Edoardo Bove a Sanremo: un inno alla vita che è come una canzone d'amore

Se mille violini, o anche uno solo, avessero suonato sotto le parole di Edoardo Bove sul palco di Sanremo, avremmo avuto tutti il dolce inganno di ascoltare una canzone. Una canzone d’amore, come altre se sentono in quel teatro, come quella che ha vinto, che non può essere più intensa del suo racconto: anche lui in fondo ci ha parlato di una balorda nostalgia che lo fa soffrire, con cui sta imparando a convivere. Ne avremmo avuto l’illusione non solo per la sua voce fresca eppure così profonda, così profondamente intonata con i sentimenti che stava svelando, non solo perché oggi i giovani come lui spesso parlano sulle basi musicali, scrivono barre e le declamano con rabbia, ma perché più che frasi, quelle di Bove assomigliavano a versi, versi delicati e dedicati al gioco del calcio, uscito per ora dalla sua vita proprio come a volte capita con le persone amate. Le ho segnate su un’agenda come facevo da ragazzina sul diario con i testi delle canzoni belle che non volevo dimenticare, che ai tempi stavano sempre dopo un verso di Jim Morrison e prima di uno di Kurt Cobain: chissà se si usa ancora trascriverle, ora che per rileggerle basta un dito. E allora ecco, nella pagina del 15 febbraio, la strofa di Edoardo: “Mi sento un pochino incompleto, un po’ vuoto, come se mancasse qualcosa. So che ci vuole tempo e ci vuole tanto coraggio”. A un ragazzo di ventuno anni puoi chiedere coraggio, ma non tempo, non pazienza. A ventuno anni non assaggi la vita, la divori, eppure prima lo impari che ci vuole tempo e meglio cresci. Bove lo ha già capito e non era scontato: il suo tono era quello di chi sembra aver già fatto pace con quello che gli è successo, o quanto meno accettato una tregua. Non ci sono tracce di rabbia in quello che ha detto, in quello che ha fatto in quasi tre mesi, nei suoi passi silenziosi a bordocampo, messi in fila sullo sfondo di vittorie e sconfitte, con una dignità disarmante, ammirevole, sempre presente ma mai ingombrante. Discreto, misurato, in tutto, come dimostra quel “pochino” incompleto, quasi a ridimensionare la sua vicenda, la sua sofferenza, il suo vuoto. Cosa ci rende completi davvero? Sabato notte Bove ci ha costretto a porci la stessa domanda, ma senza volerlo ci ha indicato anche la risposta. La passione ci rende completi. Poterla assecondare, potersi abbandonare a una passione ci rende pieni e compiuti, come nei due significati di quell’aggettivo. Soprattutto se quella passione ci permette di esprimerci. “Io sto vivendo questa esperienza tra alti e bassi. Per me il calcio è la mia forma di espressione, senza di esso non mi sento lo stesso, sento che manca qualcosa, è come per un cantante la voce”. Il calcio come la voce, una metafora suggerita dal contesto certo, ma che a ripensarci suona perfetta, un modo per liberare e dar forma alla propria energia. Serve fiato per cantare, serve fiato per giocare, proprio quello che a Bove è mancato sul campo di Fiorentina-Inter, cambiando il corso degli eventi, deviando la sua vita fuori dal campo. “Mi ritengo fortunato” ha aggiunto sul palco di Sanremo ed è stato un sollievo sentirglielo dire, sapere che abbia già messo a fuoco quello che a tutti da fuori appare evidente, ma da fuori appunto. “In 13 minuti ero all’ospedale”. In 13 minuti, lo ha ripetuto due volte, e per chi orbita attorno al mondo viola quel numero abbinato ai minuti sarà suonato così tremendamente familiare, una di quelle coincidenze che drizzano la schiena. È al minuto 13 che all’Artemio Franchi si ricorda Davide Astori con un applauso: 13, come il numero del Capitano che oggi non c’è più, perché le circostanze possono fare la differenza. “Il mio episodio mi ha fatto capire quanto la linea tra la vita e la morte sia sottile e quanto noi dipendiamo da chi ci è accanto, anche persone estranee. Nel momento in cui c’è più informazione sul Primo Soccorso siamo tutti più al sicuro” ha detto, o forse persino cantato Edoardo Bove sul palco di Sanremo, mandando un messaggio culturale potente, ricordando che a volte è proprio la conoscenza e la prontezza degli interventi di primo soccorso a tracciare quella linea, non il destino. Ha avuto una palla buona sul palco di Sanremo Bove e non l’ha sprecata, anzi. Ci ha scritto sopra tante parole preziose e le ha calciate in platea, poi ha bucato lo schermo e le ha fatte rotolare ai piedi di 13 milioni di persone. Il futuro di Edoardo Bove oggi è un pentagramma vuoto, ma c’è da scommettere che non resterà bianco a lungo. Una volta trovato il primo accordo, il resto della melodia verrà da sé per un ragazzo così. Senza calcio si sente muto ma sbaglia: la sua voce è così forte, così piena, così completa, da sembrare un coro.

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