A Torino il derby ha una filosofia tutta sua

Da una parte il potere che deriva dall’aristocrazia prima che dalla ricchezza, dall’altra il tremendismo, furia rabbiosa dei poveri applicata allo sport. I nobili bianconeri contro i sanculotti granata, cowboys contro gli indiani per dirla con Emiliano Mondonico, uno di quelli che più di tutti seppe interpretare lo spirito del derby della Mole. Ma se la differenza di censo è analisi semplicistica e quindi anche falsa , non c’è alcun dubbio che la sfida in riva al Po sia l’unica stracittadina con evidente squilibrio tra le parti in causa. Roma e Lazio, Milan e Inter, Genoa e Samp, a seconda dei periodi, se la giocano più o meno alla pari, Juve e Toro no: lì, le gerarchie sono chiare. Bianconeri proprietà degli Agnelli, un simbolo fatto di imprenditoria, tradizione, costume, persino eleganza, basti pensare allo charme dell’Avvocato Gianni. Granata a rappresentare l’altro lato della collina, un’ideale di opposizione persino quando il Toro, per esempio con la magistrale presidenza di Orfeo Pianelli, non era povero per niente. Eppure, la sfida ha il suo fascino proprio nella gerarchia che in campo si ribalta. Come negli anni ’70, quando il derby per la Juve era diventato una specie di maledizione: per qualche tempo il Toro, unica squadra italiana, aveva un saldo positivo negli scontri diretti con quelli che in città erano provocatoriamente definiti ‘rigatini’. Erano gli anni di Paolo Pulici, capace nel derby di raggiungere picchi di adrenalina che il sommo Gianni Brera definiva “piena erezione agonistica”, l’attaccante che faceva dire a Giampiero Boniperti di odiare come niente altro questa partita. La Juventus vinceva scudetti ma spesso perdendo i derby, anche se solo i due della stagione 1975-1976 portarono i granata al titolo. Anni ruggenti con episodi da epopea romanzesca, su tutti il pugno di Gustavo Giagnoni, il mister sardo con il colbacco, a Franco Causio, o i clamorosi tre minuti e mezzo del 27 marzo 1983. Juve dei 6 campioni del mondo di Spagna più Platini e Boniek, avanti 2-0 a metà ripresa e ormai sulle tracce della Roma capolista, quando in 210 secondi segnano Beppe Dossena, e poteva starci, ma anche Loris Bonesso e Fortunato Torrisi, e per loro è una carriera racchiusa in un derby che consegna lo scudetto ai giallorossi. Poi, lentamente, la Juve ha ripreso il possesso anche della sfida con il Toro, che ha potuto raccogliere solo soddisfazioni liofilizzate: il coro “Maifredi resta a Torino” della curva Maratona dopo un 2-1 dell’aprile 1991 costato la qualificazione bianconera alle coppe europee, e la mitica buca di Maspero: 14 ottobre 2001, venticinque minuti e la Juve è sul 3-0, nella ripresa Cristiano Lucarelli, Marco Ferrante e proprio Riccardo Maspero la riagganciano sul 3-3, ma un rigore in pieno recupero sembra sciogliere il miracolo. Confusione e proteste, ed è allora che il geniale centrocampista comincia a picchettare con il piede sul disco del rigore. Nessuno, nemmeno l’incaricato del tiro Marcelo Salas, si accorge della buca, che fa da trampolino al pallone calciato dal Matador e verrà intercettato solo dai radar del vicino aeroporto di Caselle. È davvero l’ultimo sprazzo granata, prima di un dominio della Juventus così evidente da rendere noiosa la sfida per gli stessi supporter bianconeri. Il Toro, negli ultimi 30 anni, ha vinto solo una volta, facendo la figura di una squadra non solo molto più debole, e sarebbe il meno, ma di un club a cui è stata succhiata via l’anima, spesso racchiusa nelle tre ore di partite dei due derby stagionali. Quelli che negli ultimi anni, vincendo quasi sempre la Juventus, hanno fatto apparire il calcio come uno sport che ha una logica razionale.

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A Torino il derby ha una filosofia tutta sua

Nicola Roggero