Scudetto Napoli: l'Ulisse del campionato più forte delle sirene
SPALLETTI ©LaPresseIl trionfo dell''altrove' del calcio italiano. Il Napoli come l'Ulisse del campionato, che ha cantato più forte delle sirene. Grazie a un allenatore che ha diffuso senso del calcio e ambizione e a una società competente e coerente. Uno scudetto che ha anche un significato politico: è la cittadinanza di un sogno
Uno scudetto altrove ha sempre qualcosa di rivoluzionario. Uno scudetto a Napoli ha sempre qualcosa di politico. L’altrove del calcio italiano è tutto quello che succede sopra, sotto o a lato di quella linea di forza, potere, industria, storia che passa fra la Juventus e Milano (altrove, per esempio, è anche il Torino: è l’altra parte di quella città e di questo racconto). Napoli invece permette di usare quel temine (“politica”) non solo per il decentramento della vittoria - una diffusione decisiva per la fabbrica del sogno e per cultura popolare che nutre il nostro sport nazionale - ma anche per i mezzi con cui è stata fabbricata (molto diversi da quelli dei primi due scudetti), per l’imposizione di ragionamenti diversi e più approfonditi, per la collaborazione nella battaglia contro i luoghi comuni, i destini confezionati, le parole svuotate dall’uso reiterato (tutti indurimenti reazionari, forse antidemocratici) e perché tutto questo è necessario alla “tenuta” che una vittoria così clamorosa nelle proporzioni e nella dimostrazione permette al sistema: può succedere anche a Napoli.
Lo scudetto, monumento di una filosofia
Anzi, è perfino naturale: c’è una società che sa fare calcio, coerente e competente, capace di assicurare - senza aver “ereditato” né inerzie né giocatori - tre lustri di qualificazioni europee. C’è un tecnico fra i più eruditi in circolazione, lavoratore serio, seminatore di idee, studioso che non ripone mai il libro, tormentato dal migliorare i giocatori (singolarmente e in modo associato) per essere sicuro di aver migliorato se stesso. Ci sono giocatori tecnici, veloci, robusti, sani. C’è un discorso “logico”: l’integrità aziendale è l’obiettivo fondamentale perché (poi) si possa parlare di obiettivi sportivi, che giungono per deduzione del lavoro: cosa c’è di più politico di questa lezione, di questo ragionamento che parte dall’inizio per concludersi nella vittoria, conseguenza e non obbligo? In questo senso, un quarto posto del Napoli avrebbe lo stesso valore filosofico: lo Scudetto serve semmai da monumento, esempio, modello - se solo sapessimo credere nei monumenti (e nel lavoro). E serve a noi commentatori per non vergognarci della pigrizia che valuta il lavoro solo dai risultati: ci siamo cascati.
Un territorio ricco di tutto
Poi c’è un territorio ricco di tutto e che viene rappresentato dalla cronaca più che dal resto: e spesso la costruisce deludente, la subisce, la “protegge” senza coraggio perché infine permette di non affrontare le faticose possibilità del cambiamento. Ma è anche il Golfo che ha dato tre giocatori degli undici titolari per la vittoria dell’Italia all’Europeo. Donnarumma, Insigne, Immobile: nessun altro territorio può vantare questo serbatoio. Quindi fra i fuochi di questa terra c’è anche il calcio e allora tutto insieme si può concludere di uno Scudetto “naturale”, pensa un po’. Ma sarebbe un’omissione insopportabile di tutto il talento e di tutti i talenti che l’hanno realizzato.
La cittadinanza di un sogno
Dunque, se succede a Napoli, se succede per quello che abbiamo scritto - fatti umani e non spontanea produzione della storia, e non rendita di posizione, e non sfacciato tornaconto di troppo denaro - allora ha un valore politico: fornisce la cittadinanza (tutta) di un sogno, l’imprenditoria di una visione, spezza gli alibi degli indolenti, diventa di tutti perché cresce la consapevolezza di tutti che si possa fare, che possa succedere. Questo il manifesto elettorale. Poi c’è la squadra, l’onda di bellezza che ha travolto la Serie A. Nel campionato si è accumulata - vestita delle stesse maglie - una forza enorme: gioco, corsa, dominio, produzione di occasioni, gol, riempimento dei sensi, sofferenze cagionate agli avversari, mai liberi di pensare e di arginare. E per tante partite, anche un vissuto sereno delle cose che ha finito per piegarle tutte allo stesso verso: quello giusto. Loro, artefici, tifosi, sapranno raccontare (per sempre) questa meraviglia. Noi dobbiamo ricordarla, darle valore testamentario, monumentale.
Il capolavoro di Spalletti: ha diffuso ambizione
Dobbiamo dire di Spalletti, ancora, della sua ricchezza che è quella di chiunque abbia vinto e perso, in una biografia fatta di splendide esibizioni, magnifiche rese, immeritate angosce e qualche partita (persa) contro fantasmi ai quali ha permesso di esistere. Il capolavoro è suo. Del rimaneggiamento estivo dell’organico ha saputo intuire le possibilità di disegnare la “sua” squadra, con i suoi tempi di gioco, un’orchestra dove sudano gli archi, i fiati, i tamburi e dove tutti vibrano insieme e sanno - nel caso - esibirsi in assoli. La buttiamo in musica perché il Napoli fa ritmo: dunque, sa suonare insieme e anche i momenti di “controllo” del gioco paiono pervasi di una cadenza, di un accento musicale forte. Quando si distende, poi, allora l’orchestra spinge tutti gli strumenti, sembra accumulare energia ovunque e scaricarla in una solo direzione, verso la porta: ma è perfino più facile da capire. Se adesso tutto torna è perché Spalletti ha creato: ha diffuso un pensiero di calcio, ha infiltrato ambizione, ha raccolto ed esaltato i segnali di una squadra che da anni gioca per occupare la metà campo avversaria ed oggi arriva in fondo, in porta. Sembra - il tecnico - arrivato alla sua vendemmia: come se anni di bella semina esplodessero ora nel succo. Ma se oggi vediamo la vendemmia è per la nostra cecità: le sue squadre (dicevamo) sono spesso andate oltre i limiti, e sempre con un gusto estetico appassionante. Magari lui - che ama spiegare, penetrare con la divulgazione e non si sottrae mai al conflitto - non è riuscito a trascinare gli ambienti, così refrattario alla compromissione. E la critica non è riuscita a proteggere una biografia importante: è arrivato in cima imponendosi con le idee, la passione, il lavoro, le vittorie. Nella costruzione di questa avventura Spalletti si è trovato centrale, e questo lo ha rasserenato. Ha incrociato il suo sapere con un gruppo che vari motivi (anche l’anagrafe dei due fenomeni d’attacco) si è presto convinto di non conoscere ancora i propri limiti: individuali e corali.
Se le sirene cantavano, Napoli ha cantato più forte
Per restare ai due ragazzi da copertina (perdonateci il peccato di “dimenticare” Lobotka, Di Lorenzo, Anguissa - forse l’uomo decisivo per percuotere la partita in un certo modo) Kvara e Osimhen incarnano la direzione del calcio di Spalletti, la voglia matta, il tormento per una perfezione come tale mai conclusa, mai compiuta. Prendete il centravanti. La sua forza pare adesso infinita: non trova argine negli avversari perché anzitutto non trova contorno nella sua volontà, nel suo pensiero. È un impressione di misure, quindi “fantastica”: Osimhen sembra più alto (perché più in alto salta), sembra più lungo, perché la distensione dei suoi arti inferiori gli permette di raggiungere e “giocare” passaggi ai quali difetta per poco la precisione. Sembra più veloce, sembra aver aggiunto vento alla corsa. Ci sono metri di campo e strettoie nelle mischie, e rischi fra le stazze avversarie, dove lui si butta, si insinua, arriva. Osimhen costringe le difese a pensare a spazi nuovi da difendere. Tutto questo sembrare dev’esser infine vero: vince qualsiasi tipo di duello e il suo coraggio - tra l’altro - ha allargato il campo di sfida: per questo lo definimmo l’Ulisse del Campionato, ma peccammo (ancora) di riduzione: tutto il Napoli ha navigato senza conoscere approdo, oltre le Colonne. E se anche le sirene cantavano, il Napoli cantava più forte.