Antonio Conte, il filosofo della vittoria

“L’intima essenza delle cose è estranea al principio di ragione. Essa è la cosa in sé, e questa non è altro che volontà: la quale è perché vuole e vuole perché è. La volontà è in ogni essere la realtà assoluta”. Bisogna partire da questa riflessione di Arthur Schopenhauer per comprendere la visione del mondo di Antonio Conte e il suo approccio al mestiere di allenatore. Il suo atto creativo risiede in effetti proprio nella volontà: ferrea e assoluta in quanto essenza della realtà. Al di là del razionale, dei processi logici e di qualsiasi forma di relativismo o scetticismo. Conte insomma è un esponente del pensiero forte che nel calcio si traduce in comandamenti semplici ma efficaci: dedizione, fatica, maniacale attenzione ai dettagli non strettamente calcistici quali l’alimentazione e la cura della disciplina comportamentale. E in effetti la sua carriera è costellata di aneddoti che testimoniano questa sua adesione ‘filosofica’. Non è un caso, infatti, che la preparazione fisica cui sottopone i suoi giocatori, soprattutto in ritiro e cioè all’alba di ogni stagione agonistica, sia massacrante: si narra di atleti colti da nausea o malori al termine di sessioni sfibranti e di altri costretti a lunghe terapie con ghiaccio secco per lenire le conseguenze dell’estrema fatica. Ma in questo non c’è nulla di sadico, né tantomeno di ideologico. In altre parole non c’è l’attitudine a portare alle estreme conseguenze una verità scientifica acclarata, quella cioè che attiene alla ‘benzina’ da infondere nei muscoli dei giocatori in vista di stagioni impegnative e logoranti. No, c’è soprattutto un aspetto psicologico, che riguarda l’abitudine alla sofferenza, l’apprendimento della resilienza, la capacità di reagire alle difficoltà chiedendo a sé stessi di fare un passo oltre i propri limiti. Quello che Conte chiede costantemente a sé stesso e che pretende dal gruppo che di volta in volta è chiamato a guidare. Ed è in quest’ottica che occorre leggere la sua scelta di accettare incarichi quasi esclusivamente in club reduci da risultati opachi: ha preso la Juve dopo due settimi posti consecutivi, il Chelsea dopo un decimo posto, l’Inter dopo un quarto posto , il Tottenham dopo un settimo posto, il Napoli dopo un decimo posto. Portandoli tutti alla vittoria . Non si tratta di un mero calcolo opportunistico, come molti potrebbero pensare: alla base di questa logica, insomma, non c’è l’idea che un club sprofondato nell’anonimato abbassi le sue ambizioni al punto da consentirgli di lavorare senza pressioni. Al contrario. Semmai è lui stesso a generare quelle tensioni interne fondamentali per orientare il rendimento. E per questo ha bisogno di un ambiente deluso ma sensibile alle motivazioni revanchiste, ambizioso ma senza sfumature di supponenza. Conte, insomma, è un abilissimo architetto che vuole e deve costruire dalle fondamenta e non un manutentore di palazzi che al massimo abbiano bisogno di lievi accorgimenti estetici. “Volli, sempre volli, fortissimamente volli” è il suo mantra. E come Alfieri è un fedele e determinato servitore della volontà, motore immobile di clamorose imprese e architrave di qualsiasi suo progetto calcistico. Mille e mille volte ha fatto riferimento al lavoro come unica strada per colmare lacune e intraprendere il sentiero del successo, perché solo attraverso l’ossessiva applicazione è possibile crescere. Certo, il calcio è anche tattica, tecnica e talento. E Conte lo sa bene, avendo frequentato da giocatore quell’alchimia di caratteristiche che, fuse insieme, formano una squadra e quella disciplina tattica che le consente di diventare vincente. Ma questi sono solo strumenti professionali, come il pennello per un pittore o il pregiato marmo per uno scultore, che lui padroneggia con grande perizia. Ma il talento per sua natura è soggetto a variazioni di luce e la tattica per sua natura è lo scheletro che senza nervi, muscoli e anima non sta in piedi. E’ la volontà l’unica forma di energia capace di trasformare il potenziale in reale. Antonio non passerà alla storia per aver inventato nuovi mondi come il tiki-taka di Guardiola o il calcio totale di Michels, ma della storia ha un’idea ben precisa: “chi vince la scrive, gli altri al massimo vanno a leggerla”. Idea opinabile, visto che ci sono emozioni che affondano nel mito senza che portino necessariamente un trofeo e trofei che non necessariamente assurgono allo status di ‘storico’, ma che tuttavia ben definisce un processo ideale: in un contesto competitivo, a cosa deve tendere l’atto creativo della volontà se non al successo? La Nike, per gli antichi greci, era la dea della vittoria. Non decideva a chi offrirla , ma la sanciva e la decretava. Era bellissima, alata, e probabilmente è divenuta il modello antropomorfo dell’angelo nella cultura cristiana. Ecco, Conte ne è certamente un fedele adepto, una sorta di ‘sacerdote’ che alla voluntas degli dei ha sostituito quella teorizzata da Schopenhauer. Solo così si spiegano i rari ma eclatanti casi di frizione portati alla frattura con certi giocatori, quali per esempio David Luiz o Diego Costa al Chelsea. Il gruppo tendenzialmente lo ama, in virtù della compattezza che riesce a creare all’interno dello spogliatoio. E lui normalmente ‘coccola’ i suoi ragazzi acuendone le motivazioni e valorizzandone le qualità. Ma il suo metodo non è buonista o di immediata comprensione: gli è capitato spesso di sottolineare brutalmente le violazioni alle leggi interne, persino con giocatori simbolo come Buffon, che un giorno chiese di discutere i premi scudetto prima della consueta analisi tattica nella sala video alla vigilia della pleonastica ultima partita di un campionato stravinto con la Juventus. Senza contare le tantissime lamentazioni pubbliche, offerte a telecamere e taccuini di mezzo mondo, che Conte ha messo in fila su vicende di mercato. L’accusa quasi sempre concettualmente identica: dalla poca ambizione imputata alla Juve, ai ritardi attribuiti all’Inter , dalle scelte societarie nerazzurre alle resistenze di alcuni dirigenti del Chelsea , dal j’accuse al Tottenham alla stilettata napoletana . La logica sembra stringente e foriera di conseguenze pericolose: se il gruppo sente costantemente lamentele riguardo la costruzione e la struttura della rosa è probabile che si senta ben poco stimato, si potrebbe pensare. Perché mai i giocatori dovrebbero dare tutto a un uomo che non perde occasione di ricordare che i campioni sono altrove? E invece la lettura di certe provocazioni va interpretata in modo esattamente antitetico, perché c’è sempre la Volontà alla base di tutto: non siete i più forti, ma potete dimostrare di essere i migliori. Fate vedere al mondo che siete in grado di battere, superare e vincere squadre più ricche, più abbondanti e dunque più supponenti. Seguitemi fino all’estremo e sarete ripagati. E questo lo lascerebbe intendere anche se fosse convinto di avere a disposizione le tessere più preziose del mosaico calcistico mondiale, perché è la testa a portare le vittorie, non certo il talento fine a sé stesso o gli stipendi milionari. Solo chi entra in questa dimensione di totale dedizione può aderire al progetto Conte. E se la maggioranza dei suoi atleti lo ha capito a qualunque latitudine, può capitare che qualche personalità digerisca a fatica il suo metodo e se ne affranchi, come in tempi recenti è capitato, almeno in parte, ad Osimhen e Kvaratskhelia. Se dunque questo aspetto è più strategico che emotivo, la visione del mondo di Conte sembrerebbe vittima di una contraddizione: da una parte la scintilla irrazionale, la Volontà. Dall’altra la lucida razionalità nel perseguimento del fine. Come è possibile? Forse conviene chiedere aiuto a Max Weber e al suo saggio sulla “Politica come professione”. L’uomo politico, per Weber, deve avere tre caratteristiche: passione, senso di responsabilità e lungimiranza. Le prime due in Conte le abbiamo già indagate: adesione a una causa con conseguente responsabilità e dedizione totale. Ma la terza, che c’entra? C’entra eccome, perché lungimiranza è, per Weber, distacco, lucidità e controllo dell’animo rispetto a una realtà che opera sugli individui. E’ proprio la mancanza di distacco a costituire il peccato mortale di un politico che, dunque, per essere un ‘buon’ politico agisce sì, per passione e asservendosi alla causa, ma usando il cervello, la razionalità, per controllare e orientare la sua azione. Altrimenti è fatalmente condannato a restare un dilettante che si agita a vuoto. Basta sostituire la parola ‘politico’ con ‘allenatore’ e la teoria regge perfettamente, perché in fondo qualsiasi attività umana che abbia una valenza sociale sottostà a questo processo. Ecco, la professione intesa come un virtuoso procedimento che attinge all’irrazionale e al razionale: questa in definitiva è la filosofia di Conte. Che infatti ha sempre visto come distorsione l’etica dell’appartenenza fideistica: quando gli chiesero, da allenatore bianconero, quanto incidesse la sua juventinità sulle sue scelte future, sbottò quasi indignato: “Sono un professionista e devo valutare progetti e prospettive. Se in futuro me ne capitasse uno convincente proposto da società storicamente rivali della Juve, come Inter o Milan, lo prenderei in seria considerazione”. L’onestà intellettuale è virtù da praticare sempre, ma la fedeltà riguarda la professione, non i colori di una maglia. Ed è per questo che Conte da sempre asserisce di essere il primo tifoso della squadra che in un determinato momento è chiamato ad allenare. Perché l’amore irrazionale e passionale dei tifosi è senza tempo, ma quello connesso a un’esperienza professionale intesa in modo così intenso e profondo ha una scadenza. E anche qui si sentono nitidi i riverberi weberiani: passione e lungimiranza. Che sono al contempo il segreto del suo successo e il limite temporale della sua progettualità, che mai gli ha consentito di restare nella stessa piazza più di due anni . Sì, perché Conte non è ipocrita e la sua dimensione comunicativa è basata sulla franchezza, anche a scapito della diplomazia. Il suo metodo è vincente nella creazione di una virtuosa coesione nello spogliatoio, ma presenta spesso controindicazioni nella gestione dei rapporti con i ‘potenti’, vale a dire i proprietari e i dirigenti con i quali di volta in volta si trova a confrontarsi su progetti e futuro. Spesso ha l’impressione che il cambio di passo che imprime alle sue squadre non corrisponda alle dinamiche societarie, generando così una crescita a due velocità che rischia fatalmente di implodere. Il suo aziendalismo, in altre parole, risiede nel successo e nel prestigio che regala con il suo lavoro più che nell’adesione aprioristica alle logiche dei singoli club. Ed è per questo che non ha mai dato l’impressione di essere un dipendente, per quanto ben retribuito, delle società per cui ha lavorato, ma al contrario una coscienza critica che agisce come il tafano socratico che instancabilmente punzecchia la sua Polis per farla riflettere. Conte da allenatore ha partecipato a 14 campionati complessivamente, in 9 società diverse. Solo 10 volte è stato sulla panchina per l’intera stagione, dall’inizio alla fine. E ha vinto 8 volte, un’enormità. Solo al suo primo anno di Inter e al suo secondo di Chelsea non ha festeggiato il massimo obiettivo possibile. Ma a Bari e Siena ha conquistato la Serie A, mentre con Juve , Inter, Chelsea e Napoli ha offerto ‘sacrifici e libagioni’ alla dea Nike, ormai sua compagna di viaggio. Eppure non si è mai lasciato con sorrisi colmi di appagata serenità: fu così con Matarrese a Bari, con Agnelli alla Juventus, con Zhang all’Inter, con Abramovich al Chelsea e con Levy al Tottenham. Solo dal Siena se ne andò con lacrime di gioia e riconoscenza, ma allora l’addio fu determinato dalla irrinunciabile chiamata della Juve cui nessuno, nemmeno in Toscana, poteva opporsi. Napoli lo ha accolto come il Mister Wolf che in Pulp Fiction risolve problemi. Lo ha adottato, stimato, supportato e infine venerato. Perché solo lui poteva raddrizzare una nave che nel giro di una sola stagione si era trasformata da potente veliero in triste bagnarola. E anche qui ha impresso la stessa folle accelerazione che aveva garantito ovunque: una media punti ben superiore a 2, come a Torino, Milano e Londra. Solo sulla sponda Spurs il suo rendimento è calato. Ma spesso si tende a dimenticare che prese la squadra in corsa portandola, in rimonta, sino al 4^ posto, per altro facendo registrare una media punti inferiore solo a quella che da quelle parti aveva ottenuto Pochettino. Il poco feeling con la proprietà, soprattutto nelle successive operazioni di mercato, e le sue conseguenti dichiarazioni lo consegnarono poi a un esonero inevitabile. Napoli è stato il suo immediato riscatto, la dimostrazione che la sua visione non soffre delle insidie del tempo. E Conte per il Napoli è stato l’immediato sollievo, la dimostrazione che lo scudetto di Spalletti non era una felice parentesi in una storia da attore non protagonista. Ma per la gente, per la città, lui è stato ben più di questo: Napoli sa riconoscere l’amore e sa restituire gratitudine a chi le dedica cura e attenzione. Perché nella storia è stata tradita e avvilita troppe volte per non abbracciare chi le si offre con onestà. Lo avrebbe fatto anche con la beffa finale, anche di fronte all’amarezza di uno scudetto sfumato sul più bello. A maggior ragione, evidentemente, nell’estasi del trionfo e a prescindere dal futuro. A ben vedere dunque Conte vince anche nelle rare occasioni in cui non gli riesce. E lo fa dedicando tutto sé stesso alla causa, consumandosi nel costante superamento del limite. Le sue esultanze non sono mai sorridenti e gioiose, ma rabbiose e liberatorie come il lampo che scarica l’energia sofferente accumulata nel tempo, quasi a incarnare la condanna di Schopenhauer: la Volontà è assolutezza che spinge a inseguire l’infinito, mentre la realtà fenomenica è impregnata di limiti. La conseguenza non può essere che la sofferenza, cui si può sfuggire solo in alcuni attimi di appagamento e piacere. Ma qui si ferma il parallelismo. Perché per il grande filosofo tedesco la vita è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia. Per Conte invece è un pendolo che oscilla tra la sofferenza e la vittoria.

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Alessandro Biolchi