Baùscia e Casciavit, armonia degli opposti e opposizione all’armonia: il derby di Milano

Il derby di Milano è una lunga e suggestiva galleria di partite, storie, giocate poetiche e prosaiche, gol da cineteca e gollonzi imbarazzanti, rimonte e rimpianti, epos e pathos, lacrime e sorrisi. In altre parole, è un universo cosparso di infinite galassie che il nastro del tempo conserva e genera a ogni respiro seguendo uno schema per lo più irrazionale. E, esattamente come l’universo, converge a ritroso verso un unico punto, da cui tutto si origina. Il Big Bang delle emozioni rossonerazzurre è una scintilla accesa alla fine del XIX secolo, nel dicembre del 1899, in una saletta dell’Hotel du Nord da mano inglese. Fu infatti grazie alla determinazione di Herbert Kilpin, figlio di un macellaio di Nottingham, che nacque il Milan Cricket and Football club. Baffi a manubrio e ultimo di nove figli, Kilpin arrivò a Torino poco più che ventenne, chiamato da un imprenditore italo-svizzero interessato alle sue competenze nel settore tessile, in particolare la conoscenza dei telai di nuova generazione concepiti in Inghilterra e di cui l’Italia era un’interessante frontiera di mercato. Sì, perché alla fine dell’Ottocento l’industrializzazione aveva ormai coinvolto anche il nostro Paese, producendo al contempo ricchezza e distorsioni, impulsi economici e tensioni sociali che si sarebbero snodate per un bel pezzo della storia italica: dalla crescita asimmetrica tra nord e sud, con il conseguente fenomeno di emigrazione di massa, alla nascita della CGIL con le conseguenti lotte sindacali per la riduzione dell’orario di lavoro , l’aumento dei salari e il suffragio universale . Solo un anno prima, nel maggio del 1898, Milano era stata protagonista di moti e sollevazioni operaie generate dall’aumento del prezzo del pane e stroncate nel sangue dai cannoni di Bava Beccaris. Episodio che ispirò Pelizza da Volpedo per il suo ‘Quarto Stato’, che risuonò negli scritti e nelle azioni di molti poeti e intellettuali, tra cui Pascoli e Turati, e che segnò profondamente la città e l’Italia intera. Tanto che, meno di un anno dopo, nel luglio del 1900, l’anarchico Bresci avrebbe assassinato il Re Umberto I a Monza, per vendicare quella carneficina. Questo era il contesto e l’umore sociale che si respirava anche nel dicembre del 1899, quando Milano divenne Milan per naturale declinazione anglosassone e conobbe il Football come progetto strutturato al di là dell’esperienza pionieristica della Mediolanum . Kilpin amava il calcio, che nella sua terra si praticava da almeno un trentennio, e ci aveva anche giocato seriamente nel Notts Olympic, maglia a strisce strette evidentemente rossonere. Tanto che a Torino si cimentò, giocando per la Internazionale Torino e la Torinese. Ma senza troppo successo visto che in quegli anni a dominare il neonato calcio italiano era una squadra sola, il Genoa, fondata tanto per cambiare da inglesi e già abbastanza esperta da battere senza troppa fatica i pochi avversari di quel periodo pionieristico. Ma il triangolo ‘industriale’ Genova-Torino-Milano portò l’ormai ventisettenne Kilpin proprio in quest’ultima città e fu alla vigilia del suo trasferimento che sfidò Pasteur, il capitano e amico del Genoa: “Mi hai battuto, ma è l’ultima volta. A Milano fonderò una squadra che metterà fine al vostro monologo”. Detto, fatto. Ma con pazienza. Perché il ragazzone inglese ci mise due anni a radunare e convincere amici italiani della birreria Spaten e quelli inglesi dell’American Bar, fino a condurli in quella saletta dell’Hotel du Nord: “Saremo rossi, come diavoli, e neri come la paura che incuteremo agli avversari”. Il neonato Milan si mise a giocare al Trotter, campo che allora era la periferia nord della città e che oggi non esiste più perché al suo posto sorge la Stazione Centrale. E catturò l’attenzione e la simpatia della popolazione che, come spesso avviene per reazione naturale, è propensa a mitigare malessere e tensione sociale con attività ‘consolatorie’ e leggere. Ma quella era l’epoca del Nazionalismo. Che in tutta Europa coltivava sentimenti di identità e forza come il panslavismo e il pangermanesimo e che in Italia alimentava irredentismo e colonialismo. Una contrazione alle aperture, una vigorosa spallata all’integrazione. Che di lì a poco avrebbe investito anche il calcio. Protezione dei valori, dell’economia e dell’identità nazionale comportava infatti una progressiva emarginazione dello ‘straniero’. E così le società calcistiche allora esistenti cedettero alle pressioni della Federazione che impose lo stop all’arruolamento di calciatori non italiani oltre a quelli già esistenti in rosa. Per la verità il Milan provò a resistere, rinunciando a partecipare per protesta ai campionati del 1907 e 1908, ma alla fine il consigliere anziano Camperio decise di aderire alle pretese federali, suscitando così una mobilitazione interna sfociata in spaccatura. Se ne andarono in 44. Non con l’intenzione di abbandonare tutto, ma con la volontà di creare una nuova società che avesse nei valori ispiratori esattamente quelli in antitesi alla chiusura nazionalistica. E così alle 23.30 del 9 marzo 1908, al ristorante l’Orologio, nacque il Football club Internazionale. E fu Giorgio Muggiani, ex segretario del Milan nonché grafico e illustratore di talento permeato di cultura futurista a tratteggiarne l’essenza: “Questa notte splendida darà i colori al nostro stemma: il nero e l'azzurro sullo sfondo d'oro delle stelle. Si chiamerà Internazionale, perché noi siamo fratelli del mondo”. Un contrasto ideale, una scissione, un ribaltamento di prospettive che investì tutto, anche i colori. Perché già allora erano molto comuni le matite bicromatiche, rosse da una parte e blu dall’altra. E per opporsi in modo speculare e diretto alle strisce rossonere non si poteva che adottare quelle simili ma antitetiche: nerazzurre. Inter e Milan sono mondi opposti, ma creature impastate dallo stesso Dna, dalle stesse origini, da relazioni profonde almeno quanto la frattura che le divide. Sono armonia degli opposti e opposizione all’armonia. Ma idealmente abbracciate in un punto in cui tutto ebbe origine. E da cui deflagrarono in due realtà ‘altre’, diverse, simbiotiche nella rivalità. E proprio la storia, già dai primi vagiti, dimostra la loro inestricabile fusione permanente. Muggiani lavorava e continuò a collaborare con la Pirelli, la stessa fabbrica nel cui seno si agitarono le prime proteste dei moti del 1898, la stessa famiglia di Piero Pirelli, consigliere del Milan insieme allo stesso Muggiani, Presidente rossonero per vent’anni dal 1909 e finanziatore nel 1926 dello stadio San Siro. E la stessa azienda che avrebbe sponsorizzato l’Inter ai tempi di Ronaldo che, in posa da Cristo Redentore, accompagnava la scritta “La potenza è nulla senza controllo”. Ovviamente anche nei primi derby si misurava con evidenza questo grado di contrasto nella fusione: il primo gol in assoluto, nel primo derby amichevole, lo segnò Pietro Lana, attaccante del Milan famoso per aver segnato anche il primo gol della Nazionale italiana contro la Francia. Eppure c’era anche lui tra i ‘dissidenti’ che fondarono l’Inter pochi mesi prima. Un rossonero che plasma il nerazzurro prima di tornare in rossonero e segnare al nerazzurro. Impresa che gli riuscì anche nel derby successivo, il primo ufficiale, il 10 gennaio del 1909. Partita nella quale si mise a referto anche il primo gol dell’Inter in un derby, segnato da Achille Gama, brasiliano e anche lui, diremmo oggi, cresciuto nel Milan, con la cui maglia tuttavia non esordì mai. In quel derby il primo gol lo segnò Attilio Trerè, il Kaiser, che aveva vinto lo scudetto 1906 col Milan da portiere, ma che segnò all’Inter quando divenne centrocampista. Dovete smettere per le ferite riportate sul Carso, nella Grande Guerra, tragedia che costò la vita a 13 milanisti e 31 interisti, tra cui il capitano Virgilio Fossati. Nulla affratella di più della morte in battaglia. E la mescolanza di affinità e differenze restò anche nella successiva evoluzione sociale delle rispettive tifoserie. Se nel 1898 Milano era una città di 420.000 abitanti provata dalla crisi e dalle tensioni, nel primo dopoguerra vestì presto gli abiti della locomotiva economica e produttiva in grado di attrarre e accogliere migliaia di persone in cerca di lavoro e dignità. E intorno agli ’20 del secolo scorso la stratificazione sociale era un dato di fatto: da una parte la classe operaia, il proletariato, dall’altra le media e alta borghesia imprenditoriale. Due visioni del mondo, due tipologie umane con caratteristiche, peculiarità, abitudini e caratteri differenti. Che tendenzialmente portarono a una polarizzazione anche nelle simpatie calcistiche: borghesi interisti, operai milanisti. Baùscia contro casciavit, in base alla onomastica gergale di quei tempi. Baùscia significa ‘bavetta’, saliva, e indicava le persone dotate di parlantina, quelle un po’ sbruffone che, diremmo oggi, ‘se la tirano’. Casciavit è uno strumento, il cacciavite appunto, che evoca per metonimia un mestiere manuale, tipico del mondo operaio. Una contrapposizione culturale non del tutto netta e in parte mitizzata, soprattutto dalla meravigliosa penna di Gianni Brera che riprese quelle definizioni per colorare i derby in un’epoca in cui quella differenza, se mai fosse davvero esistita, si era ormai sfarinata. E tuttavia una differenza percepita come reale dagli stessi tifosi che tendevano a considerarsi paradigma, nel caso in cui la loro realtà corrispondesse alla definizione, o eccezione nel caso contrario. In ogni caso un riflesso di un quadro sociale in trasformazione e con l’esigenza di trovare nuovi punti di riferimento e una collocazione, anche semplicemente nell’ambito del tifo per una squadra di calcio, anch’essa espressione di una tendenza ben precisa. Un fenomeno e una narrazione che per molti anni hanno avvolto il derby di una patina sociologica e culturale con sfumature letterarie. Al punto da lasciare traccia nella filosofia delle due società sino agli anni ’90 del secolo scorso, quando alla guida di Milan e Inter c’erano Silvio Berlusconi e Massimo Moratti: due uomini simili per ricchezza e successo, differenti per immagine e carattere. Un po’ come nella strepitosa serie Tv degli anni ‘70 ‘Attenti a quei due’, dove i due amici-protagonisti si completavano nelle differenze: Tony Curtis, l’americano spontaneo e popolare nei modi di fare, amante della Ferrari e ricolmo di spirito pratico. E Roger Moore, l’inglese contenuto e aristocratico, amante dell’Aston Martin e ricolmo di eleganza formale. Il primo un po’ berlusconiano, il secondo un po’ morattiano. Del resto Berlusconi era il ‘presidente operaio’, volutamente un po’ casciavit nell’animo e dunque, evidentemente, presidente del Milan. Mentre Moratti era il ‘presidente cortese’, un po’ baùscia nell’atteggiamento e dunque, evidentemente, presidente dell’Inter. Dopodiché i paradossi che riportano alla fusione permanente rossonerazzurra sbucano da ogni angolo: perché il casciavit Berlusconi in politica ha sposato posizioni conservatrici, mentre il baùscia Moratti ha sempre avuto idee progressiste. Per non parlare dell’origine dei due club, di eguale matrice borghese. Perché se è vero che Kilpin in gioventù era un operaio, è anche vero che in Italia faceva l’imprenditore. Ma soprattutto il primo presidente rossonero era nientemeno che il vice-console di Sua Maestà britannica a Milano, Alfred Edwards. Senza contare l’origine ‘milanista’ dell’Inter che, per forza di cose, non poteva che condividerne la matrice sociale e culturale. E la contraddizione si trasferisce anche alla filosofia calcistica delle due realtà milanesi. Perché se fino a Rocco il Milan ha in effetti inseguito le vittorie con spirito pratico, da Rivera in poi la parte estetica ha assunto una valenza maggiore, per trovare la sua sublimazione nel ‘bel giuoco’ indicato dal suo presidente come unica via verso il successo dalla metà degli anni ’80. Al contrario l’Inter, da Herrera a Bersellini fino a Trapattoni, Mourinho e Conte, ha sempre vinto e fatto innamorare i suoi tifosi grazie al carattere, alla lotta, al pragmatismo. E solo oggi con Inzaghi è emersa la parte estetica come architrave dei successi. Dunque baùscia e casciavit si confondono, si scambiano continuamente la maschera in una danza senza fine, relegando quella differenza socio-economica-culturale all’ennesimo capitolo della fusione permanente. Il derby, da quel lontano 1909, ha indossato e dismesso mille e mille abiti. Ci sono stati i derby dei campionissimi, quelli dei carneadi, i derby tutti italiani e tutti stranieri, quelli delle bandiere e dei ‘traditori’, i derby esaltanti e quelli deludenti, quelli asimmetrici e quelli equilibrati, quelli vinti dai favoriti e quelli vinti dagli sfavoriti, quelli giocati per vincere trofei e quelli che invece mettevano in palio solo la temporanea supremazia cittadina. Ma tutti, proprio tutti, sono stati seguiti con passione inalterata da milioni di tifosi. Perché il derby non è una partita, ma un luogo dell’anima. Dove si affrontano paure e si inseguono sogni. E’ introspezione, confronto con il sé e con l’ ‘altro’, con l’origine e con la destinazione. E’ l’attimo che si coglie guardandolo negli occhi. Perché di fronte alle fotografie in bianco e nero di quelle squadre dei primi del ‘900, osservando in silenzio i volti di quei ragazzi che guardano l’obiettivo, sembra di sentire il sussurro prolungato, il soffio della vita, l’ammonimento paterno del professor Keating: “Carpe diem”.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Baùscia e Casciavit, armonia degli opposti e opposizione all’armonia: il derby di Milano

Alessandro Biolchi