Pep e Ibra: insieme, mai. E il campione fa le valigie
CalciomercatoIl possibile approdo di Guardiola sulla panchina del Milan significherebbe l'addio di Ibrahimovic alla maglia rossonera. Ma non sarebbe la prima volta che un fuoriclasse viene sacrificato sull'altare della tattica o per divergenze con il tecnico
di Vanni Spinella
“Qui al Barça teniamo i piedi per terra. Non veniamo agli allenamenti in Ferrari o in Porsche. Siamo tutti uguali”. Gli incubi di Zlatan Ibrahimovic, essere considerato uguale a tutti gli altri e dover circolare con un’utilitaria, risuonano ancora nelle orecchie dello svedese, con la voce pacata del “filosofo” Guardiola.
Se è difficile immaginare una stretta di mano tra i due, dopo tutto l’inchiostro al veleno che è stato versato per scrivere “Io, Ibra”, appare addirittura impossibile ipotizzare una convivenza sotto il cielo di Milanello.
Una e una sola la conseguenza: se Pep Guardiola approdasse veramente sulla panchina del Milan, Ibrahimovic farebbe le valigie all’istante.
Il grande Zlatan sconfitto dall’allenatore-filosofo, suo nemico giurato. Il sogno-ossessione della Champions da andare a coltivare altrove, magari con qualcuno che lo condivida e che sappia apprezzare la diversità dei campioni (dite il Real di Mourinho?).
Eppure, non ci sarebbe neanche troppo da scandalizzarsi. Non sarebbe la prima volta che si vedrebbe la testa di un fuoriclasse capitolare di fronte all’allenatore al quale non si può dire di no. Perché il mister rappresenta la continuità, il progetto, lo schema. E in nome della squadra, del gruppo che va tutelato, il campione con doti extra-ordinarie deve arrendersi, riconoscere la propria diversità e andare a cercare fortuna altrove.
L’esempio più eclatante è quello di Ronaldo. Nel 2002 il Fenomeno risorge in Giappone e Corea: dopo aver pianto per lo scudetto del 5 maggio perso con l’Inter va a prendersi il Mondiale con la propria Nazionale, da protagonista. Torna dall’Oriente con due cose in testa: una strana mezzaluna di capelli e l’idea che, all’Inter, possa essere tutta colpa dell’allenatore. Reo di farlo allenare troppo e male, di non farlo giocare come e quanto vuole lui, di circondarlo di compagni scarsi (anche se Gresko è stato cacciato un minuto dopo il fischio finale di Lazio-Inter) e, infine, di essere argentino in uno spogliatoio già troppo argentino.
Ronaldo va così da papà Moratti a recitare la parte della novella Salomè: dammi la testa del mio nemico e vedrai come ti faccio divertire. Stavolta, però, non va come riportano i testi biblici: Moratti fa testa-o-croce, e tra la testa di Cuper e una croce sul brasiliano sceglie di mettere la parola fine alla storia con quel Fenomeno capriccioso mai cresciuto.
Il successo di Cuper (licenziato comunque dopo poco più di un anno) non rappresenta che il 2-0 a favore della “squadra” degli allenatori. Il gol del vantaggio, sempre in nome della tattica, l’aveva già realizzato Carlo Ancelotti, al suo arrivo a Parma, nel 1996: 4-4-2 il suo credo ereditato dal maestro Arrigo, e per i trequartisti non c’è più spazio, a meno che non vogliano accomodarsi sulla fascia. Arrivederci e grazie a Zola, impacchettato in una magic box destinazione Inghilterra, e l’anno dopo stop alle trattative già avviate per portare Robi Baggio in Emilia.
Non c’è soluzione: allenatori e geniacci del pallone sembrano non riuscire a coesistere.
Allegri giurò di poter vincere lo scudetto senza Ronaldinho, mandato al Flamengo, e in effetti mantenne la promessa (ci riuscirà anche senza Pirlo?); Mourinho all’Inter si fece amare da tutti, Ibra compreso, ma non riuscì ad essere quel padre-non-padrone che Balotelli ancora cerca in un allenatore.
Lippi e Baggio, ritrovatisi all’Inter dopo i tempi della Juve, si odiarono neanche troppo cordialmente, a suon di messaggi in codice scritti sul cappellino (“Matame si no te siervo”) e dispettucci, come il peperoncino negato nell’insalata.
Per non parlare di Cassano, invocato da mezza Italia che lo voleva in Nazionale, che per vestire la maglia azzurra ha dovuto aspettare che si chiudesse il Lippi-bis con il naufragio in Sudafrica.
E poi Sacchi. L’Arrigo convocò il capocannoniere della Serie A, Beppe Signori, per il Mondiale americano, dove fu mandato a quel paese prima dal Divin Codino (sostituito contro la Norvegia) e poi dallo stesso Signori, che si rifiutò di giocare come esterno di centrocampo la finale contro il Brasile, per far posto a Massaro davanti.
Anni prima, addirittura, Sacchi era arrivato a chiedere a Silvio Berlusconi la cessione di Van Basten, dotato di talento infinito ma di scarsa “umilté”. Silvio, che adorava entrambi come figli, lo ringraziò per il bel giuoco portato al Milan, ma poi lo accompagnò alla porta.
Gol di Van Basten. Prima di Ronaldo, Zola, Dinho, Baggio e, forse, Ibrahimovic, uno dei pochissimi campioni più forti anche del loro allenatore.
“Qui al Barça teniamo i piedi per terra. Non veniamo agli allenamenti in Ferrari o in Porsche. Siamo tutti uguali”. Gli incubi di Zlatan Ibrahimovic, essere considerato uguale a tutti gli altri e dover circolare con un’utilitaria, risuonano ancora nelle orecchie dello svedese, con la voce pacata del “filosofo” Guardiola.
Se è difficile immaginare una stretta di mano tra i due, dopo tutto l’inchiostro al veleno che è stato versato per scrivere “Io, Ibra”, appare addirittura impossibile ipotizzare una convivenza sotto il cielo di Milanello.
Una e una sola la conseguenza: se Pep Guardiola approdasse veramente sulla panchina del Milan, Ibrahimovic farebbe le valigie all’istante.
Il grande Zlatan sconfitto dall’allenatore-filosofo, suo nemico giurato. Il sogno-ossessione della Champions da andare a coltivare altrove, magari con qualcuno che lo condivida e che sappia apprezzare la diversità dei campioni (dite il Real di Mourinho?).
Eppure, non ci sarebbe neanche troppo da scandalizzarsi. Non sarebbe la prima volta che si vedrebbe la testa di un fuoriclasse capitolare di fronte all’allenatore al quale non si può dire di no. Perché il mister rappresenta la continuità, il progetto, lo schema. E in nome della squadra, del gruppo che va tutelato, il campione con doti extra-ordinarie deve arrendersi, riconoscere la propria diversità e andare a cercare fortuna altrove.
L’esempio più eclatante è quello di Ronaldo. Nel 2002 il Fenomeno risorge in Giappone e Corea: dopo aver pianto per lo scudetto del 5 maggio perso con l’Inter va a prendersi il Mondiale con la propria Nazionale, da protagonista. Torna dall’Oriente con due cose in testa: una strana mezzaluna di capelli e l’idea che, all’Inter, possa essere tutta colpa dell’allenatore. Reo di farlo allenare troppo e male, di non farlo giocare come e quanto vuole lui, di circondarlo di compagni scarsi (anche se Gresko è stato cacciato un minuto dopo il fischio finale di Lazio-Inter) e, infine, di essere argentino in uno spogliatoio già troppo argentino.
Ronaldo va così da papà Moratti a recitare la parte della novella Salomè: dammi la testa del mio nemico e vedrai come ti faccio divertire. Stavolta, però, non va come riportano i testi biblici: Moratti fa testa-o-croce, e tra la testa di Cuper e una croce sul brasiliano sceglie di mettere la parola fine alla storia con quel Fenomeno capriccioso mai cresciuto.
Il successo di Cuper (licenziato comunque dopo poco più di un anno) non rappresenta che il 2-0 a favore della “squadra” degli allenatori. Il gol del vantaggio, sempre in nome della tattica, l’aveva già realizzato Carlo Ancelotti, al suo arrivo a Parma, nel 1996: 4-4-2 il suo credo ereditato dal maestro Arrigo, e per i trequartisti non c’è più spazio, a meno che non vogliano accomodarsi sulla fascia. Arrivederci e grazie a Zola, impacchettato in una magic box destinazione Inghilterra, e l’anno dopo stop alle trattative già avviate per portare Robi Baggio in Emilia.
Non c’è soluzione: allenatori e geniacci del pallone sembrano non riuscire a coesistere.
Allegri giurò di poter vincere lo scudetto senza Ronaldinho, mandato al Flamengo, e in effetti mantenne la promessa (ci riuscirà anche senza Pirlo?); Mourinho all’Inter si fece amare da tutti, Ibra compreso, ma non riuscì ad essere quel padre-non-padrone che Balotelli ancora cerca in un allenatore.
Lippi e Baggio, ritrovatisi all’Inter dopo i tempi della Juve, si odiarono neanche troppo cordialmente, a suon di messaggi in codice scritti sul cappellino (“Matame si no te siervo”) e dispettucci, come il peperoncino negato nell’insalata.
Per non parlare di Cassano, invocato da mezza Italia che lo voleva in Nazionale, che per vestire la maglia azzurra ha dovuto aspettare che si chiudesse il Lippi-bis con il naufragio in Sudafrica.
E poi Sacchi. L’Arrigo convocò il capocannoniere della Serie A, Beppe Signori, per il Mondiale americano, dove fu mandato a quel paese prima dal Divin Codino (sostituito contro la Norvegia) e poi dallo stesso Signori, che si rifiutò di giocare come esterno di centrocampo la finale contro il Brasile, per far posto a Massaro davanti.
Anni prima, addirittura, Sacchi era arrivato a chiedere a Silvio Berlusconi la cessione di Van Basten, dotato di talento infinito ma di scarsa “umilté”. Silvio, che adorava entrambi come figli, lo ringraziò per il bel giuoco portato al Milan, ma poi lo accompagnò alla porta.
Gol di Van Basten. Prima di Ronaldo, Zola, Dinho, Baggio e, forse, Ibrahimovic, uno dei pochissimi campioni più forti anche del loro allenatore.