Nonostante la pettinatura alla He-Man, i superpoteri del centrocampista spagnolo svaniscono non appena mette piede in Italia. Nell'estate 2001 la Lazio si indebita per strapparlo al Valencia, con cui ha raggiunto (e perso) due finali di Champions consecutive. Poteva essere un campione di mezzofondo, oggi fa il dj
Forse solo la forza di Grayskull avrebbe potuto salvarlo. Purtroppo, però, quando si presentò in Italia con il suo bel caschetto biondo era sprovvisto della spada magica necessaria a trasformarlo nell’He-Man della Serie A. E così, di lui, resta solo il ricordo di un fragoroso flop. Non ditelo ai tifosi della Lazio, che quando sentono nominare Gaizka Mendieta pensano immediatamente a quei 90 miliardi di lire gettati al vento nell’estate 2001.
Dischetto di ghiaccio
Estate di follie di mercato, quella, con un giro di miliardi impressionante: la Juventus ne sborsa 175 per Buffon e Thuram (dopo averne incassati 150 dal Real Madrid per Zidane), il Milan prende Rui Costa (85 miliardi), Inzaghi (70) e Pirlo (35), l’Inter Toldo (55 miliardi). Anche la Lazio si rifà il look privandosi di due pezzi pregiati come Nedved (alla Juventus per 75 miliardi) e Veron (al Manchester United per 78); poi, con quel tesoretto in mano, Cragnotti si scatena e punta sul miglior centrocampista del momento: il capitano del Valencia, Gaizka Mendieta. Fascia al braccio e zazzera bionda al vento, il basco è l’uomo in più della squadra di Hector Cuper (che in quell’estate approderà all’Inter), reduce da due finali di Champions consecutive perse, prima contro il Real Madrid e poi con il Bayern Monaco.
Sfiga cuperiana a parte, Mendieta con la sua straordinaria normalità è un motore inesauribile, fonte di gioco, idee e gol pesanti, segnati spesso grazie alla sua capacità di essere glaciale dal dischetto: quando Balotelli andava ancora alle elementari, lui già calciava i rigori fissando il portiere durante la rincorsa e aspettandone la prima mossa per poi spiazzarlo. Ne sa qualcosa anche Kahn, battuto due volte dagli undici metri nel corso della finale di Champions tra Bayern e Valencia giocata a San Siro nel 2001: dopo appena 2’, quando intuisce e rischia di parare il rigore che Mendieta si è procurato e trasforma, e al termine dei 120’, quando lo spagnolo manda palla da una parte e King Kahn dall’altra.
Ma quanto corre?
Ecco: normale. Così verrebbe da definire Mendieta a vederlo, anche quando è all’opera. Fisico esile che lo rende simile a He-Man solo dal collo in su; giocate semplici fatte di passaggi lineari ma precisi, intelligenti, effettuati con i tempi giusti. Di fuori dall’ordinario ha quella naturale predisposizione al movimento perenne (che ne fa uno dei primi tuttocampisti del panorama europeo), frutto di una capacità aerobica che in gioventù l’aveva reso una promessa del mezzofondo: a 14 anni aveva stabilito il record nazionale sui 2000 metri, poi però l’incontro con il calcio e a 16 anni eccolo già in Segunda Division a correre per tre e a recuperar palloni. Con grande umiltà, che conserva anche quando da giocatore ormai affermato si fa questo autoritratto: “Ad essere onesti, non ero così bravo. Ero semplicemente un ottimo atleta: coprivo tutto il campo e correvo per tutto il tempo, riuscendo soltanto a compiere passaggi facili. Basta guardare le mie prime partite al Castellón e al Valencia: facevo solo questo”.
Debito triennale
“Solo questo”, ad ogni modo, basta a portare il Valencia tra le prime squadre d’Europa e a far schizzare la sua valutazione a un pelo dai 90 miliardi. Cragnotti ne promette altri 8 all’anno per 5 stagioni al ragazzo e il 18 luglio 2001, a tarda sera, conclude l’affare dopo due ore di trattative, accontentando il Valencia anche nella sua ultima richiesta, sotto forma di clausola: “Non rivendete il nostro gioiello al Real Madrid”. Di fatto il presidente biancoceleste si indebita a tal punto da essere costretto, tre anni più tardi, a cedere agli spagnoli Fiore e Corradi per chiudere la questione, con i due che lasceranno la Serie A dichiarando “Andiamo al Valencia per salvare la Lazio”.
Un tipo fuori dagli schemi
Ma torniamo a “He-Mendieta”. Parte il campionato e Zoff, allenatore dei biancocelesti, appare perplesso e pensieroso. Più del solito, s’intende. Non riesce a trovare la giusta collocazione tattica a “mister 90 miliardi”, ma i suoi dubbi dureranno appena 3 giornate: esonerato, la squadra viene affidata a Zaccheroni. Cambia poco: nel centrocampo di Zac, con i 4 in linea, Mendieta gioca un po’ centrale e un po’ sulla destra, ma del leader che aveva incantato tutti facendo la mezzala nel rombo del Valencia non si vede nemmeno l’ombra. Chiude la stagione con 20 presenze in campionato, giocando solo 6 partite dal primo al novantesimo minuto. Non un gol, non un assist, non un rigore da poter calciare alla sua maniera: quell’anno alla Lazio ne fischiano in tutto 3 a favore e lui in quelle occasioni non è mai in campo. Qualcosa lascia supporre che comunque, anche se fosse stato, i compagni non si sarebbero affidati a lui. I suoi poteri erano rimasti a Valencia.
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Musica, maestro!
A fine stagione la clausola impedisce alla Lazio di poterlo sbolognare solo al Real, che comunque non si fa di certo sotto. Bussa alla porta di Cragnotti, invece, il Barcellona, ancora lontano dall’essere il club che incanterà il mondo: Mendieta torna nella Liga ma non torna più lui. I suoi passaggi normali non hanno più niente di speciale, segna (4 gol) ma non come un tempo, quando per due stagioni era stato capace di andare in doppia cifra. Cambia di nuovo aria, provando la Premier con la maglia del Middlesbrough, e cambia anche la musica, in tutti i sensi. Perché Mendieta si riscopre importante (4 stagioni con buoni numeri e una Coppa di lega in bacheca), ma soprattutto deejay, a fine carriera. Appende gli scarpini e indossa le cuffie, sempre a modo suo: schivo, taciturno. Lineare anche nel mettere su i dischi. Ma per la prima volta, fate caso alle foto, sorridente.