La sfida tra Juve e Torino nella "Storia": 1977, Torino di Piombo

L'INCHIESTA

Questa puntata della produzione originale di Sky Sport racconta un pezzo della nostra storia ed è dedicata a “1977, Torino di Piombo”. Disponibile on demand

TUTTE LE "STORIE" DI MATTEO MARANI: LO SPECIALE

C’è un anno che meglio di tutti racconta la storia di un decennio. E c’è una città, una città cruciale, che quell’anno lo visse con intensità senza pari, tra il sangue sparso per le sue strade e le emozioni irrefrenabili del calcio. Se il 1977 rappresentò l’apice nella stagione del terrorismo, Torino ne fu un simbolo quasi fisico, fra le piazze francesi e le periferie anglosassoni. Qui si tenne il Processo storico alle Brigate Rosse, qui sparò e ammazzò per la prima volta Prima Linea, qui il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa diede la caccia ai terroristi e a sgretolò il potere delle armi. Ancora qui, tre anni più tardi, andò in scena la marcia dei 40mila, il momento che chiuse gli Anni 70 per dare spazio al disimpegno e al riflusso degli Anni 80. La Torino del 1977 riassume in sé tutto ciò che furono gli anni di piombo: lotta armata, terrorismo consumato tra fabbriche e covi brigatisti, ma anche la passione e la bellezza di un calcio autentico, eretto all’interno dei confini nazionali, e dominato in vetta dal derby fra Toro e Juve. Uno scudetto deciso da un punto: 51 a 50Torino tornò a essere capitale. Come lo era stata nel 1861 e come s’era sentita nuovamente nel 1961 per celebrare il Centenario dell’Unità d’Italia. Una capitale grigia, nebbiosa, con l’industria - la Fiat madre e padrona della città - al centro di tutto, anche dello sport attraverso la Juventus. Furono mesi eccezionali e terribili, scanditi dal conflitto negli stabilimenti di Mirafiori e dal duello al Comunale, come si chiamava allora lo stadio. Due squadre per due lunghi anni condensarono la lotta scudetto in pochi chilometri. Nel ‘76 vinse il Toro, nel ‘77 toccò alla Juve, in fondo a un torneo meraviglioso per emozioni, e deciso soltanto all’ultima giornata.

Il 1977 è l’anno del compromesso storico, sul fronte politico. La Dc governa grazie all’appoggio del Pci. Il governo Andreotti si basa su una soluzione italiana, anzi bizantina: la “non sfiducia”. Il processo è iniziato molto prima, almeno dal 1973, quando la paura di soluzioni cilene ha spinto Enrico Berlinguer a trovare un apparentamento con la DC di Aldo Moro, il quale ha varato un neologismo destinato a rimanere nei libri: le “convergenze parallele”. A Washington non amano la formula, che avrà tristi conseguenze. È un’Italia che affronta il terrorismo e che vive una stagione di violenza. Al cinema, non a caso, dominano i film polizieschi e “Un borghese piccolo piccolo” di Alberto Sordi. Al Cto di Torino esiste un reparto apposito, al dodicesimo piano: quello dei gambizzatiIn quel 1977 sparano alle gambe a Indro Montanelli. Non sarà l’unico giornalista a essere colpito.

Montanelli

Nonostante il clima plumbeo, con la violenza rossa e nera disseminata nelle piazze, l’Italia del ’77 vive con le sue piccole abitudini quotidiane e con uno sguardo di speranza rivolto al futuro. Viaggia su automobili Fiat - 127, 128 o 131 a seconda del gusto e del portafogli – e in agosto va in massa in vacanza nelle piccole pensioni di Rimini. Nei jukebox delle spiagge spopola Umberto Tozzi con “Ti amo”, canzone che soppianta il successo sanremese degli Homo Sapiens con “Bella da morire”, in un’edizione condotta da Mike Bongiorno.

Homo Sapiens

Pure le Brigate Rosse non uccidono in estate, chiudendo per poche settimane la spietata macelleria in corso da anni. Milioni di italiani si sono spostati nel decennio precedente da Sud a Nord. A Torino sono arrivati alla stazione di Porta Nuova con la Freccia del Sud e il Treno del Sole, nome che darà il titolo a un libro di successo. Nel ‘74 si sono contati un milione e 200mila persone, il picco più alto della città, il doppio rispetto a vent’anni prima. La popolazione è alle prese, a Torino come altrove, con i primi referendum sui diritti civili, divorzio e presto aborto, guarda ogni sera alla tv come al principale rito domestico. La novità è il colore. Genoa-Torino, quindicesima giornata del ’76-77, è la prima gara trasmessa con il nuovo sistema, ma quasi tutti gli italiani la vedono ancora in bianco e nero perché i televisori non sono pronti. Tuttavia è un’altra trasmissione a spopolare, divenendo un appuntamento fisso degli italiani. Da venerdì 27 maggio 1977, dal Fiera 2 di Milano, va in onda un programma per inventori, spasimanti e vecchi conoscenti che si rincorrono. Si chiama Portobello, la conduce Enzo Tortora. Cambierà per sempre la Tv italiana. 

Portobello

L’altra evasione cara al Paese è il calcio. Il 3 ottobre 1976 inizia una nuova stagione di pallone, che il pubblico segue sui quotidiani, sul Guerin Sportivo, o ascoltando Tutto il calcio minuto per minuto alla radio. Soprattutto, c’è Novantesimo minuto, in onda alle 18 della domenica. È la messa laica del Paese. Gli stadi sono pieni, la passione è forte e la nuova stagione è assai attesa. Lo scudetto è sulle maglie di una squadra speciale, il Torino del presidente Pianelli, ex operario, vincitore l’anno prima in rimonta sulla Juventus. Ventisette anni dopo Superga, il sentimentale e fedelissimo popolo granata ha riassaporato il gusto della vittoria a danno della rivale storica. Per questo, il 16 maggio 1976, è esplosa la gioia incontenibile al fischio finale del match con il Cesena. Tuttosport, giornale sportivo della città, ha titolato: “Lassù qualcuno vi ama”. Quello scudetto porta molte firme, ma su tutte spicca quella di Gigi RadiceLo chiamano sergente di ferro. Buon calciatore del Milan, con brevi intermezzi nella Triestina e nel Padova, ha iniziato ad allenare nella sua Monza. Nel ’73 ha portato il Cesena in A per la prima volta nella sua storia. Un anno a Firenze, un altro a Cagliari e nell’estate ‘75 si è seduto sulla panchina del Torino. È stata una rivoluzione. Radice, ammiratore del calcio olandese, lo pratica al Filadelfia, dove il Toro respira la leggenda e vi assorbe la forza necessaria. Lo chiamano tremendismo granata e vale come un tatuaggio. 

Radice

Si lotta e si combatte. In difesa lo fanno il portiere Luciano Castellini, detto il Giaguaro, e Santin, passato da libero a marcatore. Lo stopper è Mozzini, ottima tecnica finita in secondo piano rispetto all’efficacia. Il libero è Caporale, scarto del Bologna risorto a Torino, mentre sulla fascia sinistra veleggia Salvadori. A centrocampo il Toro scudettato è una macchina perfetta: Patrizio Sala è il polmone, Renato “Zac” Zaccarelli un interno sopraffino, capace di scudo nel difendere e di spada nel colpire. Il cervello è Eraldo Pecci, arrivato da Bologna per 700 milioni di lire. La palla danza e ne esce una sinfonia. Ne beneficiano in particolare i tre davanti. A destra, dopo una sperimentazione da trequartista, Radice ha fissato all’ala Claudio Sala, il poeta del gol. Solo la presenza di Causio, sull’altra sponda del Po, gli nega una meritata maglia azzurra. Dribbla e crossa per i gemelli del gol Pulici e Graziani, che, puntuali, arrivano sul pallone per segnare. Il primo, Pulici, è partito da Legnano, non lontano dalle terre di Gigi Riva, il suo idolo. Diventerà, con Meroni e Valentino Mazzola, la bandiera della Maratona. Tre volte capocannoniere, segnerà 172 gol totali nei 15 anni al Torino, di cui 21 nell’anno dello scudetto. Nella stessa annata ne ha segnati 15 il gemello Graziani. Ha iniziato a Subiaco, alle porte di Roma, passando per l’Arezzo. Dal ‘73 il “generoso” Ciccio, com’è definito, trascina la squadra con un cuore gigantesco.

Graziani

Dall’altra parte c’è la Juventus. Ha anch’essa cambiato allenatore. Dopo l’ultimo campionato con Carlo Parola, il presidente Gianpiero Boniperti, numero uno del club dal 1971, si è affidato a un giovane tecnico messosi in luce al Milan. Visto il caos in casa rossonera, dove Rivera è giocatore e padrone, Giovanni Trapattoni ha accolto al volo la proposta recapitatagli da Torino. Ha 37 anni, guiderà negli Anni 80 la Juve più grande di sempre, ma per ora è una scommessa. Le garanzie stanno nella rosa. Il portiere è Dino Zoff, il migliore al mondo nel ruolo fino all’arrivo di Gigi Buffon. In difesa ci sono la tempra e i muscoli di Antonello Cuccureddu e Claudio Gentile, marcatori di destra e di sinistra, oltre a Morini, stopper tenace. Dietro, libero con i piedi educati da centrocampista, Gaetano Scirea svetta per classe, eleganza e stile. A centrocampo ci sono Marco Tardelli, terzino promozzo mezzala, il mediano Giuseppe Furino e Romeo Benetti, scambiato con Capello dal Milan. All’ala destra giostra un brasiliano nato casualmente a Lecce: Franco Causio ha colpi sublimi e carattere fumantino. In attacco ci sono Bettega, scontroso in campo quanto fuori, e Boninsegna, l’autentica rivelazione. L’anno precedente Anastasi si è sfogato per lo scarso impiego. Boniperti ha preferito non discutere e cederlo all’Inter in cambio di 700 milioni di lire e di Bonimba, considerato già vecchio a Milano. Le previsioni si ribaltano: male il neointerista, benissimo il neojuventino.

 

Anastasi è stato un simbolo, l’idolo dei tanti operai meridionali trapiantati a Torino. La Juventus ha infatti milioni di tifosi al Sud. È la Fidanzata d’Italia dagli Anni 30, ma ha rafforzato il suo mito nel Dopoguerra con Sivori, Charles e con lo stesso Boniperti. Accanto a siciliani, calabresi e pugliesi, si sono aggiunti coloro che da quelle regioni sono saliti a Torino per lavoro. La Fiat ha raddoppiato gli impianti di Mirafiori e nel ‘67 ha aperto gli stabilimenti di Rivalta. L’abitazione è il primo problema per una città raddoppiata, a seguire ci sono salario, scuole e trasporti, cui risponde in parte la tangenziale inaugurata nel ‘76. I modelli che hanno costretto ad allargare la base operaia sono stati la 850 (anno 1964) e la 124 (anno 1966). Non è produzione ad alto valore, prevale l’automazione di tipo fordista, con processi standardizzati che sviliscono le competenze dei vecchi metalmeccanici. Se questi erano in prevalenza tifosi del Toro, legati alle tradizioni piemontesi e al dialetto, il nuovo operaio-massa, impegnato alla catena di montaggio delle presse delle scocche, tifa Juventus. È una rivalità sociale, forse antropologica, prima che sportiva.

Juve

Il modello Fiat è stato quello di Vittorio Valletta, uomo di ferro dell’azienda negli anni più difficili della guerra e del dopoguerra. Orari monastici, rigore, disciplina di stampo sabaudo. Negli Anni 70 quel modello, dopo la morte del vecchio ragioniere, entra in piena crisi. Nel 1973 il nuovo contratto nazionale non è bastato a raffreddare le rivendicazioni sindacali, cominciate nell’autunno caldo del ‘69. La Fiat è nel punto più basso della storia. Vi mostriamo un documento di grande rilievo storico: è il bilancio del 1974. Numeri eloquenti: zero redditività, indebitamento cresciuto a 5.000 miliardi di lire. Gianni Agnelli è stato esplicito con gli azionisti: "La situazione può pregiudicare seriamente la vitalità dell’azienda". La Fiat è sull’orlo della “irizzazione”, cioè dell’acquisizione delle quote da parte del ministero delle Partecipazioni statali. È un salvataggio assicurato ad altre aziende, ma che segnerebbe la fine degli Agnelli al comando della secolare impresa di famiglia.

documento

Ancora peggiore, se si può, è la situazione di anarchia dentro gli stabilimenti. Nel 1976 si sono persi 6 milioni di ore di lavoro per sciopero e per assenteismo, sempre più frequente e mirato. Gli ordini non vengono rispettati, fra i capi c’è la paura di ritorsioni, con auto bruciate e minacce telefoniche nella notte. Tra il 1976 e il 1978 si aggiunge una fetta di nuovi operai assunti a Mirafiori, giovani formatisi con Lotta Continua e coi movimenti studenteschi. Si sentono di passaggio, credono nello spontaneismo, nell’antagonismo, nella mistica proletaria che tutto può. Umberto e Gianni Agnelli hanno scelto la strada della mediazione. Il primo dialoga con il PCI e con Luciano Lama, leader della Cgil, il secondo opta per la concertazione da presidente di Confindustria, nominato nel ‘74. Ma il futuro della Fiat è in serio pericolo.

Valletta e Agnelli

A questo punto succedono due cose decisive sulla strada della Fiat. La prima riguarda il management. Arriva in azienda un nuovo manager: Carlo De Benedetti. Ha ceduto il 60% della Gilardini, in cambio ha del 5% della Fiat. Va veloce, ha coraggio e idee innovative. Chiama Giorgio Giugiaro a disegnare la nuova automobile. Giugiaro ha concepito la Golf per i tedeschi di Volkswagen, adesso sta per partorire la Panda. Sarà il rilancio dell’azienda. Però l’impero di De Benedetti dura 100 giorni. In realtà c’è un’altra figura destinata a rimanere molto di più nel tempo: Cesare Romiti. Capo del settore finanziario. Dice: "Le perdite fanno agghiacciare il sangue". Ristrutturerà il debito e rimetterà in linea la Fiat, con prove di forza. L’altra cosa decisiva è la Libia. Gheddafi, attraverso la Banca del Paese, Lafico, acquista il 10% delle azioni Fiat e immette la liquidità necessaria a respirare. Un dittatore salva il capitalismo.

Panda

Se in Fiat domina l’anarchia, alla Juve ciò non succede. Giampiero Boniperti ha traslocato i principi della produzione industriale al campo Combi, dove la Juve si allena ogni giorno. Dista pochi metri dal Comunale e si trova a meno di un chilometro dal Filadelfia. Il presidente impone regole chiare, impegno, moralità, fermezza verso chi bussa a quattrini. La disciplina viene da prima del suo arrivo. Vi mostriamo un documento sin qui inedito e illuminante. È il 1970, anno di contestazioni di piazza e di capelli beat, ma ecco cosa si legge nella lettera inviata ai giocatori per il raduno: "Ad evitare rimproveri e malcontenti, precisiamo che non tolleriamo capelli lunghi, per cui sarà opportuno che provveda a presentarsi con una capigliatura adatta a un atleta".

Documento Juve

Boniperti ha capito un segreto prezioso: per essere forti, bisogna innanzitutto togliere i migliori agli avversari. Riportati a casa Bettega e Causio, nel ‘74 ha preso Scirea, nel ‘75 Tardelli. A Cremona ha scovato il baby Antonio Cabrini, prestato per una stagione all’Atalanta. Non soltanto lui ha notato il Bell’Antonio, ma pure milioni di donne. Alla Juve i reparti producono più di quanto non accada in quelli di Mirafiori: 7 scudetti nei 10 anni iniziali di Boniperti. La squadra ha fame dopo l’ultimo campionato perso. La Signora balza così in testa dalla prima giornata e vince le prime 7 gare, compresa quella in trasferta sul campo del Milan. La squadra si invola, ma all’ottava arriva il derby. Non è mai una gara come le altre, in questi anni ancora meno, perché decide lo scudetto e spesso lo vince il Toro. L’ultimo, giocato in primavera, ha consentito ai granata di accendere la rincorsa. Il derby del 5 dicembre 1977 rivede il Toro vincitore, marcatori Graziani e Pulici, ormai Puliciclone per tutti. La brigata di Radice va al comando e inizia un’esaltante battaglia a superarsi. Il Toro è avanti di due punti a Natale, ma a gennaio, grazie alla vittoria con il Napoli, la Juve lo aggancia in testa. La domenica dopo è sempre lei a battere l’Inter con doppietta dell’ex Boninsegna, un micidiale contrappasso per i nerazzurri guidati da Chiappella, e allunga di un punto sul Torino. A metà campionato è di nuovo parità: 25 punti per entrambe, 6 in più sull’Inter terza.

Gol Pulici nel derby

Il resto del campionato sembra in effetti assistere da lontano alla cavalcata tutta torinese. L’Inter si affida ai gol del giovane Muraro, mentre il Milan vive la strana annata di Pippo Marchioro. Anche lui, come Radice, ha fatto bene a Cesena e da lì ha compiuto il balzo a Milano, la sua città. Prima di fine stagione, però, Marchioro dovrà fare posto al ritorno di Nereo Rocco, salvo all’ultima giornata, ma vincitore a sorpresa della Coppa Italia in finale sull’Inter. Tolte le due milanesi, la Fiorentina di Mazzone si avvia al terzo gradino del torneo, con un campione che risponde al nome di Giancarlo Antognoni, mentre cercano un’identità più precisa la Roma di Liedholm, il Napoli di Pesaola, la Lazio di Vinicio, il Bologna di Cervellati.

 

Il calcio guarda a Torino per un duello che assorbe tutto, ma anche il resto del Paese osserva la città piemontese con l’angoscia provata di fronte al terrorismo. Sono anni tremendi, perché in città esiste da tempo una colonna fra le più attive. L’hanno fondata direttamente Renato Curcio e Mara Cagol, la coppia clandestina che con Alberto Franceschini capeggia le prime Brigate Rosse. Dopo l’arresto di Curcio e la successiva liberazione, il primo nucleo delle BR viene arrestato in maniera definitiva e processato.

Renato Curcio

È una vicenda tormentata, che spaventa la città. Il 17 maggio ‘76 ha inizio il processo, ma i brigatisti dietro le sbarre urlano, minacciano e disconoscono l’autorità dello Stato, ricusando gli avvocati, per loro servi del potere. Nasce così la pressione sui legali nominati d’ufficio. Via via rinunciano in tanti, così come si ritirano i giudici popolari, senza riuscire a trovare i 6 necessari per proseguire il processo. L’avvocato Fulvio Croce, presidente degli avvocati subalpini, è il primo a prendere coraggiosamente la difesa dei brigatisti, seguito da Franzo Grande Stevens. Croce è un civilista, non un penalista, veste semplicemente i panni dell’eroe. Lo uccideranno il 3 maggio 1977, mentre il campionato di calcio va finendo. A sparare è una pistola Nagant, la stessa che uccide in novembre Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa.

Casalegno

La sua è una storia esemplare di come colpisca il terrorismo della seconda ondata, che non uccide più solamente forze dell’ordine, esponenti dell’industria o uomini delle istituzioni. Si colpisce nel mucchio. Sul “Nostro stato”, rubrica che gli ha confermato il direttore Arrigo Levi, Casalegno osserva e giudica l’estremismo politico di quegli anni, compreso il movimento del ‘77 che ha visto da vicino con i suoi occhi nei giorni del convegno sulla repressione a Bologna, in settembre.

Non ha scorta, nessuno che lo accompagni. Gli sparano il 16 novembre 1977 davanti alla porta casa sua in Corso Re Umberto, mentre rientra per il pranzo. Morirà il successivo 29 novembre all’ospedale Le Molinette. Il commando è formato da Raffaele Fiore, che guarda in volto la vittima prima di sparargli e che sarà tra i membri del gruppo di fuoco del sequestro di Aldo Moro, e da Patrizio Peci, il primo grande pentito nella storia della lotta al partito armato. Da mesi Peci ha preso appunti su altri giornalisti, tra cui c’è Ezio Mauro, futuro direttore della Stampa e di Repubblica.

La Stampa

Sono i mesi in cui Torino trema da un lato e sorride dall’altro, sempre grazie al pallone. Il girone di ritorno si annuncia come un appuntamento elettrizzante per tifosi e comuni appassionati. Tutta Italia abbraccia la Mole, e si trasferisce con il pensiero nelle sue belle piazze. Il Toro non molla, sentendo che la forza della Juve è comunque superiore. Mette la testa avanti il 20 febbraio, sfruttando il pari dei rivali sul campo del Genoa, e però perde il vertice la settimana dopo incappando in una sconfitta all’Olimpico con la Roma. Scrive il grande Gianni Brera: "Le torinesi mantengono un ritmo folle, gomito a gomito. Si stanno letteralmente tirando il collo". Saliscendi, emozioni, ribaltamento di stati d’animo e sentimenti. Il derby di ritorno, fissato per il 3 aprile, finisce in parità. Sfugge al Toro un’occasione d’oro per prendere il largo. Ma il 24 aprile, nell’agrodolce Perugia, la squadra bianconera fa 1-1 e si ricrea la coppia al comando. È il Perugia di Castagner, secondo nel ’78-79. Nell’organico vi figura Aldo Agroppi, un totem granata come è stato Giorgio Ferrini, capitano e vice di Radice nell’ultimo anno. La sfortuna si è accanita contro. Prima che il ‘77 inizi, un’emorragia cerebrale lo uccide. È la maledizione del Torino, che nel 1949 ha visto sparire gli Invincibili e che nel ‘67 ha perso Gigi Meroni, la farfalla granata. 

Giorgio Ferrini

Il Torino di Radice combatte anche per loro. Però la Juventus è più forte, più solida, più continua, sostenuta da milioni di tifosi. È popolare e la lettera scambiata tra Boniperti e l’ufficio pubblicità della Fiat, per fissare il valore commericale dei calciatori bianconeri, lo conferma in un documento mai visto prima. Questo.

La lettera scambiata tra Boniperti e l’ufficio pubblicità della Fiat

Il 30 aprile, battendo 2-1 il Napoli, con gol nel finale di Furino, Madama torna in testa da sola. È il punto di vantaggio che varrà il diciassettesimo scudetto, probabilmente il più sofferto di sempre. Nelle due giornate che precedono l’ultima, entrambe le squadre non perdono terreno. Il Torino supera il Milan e si ripete alla penultima contro il Foggia, la Juventus si sbarazza dell’Inter e supera la Roma. Manca un’ultima giornata di campionato e ai 90 minuti in calendario il 22 maggio sono legate le residue speranze del popolo granata.

C’è una parte che non abbiamo ancora raccontato di questo Juve-Torino. Ed è quello della Nazionale di Enzo Bearzot, che a Torino – la città in cui è stato calciatore granata - ha pescato a pieni mani per la sua Nazionale che cerca il rilancio dopo la delusione del Mondiale ’74. È un azzurro che parla interamente torinese: 9/11 della formazione tipo di tutto il 1977 sono di Juventus o Torino. Zoff e Gentile, Benetti e Tardelli, Causio e Bettega. Ma anche Zaccarelli e Graziani sul lato granata. È il gruppo, al suo interno spesso diviso, che si avvia al grandioso Mondiale del 1978 in Argentina, con 9 juventini titolari. Ed è sempre il gruppo che, cinque anni dopo questo scudetto combattuto sino all’ultima giornata, diventerà campione del mondo con Pertini in tribuna. Eh sì, questo infinito Juve-Torino dei Settanta arriverà fino al Santiago Bernabeu, dove l’11 luglio 1982 l’Italia diventa campione per la terza volta. Sarà l’uscita dell’Italia dagli anni di piombo.

Italia 1982

In realtà è tutta l’Italia che cerca faticosamente di uscire dagli anni di piombo. Proprio da Torino, città simbolo e martoriata, arrivano i primi, timidi segnali di svolta. La Fiat del più risoluto Romiti risponde agli attacchi. Dopo Ettore Amerio, il primo sequestrato nel 1973, tanti e troppi sono stati i capireparto, responsabili del personale, semplici quadri feriti o uccisi. Nel ‘79, la Fiat invia la lettera di licenziamento a 61 indesiderati. È un terremoto per Mirafiori. Il calo del 30% nella produzione e le 30mila auto invendute obbligano al contempo il vertice aziendale a chiedere la cassa integrazione per 78mila dipendenti. Ne segue il presidio davanti ai cancelli, visitati il 26 settembre 1980 dal segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer, sostenitore di una linea di fermezza. Passerà alla storia come la protesta dei 35 giorni, ma la storia la scriverà la risposta alla prolungata occupazione. Il 14 ottobre 1980, dopo l’incontro al Teatro Nuovo, 40mila persone - tante ne conterà il tg - sfilano per Torino. Capi e impiegati Fiat chiedono di rientrare in ufficio e chiudono la contestazione. Emblematica la frase di Luigi Arisio, leader dei colletti bianchi: "Siamo il Partito della voglia di lavorare".

Marcia dei 40mila

A sconfiggere il terrorismo è soprattutto la capacità investigativa di Carlo Alberto Dalla Chiesa, il generale dell’Arma ucciso nel 1982 da prefetto di Palermo. Ha messo insieme un gruppo che lavora unito e che studia gli incroci fra azioni BR e catasto, per capire dove si trovino i covi. Li individua, sa leggere dentro ai comunicati, con l’aiuto del procuratore Giancarlo Caselli e con la legislazione sui pentiti sferra il colpo risolutivo alle Brigate Rosse, condannate nel ’78 dal tribunale a 210 anni totali. È una vittoria dal prezzo alto, ma grandiosa. Nel ‘77, questo dicono le statistiche, nella sola Torino ci sono stati ancora 10 feriti, 150 aggressioni, 4 morti, fra i quali il povero studente Roberto Crescenzio, bruciato dalle bombe molotov lanciate all’interno del bar Angelo Azzurro. Accanto alle Br, hanno iniziato a sparare i torinesi di Prima Linea, tra cui c’è Marco Donat-Catin, figlio dell’illustre esponente della sinistra DC, Carlo. Uccidono nel 1979 Carlo Ghiglieno, ennesimo dirigente Fiat, e nel dicembre dello stesso anno attaccano la scuola di amministrazione dell’azienda, sparando alle gambe di decine di indifesi. È l’orrore quotidiano che va a cibare l’ultimo e disperato terrorismo, che in quel 1979 uccide il sindacalista Guido Rossa, colpito a morte a Genova per avere indicato i nomi dei terroristi all’interno della fabbrica. Chi lotta in nome del proletariato, finisce per uccidere i proletari, una lugubre beffa.

Carlo Alberto Dalla Chiesa

Il calcio si divide le prime pagine con i morti ammazzati. A Torino si arriva alla settimana decisiva del campionato, quella dello scudetto. Un pari della Juventus a Marassi contro la Sampdoria e una vittoria interna del Torino contro il Genoa porterebbe a uno spareggio per assegnare il tricolore. In molti ci sperano. Domenica 22 maggio 1977 offre un duello all’ultimo respiro, mentre milioni di italiani restano incollati alle radioline. Vincerà la qualità della Juve o prevarrà il cuore Toro?

 

In realtà, prima che le squadre scendano in campo, il mercoledì mette in cartellone una partita non meno importante. A Bilbao, la Juventus gioca per vincere la prima Coppa internazionale della storia e cancellare la sconfitta di quattro anni prima nella finale Coppa dei Campioni contro l’Ajax. È arrivata sin lì battendo le due squadre di Manchester e l’Aek Atene in semifinale. Nella finale d’andata, a Torino, la Juventus si è imposta per 1-0 grazie a una rete di Tardelli, ma al San Mames ha contro una Nazione, perché l’Athletic Bilbao vuol dire Paesi Baschi. La partita è accompagnata da un frastuono assordante, eppure la squadra non si smarrisce come altre volte in Europa. Bettega infila di testa, poi risponde poco dopo Irureta. Nella ripresa, Trap inserisce Spinosi al posto di Boninsegna per chiudersi. Gli spagnoli segnano di nuovo con Carlos, ma è tutto inutile perché il gol segnato in trasferta vale doppio. Anticipando la Coppa Coppe, la Supercoppa europea e la Coppa Campioni del decennio seguente, per la prima volta la Juve trionfa fuori dall’Italia.

Juve vittoriosa in Coppa Campioni

Tre giorni e si arriva finalmente alla domenica più attesa, in un incrocio particolarissimo tra Torino e Genova. Il Toro liquida in fretta il Genoa al Comunale, andando sul 3-0 dopo un quarto d’ora. Tutta l’attenzione si sposta a quel punto allo stadio di Genova, dove la Sampdoria di Bersellini e del futuro allenatore bianconero Marcello Lippi lotta per restare in Serie A. Un classico testacoda da ultima giornata, un duello da brividi. Seppure il gioco sia comandato dalla Juve, la partita resta in equilibrio per quasi un’ora di gioco, fino a quando Cabrini non scende sulla fascia, passa a Tardelli, il quale tira verso il portiere Cacciatori. Sulla traiettoria si getta Bettega, che segna di destrezza. Poi, sempre Bettega, confeziona l’assist per il raddoppio di Boninsegna. Mentre a Torino diventano inutili i 5 gol granata, la Juve è campione d’Italia. I bianconeri torneranno a vincere all’ultimo turno nel 1982, nel 2002, ma forse mai più con il sapore intenso provato stavolta.

Bettega

A Marassi scattano subito gli abbracci, le fotografie, la gioia dei tifosi che invadono il campo, con quelli della Samp che invece contestano la caduta in B. Nelle case di milioni di italiani si festeggia con spumante italiano, come italiano è in fondo tutto il nostro calcio di quella stagione. È la Juve autarchica degli Anni 70, una formazione che entrerà nel cuore di un’intera generazione di ragazzi e ragazze, in un calcio umano nel quale si ricorda l’undici a memoria. Dall’altra parte rimane invece l’amarezza del Torino, che ha lottato e combattuto sino all’ultimo, soffrendo come gli impone ogni volta il destino. Ha messo 15 punti fra sé e la terza, ma non è bastato. Soltanto un’altra volta da allora, nel 1985, il Toro si piazzerà di nuovo secondo. Quella squadra, la più grande di sempre dopo quella leggendaria di Superga, entrerà nel cuore accesissimo dei tifosi, che non la lasceranno più.

Prima pagina de La Gazzetta Dello Sport del 23 maggio 1977

Si chiudeva così una sfida emozionante, di una potenza assoluta, come potente è tutta questa storia. Perché il calcio ha restituito alla Torino del ’77 la voglia di vivere nonostante la violenza, i morti ammazzati fuori e dentro le fabbriche, l’ideologia malata, la rabbia, le umiliazioni, il dolore. Un calcio domestico, vissuto a dimensione familiare, che restituiva anche all’Italia uno dei campionati più appassionanti di sempre, destinato alla memoria, arricchito dalle prodezze dei calciatori italiani e da un duello scritto nella pietra. Boniperti contro Pianelli, Trapattoni contro Radice, granata contro bianconeri. Ma pure fra ricchi e poveri, aristrocratici e proletari, fra indiani e cowboy, per ricordare qui il grande Emiliano Mondonico, un altro ragazzo del Fila. Un duello durato dodici mesi, ma in realtà molto di più. Durato due anni, durato da sempre e in fondo in fondo mai finito. Una sfida giocata con i gol di Pulici e Bettega, le invenzioni di Causio e Claudio Sala, le parate di Castellini e di Zoff. Come se un’unica, grande storia fosse stata scritta in quegli anni e in quella sola città: Torino. La Torino del 1977 consegnata agli almanacchi di calcio, come nei libri di scuola dei nostri figli. Nessuna città ha raccontato così bene un decennio di calcio, di società, di passioni, tragedie, violenza, paura, infine speranza. Né Juve, né Toro, solo Torino 1977, come è giusto che rimanga impressa nella nostra storia.

"Storie di Matteo Marani" torna a raccontare, con il corredo di immagini bellissime e con il suo noto ritmo da inchiesta, un pezzo fondamentale dello sport e del nostro Paese, con testimonianze di grande importanza, come quelle di Ezio Mauro, allora giovane cronista, dei calciatori Paolo Pulici, Antonio Cabrini ed Eraldo Pecci, di Simona Ventura e Sandro Veronesi, si ripercorrono in questa puntata gli anni di piombo e il calcio autarchico, con le frontiere chiuse agli stranieri. "1977, Torino di Piombo" è disponibile on demand.