INTERVISTA ESCLUSIVA. A trent'anni dal primato di Città del Messico, il campione trentino si racconta a chi oggi di anni ne ha venti: "Sono uno che ha corso in bici, facendo del proprio meglio. Sperimentare le nuove tecniche mi diede grandi stimoli"
di Stefano Rizzato
Alle spalle ha una carriera da 273 vittorie, compresi un Giro d’Italia, tre Parigi-Roubaix di fila (dal 1978 al 1980), una Milano-Sanremo e quello straordinario record dell'ora del 1984. In gruppo lo chiamavano “lo Sceriffo” e mai, davanti a una vittoria si è tirato indietro. Eppure, oggi, vorrebbe essere ricordato così, “come uno che ha corso in bici, facendo del proprio meglio”. Spirito trentino, Moser, senza tanti fronzoli né bisogno di autocelebrarsi. Eppure, a trent’anni dalle storiche giornate di Città del Messico, è inevitabile guardare indietro. E provare a raccontare tutto, a chi allora non era nato.
Il primato è del 1984, ci sta in mezzo più di una generazione. Come lo spieghiamo, a un ventenne, chi è Francesco Moser?
“Mio figlio è nato nel ’92, ma lui è di casa e non vale. Tra i ragazzi di oggi però ce ne sono che sanno chi sono e cos’ho fatto. Come vorrei essere ricordato? Mah, direi come uno che ha corso in bici e che per 15-18 anni ha provato a farlo nel modo migliore, dando tutto quello che poteva. In un ciclismo molto diverso, dove si correva tutti i giorni e tutte le corse, visto che le squadre erano piccole, di 15 corridori al massimo”.
È questa la grande differenza rispetto ad oggi?
“Oggi basta vincere una corsa all’anno e si diventa campioni. Noi all’epoca se stavamo una settimana senza vincere era un disastro. A cambiare tutto è stato Hinault, che cominciò a pianificare la stagione concentrando gli sforzi per vincere il Tour. Ogni tanto, ci è anche riuscito...”.
C’è un dettaglio della sua carriera che pensa vada raccontato per primo?
“Ce ne sono tanti, ma forse tornerei ai miei vent’anni, al 1971. Avevo appena fatto il servizio militare e mi avevano proposto di correre per una squadra dilettanti toscana, la Bottegone. Prima correvo da solo, avevamo tesserato apposta la squadra di Palù di Giovo [il paese natale ndr], spesso mi scontravo con team già organizzati, ma cinque vittorie le avevo portate a casa. Alla fine decisi di accettare e alla Bottegone fu chiesto un milione di lire, una bella cifra per l’epoca. La usammo per fare il primo campo sportivo del paese, su un terreno in campagna dove oggi c’è anche la palestra e la società sportiva, con giovani ciclisti fino agli juniores”.
A loro cosa consiglia?
“Di essere consapevoli che non tutti possono arrivare a fare quello che ho fatto io, ma che non devono nascondersi davanti alle responsabilità e alle corse”.
Cosa la spinse a provare il record dell’ora, nel 1984?
“Tra il ‘74 e il ’75 con me correva Ole Ritter, che era stato il primo a fare il primato a Città del Messico, qualche anno prima, e che poi era stato battuto da Merckx nel ’72. Lui era mio gregario e aveva deciso di riattaccare il record, ma non ci riuscì. Qualche anno dopo, quando Enervit mi propose quell’avventura, accettai volentieri”.
E dove lo colloca, il record dell’ora, tra i suoi tanti successi?
“Senza dubbio tra le cose più importanti, insieme al Giro d’Italia e al Mondiale”.
Fu il record che portò nuovi metodi scientifici e tecnologie nel ciclismo: che effetto le faceva?
“I tempi erano maturi, è toccato a me sperimentare per la prima volta ma sarebbe capitato a qualcun altro poco dopo. Di certo, fu un aspetto che mi diede tanti stimoli e che mi spinse a correre fino a 37 anni. Forse, se non avessi fatto il record, avrei smesso l’anno dopo”.
Tra le sue vittorie, ce n’è una che le sembra sottovalutata?
“Forse il Giro di Lombardia del ’78, che fu una vittoria doppia. Era l’ultima gara della stagione e ci arrivavo a pari punti con Hinault nella superclassifica Uci, quella che poi è diventata la Coppa del Mondo e che non era mai stata vinta da un italiano. Fu una grande soddisfazione, ricordo ancora la premiazione a Parigi, molto emozionante”.
Cancellara ha già annunciato che proverà a battere il record dell’ora: che chance gli dà?
“Ottime. Se – con tutto il rispetto – ce l’ha fatta Sosenka, a maggior ragione Fabian ci può riuscire. E sarebbe bello se lo facesse, darebbe importanza al record e riaprirebbe la competizione. Battere un grande dà motivazioni e prestigio: successe a me con Merckx, che non era uno sconosciuto...”.
Chi sono i suoi preferiti, tra i ciclisti di oggi?
“Proprio Cancellara è sicuramente uno di questi e uno in cui mi rivedo, anche se lui va più forte in salita, è più passista. Tra gli italiani, non posso che citare Nibali, che è moderno e perfetto per le corse a tappe”.
Alle spalle ha una carriera da 273 vittorie, compresi un Giro d’Italia, tre Parigi-Roubaix di fila (dal 1978 al 1980), una Milano-Sanremo e quello straordinario record dell'ora del 1984. In gruppo lo chiamavano “lo Sceriffo” e mai, davanti a una vittoria si è tirato indietro. Eppure, oggi, vorrebbe essere ricordato così, “come uno che ha corso in bici, facendo del proprio meglio”. Spirito trentino, Moser, senza tanti fronzoli né bisogno di autocelebrarsi. Eppure, a trent’anni dalle storiche giornate di Città del Messico, è inevitabile guardare indietro. E provare a raccontare tutto, a chi allora non era nato.
Il primato è del 1984, ci sta in mezzo più di una generazione. Come lo spieghiamo, a un ventenne, chi è Francesco Moser?
“Mio figlio è nato nel ’92, ma lui è di casa e non vale. Tra i ragazzi di oggi però ce ne sono che sanno chi sono e cos’ho fatto. Come vorrei essere ricordato? Mah, direi come uno che ha corso in bici e che per 15-18 anni ha provato a farlo nel modo migliore, dando tutto quello che poteva. In un ciclismo molto diverso, dove si correva tutti i giorni e tutte le corse, visto che le squadre erano piccole, di 15 corridori al massimo”.
È questa la grande differenza rispetto ad oggi?
“Oggi basta vincere una corsa all’anno e si diventa campioni. Noi all’epoca se stavamo una settimana senza vincere era un disastro. A cambiare tutto è stato Hinault, che cominciò a pianificare la stagione concentrando gli sforzi per vincere il Tour. Ogni tanto, ci è anche riuscito...”.
C’è un dettaglio della sua carriera che pensa vada raccontato per primo?
“Ce ne sono tanti, ma forse tornerei ai miei vent’anni, al 1971. Avevo appena fatto il servizio militare e mi avevano proposto di correre per una squadra dilettanti toscana, la Bottegone. Prima correvo da solo, avevamo tesserato apposta la squadra di Palù di Giovo [il paese natale ndr], spesso mi scontravo con team già organizzati, ma cinque vittorie le avevo portate a casa. Alla fine decisi di accettare e alla Bottegone fu chiesto un milione di lire, una bella cifra per l’epoca. La usammo per fare il primo campo sportivo del paese, su un terreno in campagna dove oggi c’è anche la palestra e la società sportiva, con giovani ciclisti fino agli juniores”.
A loro cosa consiglia?
“Di essere consapevoli che non tutti possono arrivare a fare quello che ho fatto io, ma che non devono nascondersi davanti alle responsabilità e alle corse”.
Cosa la spinse a provare il record dell’ora, nel 1984?
“Tra il ‘74 e il ’75 con me correva Ole Ritter, che era stato il primo a fare il primato a Città del Messico, qualche anno prima, e che poi era stato battuto da Merckx nel ’72. Lui era mio gregario e aveva deciso di riattaccare il record, ma non ci riuscì. Qualche anno dopo, quando Enervit mi propose quell’avventura, accettai volentieri”.
E dove lo colloca, il record dell’ora, tra i suoi tanti successi?
“Senza dubbio tra le cose più importanti, insieme al Giro d’Italia e al Mondiale”.
Fu il record che portò nuovi metodi scientifici e tecnologie nel ciclismo: che effetto le faceva?
“I tempi erano maturi, è toccato a me sperimentare per la prima volta ma sarebbe capitato a qualcun altro poco dopo. Di certo, fu un aspetto che mi diede tanti stimoli e che mi spinse a correre fino a 37 anni. Forse, se non avessi fatto il record, avrei smesso l’anno dopo”.
Tra le sue vittorie, ce n’è una che le sembra sottovalutata?
“Forse il Giro di Lombardia del ’78, che fu una vittoria doppia. Era l’ultima gara della stagione e ci arrivavo a pari punti con Hinault nella superclassifica Uci, quella che poi è diventata la Coppa del Mondo e che non era mai stata vinta da un italiano. Fu una grande soddisfazione, ricordo ancora la premiazione a Parigi, molto emozionante”.
Cancellara ha già annunciato che proverà a battere il record dell’ora: che chance gli dà?
“Ottime. Se – con tutto il rispetto – ce l’ha fatta Sosenka, a maggior ragione Fabian ci può riuscire. E sarebbe bello se lo facesse, darebbe importanza al record e riaprirebbe la competizione. Battere un grande dà motivazioni e prestigio: successe a me con Merckx, che non era uno sconosciuto...”.
Chi sono i suoi preferiti, tra i ciclisti di oggi?
“Proprio Cancellara è sicuramente uno di questi e uno in cui mi rivedo, anche se lui va più forte in salita, è più passista. Tra gli italiani, non posso che citare Nibali, che è moderno e perfetto per le corse a tappe”.