Lucarelli: "Ho dato tutto per Livorno. Non ho rimpianti, ho vissuto il mio sogno"

Iniziamo in maniera un po’ diversa rispetto al solito, se dovesse descrivere la sua carriera con un’immagine, quale sceglierebbe? “È una bella domanda. La risposta non è facile, perché ce ne sono davvero tante di immagini significative nel corso di una carriera. Se penso al mio percorso, mi viene subito in mente il primo gol in Serie A in un Atalanta-Bologna. E poi l'ultimo, arrivato in un Juventus-Napoli. L'inizio e la fine. Il primo e l'ultimo gol. Poi in mezzo ovviamente c'è una marea di immagini e di ricordi”. Tra il primo gol e l’ultimo quanto è cambiato come calciatore e come uomo? “Tantissimo. In mezzo c'è un abisso. Quando ho segnato il primo gol avevo 22 anni, l'ultimo ne avevo 37… ovviamente nel mezzo ci sono stati tanti cambiamenti. In 15 anni sono accadute moltissime cose ed episodi, ho sviluppato nuove consapevolezze e vissuto nuove esperienze. È stato un percorso davvero lungo ed entusiasmante”. E di questo lungo percorso c’è qualcosa che cambierebbe? “No, perché tutto quello che c'è stato, nel bene e nel male, ha fatto parte della mia crescita. Tutto quello che è successo è servito a farmi maturare, a migliorarmi, a far parlare di me e a farmi conoscere. Non sono stati 15 anni facili, ma è normale, è così per tutti. In così tanti anni si vivono gioie, dolori, momenti felici e momenti di difficoltà, ma non cambierei niente perché ho vissuto tutta la mia carriera cercando di essere sempre me stesso. E questo ha comportato avere dei pro e dei contro”. ‘Essere me stesso’ significa anche rappresentare il Livorno, giusto? “Certo. Per l’attaccamento che provo e provavo per la mia città e per la squadra non potrebbe essere altrimenti”. Il suo rapporto con la città e i tifosi cosa le ha insegnato? “Io conoscevo già loro e loro conoscevano già me, quindi alla fine non ci siamo insegnati niente reciprocamente. L'unica cosa che ho imparato è che anche i grandi amori a volte possono subire dei momenti di difficoltà, ma senza intaccare l’affetto e il sentimento che si prova”. Qual è stato il momento più intenso della sua avventura in amaranto? “È difficile sceglierne solo uno. Tutti gli anni che io sono stato a Livorno sono stati intensi, perché io vivevo a Livorno a 360° e 24 ore al giorno. Addirittura disegnavo le magliette. Sono stati 5 anni di grande intensità, la mia testa e il mio fisico erano giorno e notte a disposizione del Livorno Calcio. Non so se fosse giusto o sbagliato, però in quel momento lì la mia priorità era difendere la città, cercare di far star bene i tifosi e regalare loro delle soddisfazioni. In quegli anni ho anche un po’ trascurato la mia famiglia, ma come ho detto non cambierei nulla di quello che ho fatto”. In quegli anni si è tolto anche molte soddisfazioni, su tutte la vittoria del titolo di capocannoniere nella stagione 2004/05. Se lo aspettava a inizio campionato di poter raggiungere un risultato del genere? Quando ha iniziato a crederci? “A inizio stagione mi sentivo forte, ma non così forte da poter pensare di diventare capocannoniere in Serie A, per giunta in una squadra che lottava per non retrocedere. In quegli anni c’erano grandi attaccanti, campioni veri, sia italiani che stranieri. Ibrahimovic, Del Piero, Trezeguet, Montella, Totti, Sheva, Inzaghi, Toni e chi più ne ha più ne metta. E anche le squadre come il Livorno, che lottavano per la salvezza, avevano dei giocatori fortissimi nel ruolo. Era una Serie A spaventosa da quel punto di vista. Non ho mai davvero pensato al titolo di capocannoniere fino ai quattro gol contro il Parma, lì ho iniziato a capire che potevo farcela. Ho iniziato a crederci e per me era qualcosa di speciale, perché aveva tre valori. Il primo era la soddisfazione mia personale, il secondo era farlo con la maglia del Livorno, la mia squadra, e il terzo è che sapevo che sarebbe stato qualcosa di incancellabile anche per la storia del Livorno. E infatti siamo qui oggi, vent’anni dopo, a parlarne”. Tra i 111 gol che ha segnato con la maglia del Livorno qual è il più pesante? “Sono tanti e tutti hanno avuto un peso specifico importante. Se devo dirne uno, penso al gol segnato contro il Piacenza che ci portò aritmeticamente in Serie A, un ricordo indelebile… E poi viene in mente anche quello in trasferta contro l’Auxerre in Coppa Uefa nell’ultima partita del girone. Avevamo a disposizione un solo risultato e con quel gol ci qualificammo per i sedicesimi contro l’Espanyol. Era un girone davvero difficile, oltre a noi e l’Auxerre c’erano Rangers, Partizan Belgrado e Maccabi Haifa. Quello credo sia stato il punto più alto della storia recente del Livorno, quindi è davvero un bel ricordo”. C’è invece un gol che avrebbe voluto segnare ma non è mai arrivato? “Sì. Un rigore a Messina che sbagliai l'anno in cui sono diventato capocannoniere. Con quel gol avrei vinto la scarpa d'oro… Sarei arrivato a parimerito con Henry e Forlan ma avrei vinto io avendo giocato meno partite”. A parte Livorno, dove si è sentito più a casa nella sua carriera da calciatore? “Ho avuto la fortuna di stare bene quasi ovunque ma i posti dove mi sono sentito più a casa sono stati tre e tutti al sud: Lecce, Cosenza e Napoli. In queste tre città mi sono sentito veramente a casa”. Molti calciatori oggi raccontano di far fatica a trovare motivazioni o fiducia in sé stessi, lei ha mai avuto momenti di difficoltà o la tentazione di mollare tutto? “L'unico momento di difficoltà l'ho avuto il secondo anno a Torino. dove ho segnato solamente un gol ma non ho mai perso la fiducia. In tutta la mia carriera ho combattuto tanto con la mia testa e con miei demoni, come tutti, perché la cosa più importante nello sport è combattere con sé stessi nei momenti di difficoltà. La testa porta sempre messaggi negativi che mettono in discussione quello che si fa e bisogna combattere questi pensieri negativi. Ma io non ho mai pensato di ritirarmi prima o di smettere. Provengo da una famiglia povera che mi ha sempre trasmesso bene quali sono le priorità nella vita. Fin da piccolo vedevo la vita del calciatore come il lavoro che avrebbero voluto fare tutti, io avevo la possibilità di farlo e non avrei mai gettato via tutto solo per alcuni momenti di difficoltà. Credo che se da bambino mi avessero chiesto ‘Puoi arrivare a fare il calciatore, però solamente passando da dei momenti di difficoltà, accetti?’, avrei firmato col sangue. A volte ho avuto la tentazione di mandare tutti a quel paese, ma mai di rinunciare allo sport che amavo fin da bambino, anche se poi non è così come uno se lo immagina quando lo vivi…”. C’è un allenatore, al di là dell'aspetto tecnico e tattico, che a livello mentale ha saputo capirla di più e con cui si è trovato meglio? Anche lei oggi è allenatore, alla luce della sua esperienza da calciatore cerca di aiutare i suoi giocatori dal punto di vista psicologico? “Io ho avuto un ottimo feeling con tutti i miei allenatori, a parte un paio… Mi sono trovato molto bene con Mazzarri e con Carletto Mazzone, con entrambi c’è sempre stato un bel rapporto perché è nato e si è sviluppato in maniera naturale e spontanea. Avevamo un bel feeling calcisticamente e soprattutto mentalmente. Negli anni il rapporto con loro è continuato ed è uscito dai ‘canoni classici allenatore-giocatore’, ancora oggi c’è un legame affettivo. Con Carlo Mazzone ho lavorato poco, appena 6 mesi e tra l'altro in un momento di grande difficoltà del Livorno, però devo dire che mi è stato molto d’aiuto. Anche oggi, nella mia nuova vita da allenatore, mi ricordo di lui e dei suoi insegnamenti. Era molto bravo a sdrammatizzare nei momenti di difficoltà e a far sorridere noi giocatori. Ma in generale da ogni allenatore che ho avuto cerco di prendere il meglio, tutti mi hanno insegnato qualcosa”. Si dice spesso che non c’è più il calcio di una volta, lo spogliatoio e i ritiri non sono più come un tempo… è d’accordo? “Sì, è cambiato, ma credo sia normale che le cose cambino. Anche noi calciatori di fine anni ‘90 e inizio 2000 eravamo diversi dai calciatori anni ‘80 e primi ‘90. Ogni ciclo ha i suoi metodi, le sue particolarità, le sue mode e i suoi modi di essere a seconda del periodo in cui si vive. Però secondo me devono esserci sempre delle basi oggettive nel fare il mestiere di calciatore. Il cambiamento che viene notato oggi è legato soprattutto ai social. Una volta quello che succedeva nello spogliatoio era sacro e rimaneva privato, adesso dopo un secondo è tutto su Instagram e sui vari social. Prima un segreto rimaneva tale e i panni sporchi si lavavano in famiglia, oggi con i social non è più possibile mantenere qualcosa privato. L’altro grande cambiamento è il modo di stare insieme. Noi partivamo per le trasferte col pullman e durante il viaggio si giocava a carte, a briscola in cinque o a qualsiasi altro gioco. Si rideva, si scherzava, c’erano i cinque che giocavano più tutti gli altri intorno a guardare e a fare battute. Adesso invece quando i giocatori fanno il viaggio in pullman si mettono uno accanto all'altro con le cuffie e pur stando insieme si isolano. Dal punto di vista relazionale sono sicuramente cambiate le dinamiche dei rapporti negli spogliatoi”. E invece a livello di gioco come sono cambiati il calcio e il ruolo di centravanti? “Come cambiano i tempi, cambia anche il calcio, che però credo sia ciclico. Qualche anno fa sembrava superato il ruolo del centravanti puro e si parlava solo del falso nove. Ci sono stati alcuni grandi interpreti come Totti e Messi e tutti hanno provato a replicare questo stile di gioco. Da qualche anno invece è tornato protagonista il centravanti classico e tutte le big giocano con una punta vera. I concetti e i ruoli del calcio sono quelli, poi a seconda dei periodi storici sono più di moda alcuni e altri vengono tralasciati ma poi ciclicamente ritornano”. C’è un attaccante di oggi in cui oggi si rivede o che apprezza particolarmente? “Nell'ultimo decennio ci sono stati diversi calciatori che tra i 35 e i 40 anni hanno fatto i capocannonieri in Serie A, un qualcosa che 20 anni fa era impensabile. Su questo dato pesano anche le nuove regole e l’introduzione del VAR, che hanno aumentato il numero di rigori e di conseguenza i numeri dei gol sono un po’ gonfiati. Prima un rigorista calciava e segnava 3-4 gol a stagione, ora anche dieci. Ovviamente faccio grandi complimenti ai giocatori che a 35 anni sono riusciti a diventare capocannonieri, però secondo me dobbiamo domandarci se questo calcio italiano di oggi è paragonabile a quello dei negli anni 2000. E per me la risposta è no, perché prima i campioni venivano in Italia da giovani, adesso vengono a fine carriera. Tra gli attaccanti di oggi mi piacciono molto Lucca, che secondo me è forte e può rappresentare il futuro del calcio italiano, e Scamacca, che è nell’età della maturazione definitiva di un centravanti”. Il ‘bomber di provincia’ esiste ancora oggi o è una figura ormai scomparsa? “Ora il calcio è molto selettivo, la lotta per non retrocedere si riduce a tre-quattro squadre, massimo cinque. Prima c'erano le sette sorelle, c'erano due o tre squadre che lottavano per la possibilità di raggiungere gli ultimi posti per l'Europa e per la parte sinistra della classifica e poi c’erano 9-10 club che se le davano per non retrocedere. Prima anche le squadre di provincia avevano degli attaccanti fortissimi, in quegli anni il Brescia aveva Hubner e Roberto Baggio, il Cagliari aveva Suazo, Esposito, Langella e Zola, la Reggina aveva Amoruso e Bianchi, al Livorno con me c’era Protti… Oggi non è più così, a causa dell’arrivo dei capitali stranieri ci sono sempre meno squadre di provincia. Pensiamo al Como, non la definirei una squadra di provincia. Anzi, probabilmente è la società più forte al mondo dal punto di vista economico. Non essendoci più tante squadre di provincia, ci sono anche molti meno bomber di provincia”. A proposito di Igor Protti, sappiamo che ora sta lottando contro un tumore, lo sta sentendo in queste settimane? “Sento Igor quotidianamente, ma noi ci siamo sempre sentiti perché il nostro è un rapporto veramente speciale. Solitamente tra attaccanti che hanno giocato insieme non c’è grande amicizia, noi invece siamo legati da un grande affetto. Sta combattendo con l’avversario più difficile della sua vita, ma dentro al campo Igor ha sempre trovato le soluzioni nelle difficoltà e sono convinto che troverà la soluzione anche fuori dal campo contro questo ‘ospite indesiderato’, come lo chiama lui”. Nel corso della sua carriera lei non si è mai nascosto e si è sempre schierato anche politicamente. L’ultimo Mondiale per Club ha fatto molto discutere per la presenza ingombrante di Trump, secondo lei i calciatori e gli sportivi dovrebbero prendere più spesso posizioni politiche? Lei sentiva una responsabilità in questo senso? “Da calciatore leggevo tutti i giornali sportivi, ma mi piaceva anche leggere i quotidiani ‘normali’ per sapere e capire cosa accadesse fuori dal campo e intorno a me. Il calcio è una parentesi per un calciatore, poi nel resto della vita dovrà scontrarsi con il mondo che lo circonda e quindi si deve essere informati. Io non credo che i calciatori di oggi non siano informati, che non sappiano quali guerre siano in atto e qual è la situazione nel mondo, anche perché ormai anche sui social se ne parla moltissimo. Penso fingano di non sapere perché la nostra nazione non è pronta per accogliere le posizioni politiche di un calciatore e perché una parte della tifoseria potrebbe non prendere bene la sua opinione. Credo che ai calciatori venga suggerito di non esporsi per evitare casi mediatici ma non mi piace l’idea che tutti i calciatori siano ignoranti. Ci sono tanti calciatori che si informano, che studiano e che sanno in che mondo viviamo. E credo che i tifosi dovrebbero essere i primi a non volere dei giocatori lobotomizzati e apatici rispetto a quanto accade intorno a loro. Io da calciatore non ho mai avuto la pretesa di avere ragione, ma ho sempre preferito esporre il mio pensiero e la mia opinione. Non mi sono mai sottratto a certi temi perché non mi è mai piaciuto passare per un ignorante superficiale che non si interessa di tutto quello che succede intorno al campo da calcio. Credo che questo sia comprensibile e dovuto da parte di tutti”. Abbiamo parlato a lungo del suo passato da calciatore, ma che progetti ha per il futuro come allenatore? “Anche come allenatore mi piacerebbe arrivare più in alto possibile, come fatto da calciatore. Sto facendo il mio percorso senza aiuti di nessun tipo, nessuna amicizia e nessun rapporto da sfruttare. Vivo di risultati e quindi a volte capita di rimanere inattivi per una stagione. Per gli allenatori il concetto di meritocrazia è un po’ diversi rispetto ai calciatori. Negli ultimi anni sto vedendo molte scorciatoie, abbiamo visto squadre di grandissimo livello affidate a ex grandi giocatori che però in panchina non avevano fatto tante partite. Anche questo è uno dei problemi del calcio italiano. Prima i grandi allenatori allenavano in Serie A, ora vanno all’estero. Se non ci siamo qualificati per due volte alla Coppa del Mondo ci sarà un motivo. Bisogna fare delle riflessioni e cercare di capire perché non siamo più un Paese attrattivo calcisticamente. Se avremo il coraggio di riprovare a mettere le cose a posto, potremo tornare ai fasti di un tempo. Ma ci vorrà del tempo, perché l’Inghilterra è molto avanti rispetto a noi. Se invece facciamo finta di non vedere… Forse la discesa non è ancora terminata”. Se potesse parlare con il Cristiano Lucarelli di inizio carriera, cosa gli direbbe? “Gli direi che sarà difficile, che sbaglierà ma che gli errori fanno parte del gioco e lo aiuteranno a crescere. Non gli direi cosa fare e cosa non fare, perché come ho detto sono sempre stato me stesso e non cambierei nulla. Al Cristiano Lucarelli 18enne non avrei niente da dire perché mi va bene chi è stato, cosa ha fatto e cosa ha detto. Se invece dovessi dare dei consigli a un 18enne qualsiasi, gli direi di non fare come ho fatto io perché può creargli dei problemi. Ma io sono sempre stato schietto e diretto, non ho rimpianti né rimorsi”.

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Lucarelli: "Ho dato tutto per Livorno. Non ho rimpianti, ho vissuto il mio sogno"

Emiliano Tomasini