “Un allenatore deve incidere in profondità - tra i suoi mantra preferiti - non fare meno danni possibili”. Racconta Andrea Pirlo che se potesse tornare indietro solo una cosa, di quel periodo, non rifarebbe: scegliere il posto vicino a Buffon nello spogliatoio dello Juventus Stadium. Perché spesso negli intervalli Conte piombava furibondo, lanciando nella sua direzione tutto quello che gli capitava tra le mani. C’era sempre qualcosa che non gli andava a genio, si accorgeva dei dettagli più sommersi, sapeva in che modo avrebbero inciso in negativo. Si arrovellava attorno alle più efficaci contromisure. E scegliere proprio Pirlo come totem di quella Juve, è sottile calcolo strategico, conquistandone la fiducia, spremendone il genio, struttura il gruppo attorno al suo disegno, la costruzione di una squadra duttile, mobile, trasformista, una squadra cannibale, affamata di idee in perenne movimento. “Non è vero - ringhia spesso Conte - che nel calcio non s’inventa più nulla, o che i moduli sono soltanto numeri, qualunque sistema racchiude sempre logiche creative”. La sua Juve resta sospesa tra ragione e sentimento, innesca con la sua gente una formidabile corrente emozionale, spiega quanto sia premiante convertirsi senza indugi al culto del lavoro. Tre stagioni eccezionali, Europa a parte, ma prosciuganti, spinte all’eccesso, imbottite di sacrifici da marines. Al punto che il distacco dal suo ispiratore è – sì – traumatico, ma forse inevitabile, complici anche visioni non più coincidenti. Conte lascia con un solo cruccio, non aver completato la promessa fatta alla proprietà, riportare la Juve in cima al mondo. Ma in quel solco straordinario il club edifica il suo Rinascimento. Mentre lui si dedica a quello azzurro. Altra sfida in linea col suo spericolato percorso. Officina L’Europeo 2016 è finito e Conte saluta. Non ha vinto e non è neppure riuscito a difendere la finale di quattro anni prima con Cesare Prandelli, eppure lascia con il vento in poppa. Perché la sua idea di calcio ha premiato una Nazionale figlia di un movimento in crisi, perché ha battuto Belgio e Spagna e messo alle corde la Germania, perché ha restituito dignità all’Italia. L’onore è salvo e l’eredità di un uomo solo al comando non andrà sperperata. Tratto da “L'eredità di Conte” di Alessandro Bocci L’Italia di Conte, squadra d’acciaio, montata in officina, fondata sul potere operaio, sulla flessibilità tattica, sul sentimento solidale, capace di riaffiorare di prepotenza, senza il sostegno di fuoriclasse, dal medioevo tecnico nel quale era precipitata. Bellezza nuova, mai vista prima, sbocciata attorno ai principi della scuola italiana, contianamente modernizzati. Metodo che finisce per sedurre l’Europa, attratta dal secchionismo del C.t., dalla riscoperta degli esterni, dall’equilibrio nelle due fasi. E non solo. In quell’Europeo francese, affamato di novità, Conte sfodera un profilo irresistibile anche a livello mediatico. Quello del coach che detesta il bon ton, la dichiarazione precotta, l’algido understatement, la natura ingabbiata da diplomatiche museruole. Col linguaggio del corpo a bucare il video ad ogni apparizione a bordo campo. Alla fine, Conte si rivela l’espressione più pop di quella avventura azzurra, con l’etichetta di innovatori a sovrapporsi a quella di imbucati, con lo stop alle ambizioni imposto ai quarti solo al nono rigore dalla Germania campione del mondo. E la sua eredità, sorta di manifesto futurista, capace di restituirci credibilità internazionale, colpevolmente dispersa dopo il suo distacco. Ossessione Conte e la sua visione totalizzante. A Torino, sul tavolo del suo studio, c’era sempre un Subbuteo con squadre schierate, perché spesso si svegliava di notte con una idea nuova da provare all’istante. Non riesce mai a staccare Antonio. E neppure a cambiare abitudini. Come quella di prendere, e rivitalizzare, squadre reduci da stagioni opache. Accadde anche col Chelsea e con l’Inter. "Con me si lavora come si deve - ama ripetere - ma non sono io che faccio lavorare troppo, sono gli altri che fanno lavorare poco. Tratto da “Vedi Napoli e poi... voli” di Andrea Di Caro L’effetto Conte nell’Inghilterra della Brexit, uscita stordita dalle urne, con la paura del nemico in casa. Beh, l’impatto fu quasi straniante. Eppure, quel curioso tipo di Italiano, trovatosi a fare da ponte con l’Europa, finì per sbalordire, per farsi apprezzare, anche oltremanica, spigoli compresi. Prende il Chelsea, solo decimo l’anno prima a 31 punti dal Leicester di Ranieri, lo ribalta sul piano tattico, restituisce smalto a talenti smarriti e lo conduce, nel suo biennio, a trionfare in Premier e in FA Cup, con Kante a fare Pirlo, Diego Costa, Hazard prodigi a pioggia. Imprese da vincitore seriale. Anche in Inghilterra attinge a piene mani al serbatoio del suo integralismo, corregge il regime alimentare, impone nuove regole, allinea i più riottosi, addestra anche i media alla comprensione del suo decalogo. Ecco, magari Abramovich, visto come finì il rapporto, non fu tra gli alleati più devoti. Ma quella è un’altra storia, meno elettrizzante. E poi, all’orizzonte, un’altra scommessa prendeva forma. Conte irrompe nel mondo nerazzurro deciso ad andare ‘oltre’, le suggestioni mourinhiane, certo, subito accese dal suo sbarco, ma non solo, anche oltre la dimensione tecnica. Perché l’idea vagamente eversiva è quella di incidere sui sacri cardini dell’interismo, plasmandoli a propria immagine e somiglianza. Di fatto il tentativo di affrancare il club dalla sua epica romantica, letteraria. L’Inter come forma d’azzardo, in bilico tra estasi e dannazione, trasformata in qualcos’altro, in creatura meno bizzosa, non votata al martirio, ma felicemente prigioniera della dittatura delle sue ossessioni. Persino più ossessive di quelle firmate Mourinho e Mago Herrera. Conte smonta, spedisce agli archivi, la celebre, e datata, sentenza breriana, Inter squadra femmina, passionale, volubile, agli antipodi del pragmatismo juventino. Lo fa alla sua maniera, sferzando la proprietà, allora Suning, per ottenere quanto promessogli, Lukaku su tutti, e disegnando una squadra razionale, verticale, che intimidisce sulle corsie, fiuta, afferra l’attimo. “Chi punta su di me - è il suo monito ai distratti - sa bene cosa pretendo”. Due stagioni intensamente vissute. E gonfie di innovazioni che lasciano il segno. Nella prima Conte sfiora l’Europa League, piegato in finale dal Siviglia, nella seconda si prende lo scudetto, da 11 anni inseguito dall’Inter, interrompendo il lungo regno juventino. È la svolta che produrrà effetti benefici su tutte le successive versioni nerazzurre. Che Conte monitorerà a distanza, impegnato, come d’abitudine, ad imbottire di nuove ossessioni il suo insistito nomadismo d’autore. Amma faticà Antonio Conte sta coltivando una missione sommersa: diventare il primo allenatore del Sud a far trionfare una squadra del Sud. E sarebbe una prima volta non banale che andrebbe a frantumare un pregiudizio antico: che in una piazza calda come quella di Napoli sia necessaria una guida gelida, cerebrale, per compensare la dispersiva euforia. Conte non è nato per gettare secchiate di ghiaccio ma per aggiungere fuoco al fuoco. È lui il Maradona di questo Napoli. E il quarto scudetto celebrerebbe l’orgoglio del Meridione come mai in passato. Tratto da “La missione di Conte: il primo vero Scudetto tutto Made in Sud” di Luigi Garlando . Nella città dipinta dai suoni, i suoni degli scudetti restano in sottofondo. Infiammano. Confortano. Pulsano sottopelle. Niente può silenziarli. Anzi, compongono musica sempre nuova. Perché gli scudetti maradoniani, come l’ultimo capolavoro, sono diversi da tutti gli altri. Hanno un’anima speciale. Sono traguardi di un popolo, solo dopo, successi sportivi. Conte lo sa, di scudetti se ne intende. Sa che vincendolo col Napoli, dopo averlo rifondato, andrebbe ad affiancare in eterno, godendo di devozione tramandata, chi, prima di lui, aveva riscritto la storia, depurandola dai pregiudizi, dai falsi cliché. Prima, con Diego, cancellando l’idea ancestrale di Napoli condannata alla supina accettazione della propria subalternità. Poi, con Spalletti, illuminando il suo già esplosivo rinascimento creativo, il salto in avanti verso un’identità ancora più riconoscibile. Il nuovo Napoli poggia sullo slogan proletario del suo stratega, amma faticà, ma certi sogni sbocciano anche in fabbrica, quando la classe operaia progetta la rivoluzione. E questa, con modalità differenti, accende sensazioni già vissute in passato. Veni, vidi, vici è il motto che scandisce il lungo viaggio di Conte. Testarne l’infallibilità a Napoli col Napoli è il brivido sul quale ha scelto di surfare. Ed è vertigine alla quale diventa impossibile sottrarsi.

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Giorgio Porrà