Io e Pantani, arrampicatore asociale e artista della fatica

Ciclismo
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IL RACCONTO. La lunga storia in presa diretta dell'autodistruzione di un campione amatissimo. Narrata da chi lo conosceva bene: Pier Augusto Stagi, l'amico di una vita. Che col Pirata scrisse persino un libro. Da non dimenticare, a 10 anni dalla morte

di Pier Augusto Stagi*

Non è mai facile parlare di un amico che non c’è più. Di un corridore che mi ha regalato emozioni uniche per il suo modo di andare in bicicletta, affrontare la corsa, ingaggiare duelli a testa alta e a mani basse. Non è facile perché dietro alla storia bella e dolorosa, fatta di vittorie e infortuni, ce n’è anche una tragica che ha segnato in modo indelebile la mia vita e quella di uno sport che io da sempre amo, ma che a tratti - come Marco - ho anche odiato.

Sono dieci anni che Marco non c’è più. Ero fuori a cena con mia moglie e due amici quando Angelo Costa, amico e collega da anni, mi diede la tragica notizia. "Pier, hanno trovato Marco morto in un residence di Rimini…". Mi sentii raggelare il sangue. Non ebbi la forza di far uscire la benché minima parola. La mia fronte s’imperlò di piccole gocce di sudore. Poi fui travolto dal mio lavoro. C’era da scrivere, al volo, velocemente. Sentii Cristiano Gatti, altro amico e collega di mille Giri e avventure e la mattina seguente di buonora partimmo per Rimini.

Quanti libri, quante parole sul Pirata - Dieci anni fa - su tuttoBICI, il mensile che dal maggio del 1995 dirigo - commentai con il groppo in gola la perdita di un amico, di un immenso corridore che, ferito nell’orgoglio, ha cercato con ostinata determinazione l’autodistruzione per lasciarci in eredità il peso della sua assenza. Chiesi un po’ di silenzio, cosa che dovrei richiedere esattamente anche oggi. Dieci anni fa preannunciai che si sarebbero scatenati scribi di ogni tipo e fattezza, con le loro verità, ricostruzioni e supposizioni. In questi anni sono usciti molti volumi. Ne elenco in ordine sparso solo alcuni, quelli che ho letto: Un uomo in fuga, di Manuela Ronchi e Gianfranco Josti; Gli ultimi giorni di Marco Pantani, di Philippe Brunel; Un uomo venuto dal mare… che ama le montagne di Gianfranco Camerini; Pantani un eroe tragico di Pier Bergonzi, Davide Cassani e Ivan Zazzaroni, e poi Era mio figlio di mamma Tonina con Enzo Vicennati; Con le ruote ai piedi di Romina Volpi; Appena sotto il cielo di Fabio Marmaglia; Ultimo chilometro di Andrea Rossini e Marco Pantani, una vita da Pirata di Beppe Conti. E ancora: Pantani vive di Stefano Fiori, Marco Pantani, mito e tragedia di Salima Barzanti. Undici lavori, ai quali si sono aggiunti in questi giorni In nome di Marco con mamma Tonina e Francesco Ceniti e Pantani era un Dio di Marco Pastonesi. Era prevedibile che fiorisse la letteratura su uno dei campioni più amati dello sport italiano, che ha unito le tifoserie anziché dividerle come era accaduto in passato. La storia di Pantani, sublime e tragica, si prestava e si presta al racconto: era facile prevederlo.

E' l'ora del rispetto e del silenzio - Un po’ di silenzio. Occorrerebbe soltanto un po’ di silenzio, di pace, dopo tanto tumulto, dopo tanto fragore. Lui la pace l’ha cocciutamente ricercata, dopo anni di disperato fuggire, e noi oggi abbiamo il dovere di proteggerla, in suo nome. Noi non abbiamo intenzione di speculare su questa tragedia, non abbiamo intenzione di raccontare gli ultimi giorni, le ultime ore, così come non vogliamo analizzare con pruriginoso gusto le sue parole, le sue ultime parole, scritte su nove pagine del suo documento - il passaporto -, diventato per sempre testamento. Un po’ di rispetto. Quello stesso rispetto che abbiamo cercato di portargli in quegli ultimi anni, evitando di raccontare una verità lontana dal vero, evitando di scrivere bugie e preferendo il silenzio.

La scomoda verità: game over - Abbiamo mancato a questo impegno solo in due o tre circostanze, come nel febbraio del 2004, quando Angelo Costa per noi computò righe che sono lì da rileggere. Su tuttoBICI titolammo "Marco Pantani, game over". E il sommario recitava: "Non è vero che il Pirata si allena, non è vero che sta bene, non è vero che sta solo cercando gli stimoli. E non c’è nemmeno una possibilità su dieci di rivederlo in bici: game over. Il gioco è finito, basta con le ipocrisie e le speculazioni. Portiamogli un po’ di rispetto. Sono altri, e ben più gravi, i problemi del Pantani uomo". Venti giorni dopo Marco ci lasciò.

Tutte le menzogne del suo staff - Molti sapevano come stava Marco, troppi hanno fatto finta di non saperlo, raccontando di allenamenti e progetti agonistici. Si poteva fare qualcosa, hanno fatto tutto il possibile? Si poteva fare, se solo Marco avesse ascoltato. Se solo Marco fosse stato seguito da persone perbene che volevano il suo bene. Come il collega Gatti scrisse dieci anni fa sempre su tuttoBICI, "Marco Pantani ha iniziato la sua fine a Campiglio, il 5 giugno 1999. Da semidio si è trovato improvvisamente nella polvere", e aggiunse: "Ma c’è un ma, che va precisato: non è vero che allora la giustizia ha cominciato a perseguitarlo. Cioè: in seguito l’ha davvero perseguitato, imputandogli anche di respirare. Ma l’inizio, il pronti via, il colpo dello start è dello stesso Pantani. Sissignori: Marco Pantani, e con Marco Pantani s’intende il suo entourage, per primo ha chiamato in causa i carabinieri e i giudici. Io non ho una memoria prodigiosa, ma certe cose non le scordo: allora, anziché fare come uno dei tanti ciclisti fermati per l’ematocrito, cioè una pausa di due settimane e ripartire, Pantani scatenò subito la macchina da guerra dei suoi legali. Poche ore dopo la fine del Giro, la sua squadra ci convocò tutti a Monte del Re per esibire una pletora di agguerriti avvocati con l’acquolina alla bocca, pronti a dimostrare che Marco era vittima. Di complotti, di agguati, di giochi sporchi. Tant’è vero che fu chiesta la perizia sul sangue, insinuando il dubbio che quello dell’esame non fosse suo. A quel punto, la giustizia irruppe sulla scena con i modi soffusi e riservati che ben conosciamo".

Marco fece di tutto per distruggersi
- In questi anni e chissà per quanto tempo ancora, si discuterà di una morte piena di sospetti, di un esame - quello di Madonna di Campiglio - che non convince; del fatto che il Pirata, nella sua parentesi finale è stato lasciato solo, dimenticando che Marco ha fatto di tutto per allontanarsi dagli amici e consegnarsi di fatto ai pusher. Ricordiamolo ciclista. Conviene a tutti. Piace molto anche a me. Ma sia ben chiara una cosa: Pantani non è vittima del doping. Non ci sarà medico in grado di convincermi. Pantani è vittima del suo carattere, del suo smisurato orgoglio, dei suoi tormenti che l’hanno assillato e condotto a una vera e risoluta autodistruzione, percorrendo la strada buia e orrenda della droga che l'ha condotto prima alla tossicodipendenza, poi alla morte. Chiedeva giustizia, vendetta, ci ha lasciato in eredità il peso del senso di colpa.

Quando lo conobbi da dilettante talentuoso - Ho ancora negli occhi e nel cuore quando lo conobbi dilettante alla Corsa del Sole organizzata dall’amico Mimmo Bulzomi. Marco, già allora, era di un altro pianeta. Quando c’era da scalare una montagna aveva un altro passo. In Calabria, da Mimmo Bulzomi ci tornammo assieme nel marzo del 1996 per la presentazione della 12° edizione della Corsa del Sole: lui con le stampelle, io con l’emozione di averlo al mio fianco. Mi sono sempre emozionato vicino a lui. Lui che era perfino più timido del sottoscritto, e per vincere questa sua timidezza diventava in certi momenti anche sfacciato. Facemmo un viaggio da Linate a Lamezia Terme ridendo come due cretini. Giocavamo a “indovina a chi assomiglia”: guardavamo la gente salire sull’aereo e Marco non si tratteneva: trovava somiglianze a tutti.

Io che con Marco scrissi anche un libro - Con Marco scrissi anche un libro, per la Sperling & Kupfer, I campioni insegnano, Marco Pantani, uscito nel 1997. Restai a Cesenatico una settimana, per raccogliere i suoi ricordi e le sue ambizioni di corridore. Era fermo ai box per l’incidente occorsogli alla Milano-Torino e il fenomeno Pantani era ancora di là da venire. Mangiai pesce e piadine per una settimana intera, ma la sensazione che porto con me di quei giorni è la sua ironia, la sua sensibilità, il suo modo di prendere e prendersi in giro: Marco aveva un’intelligenza viva. Vidi nascere il mito del Pirata. È sul finire del ’95 che Marco si rasa la “crapa” e da buon harleysta poi s’inventa la bandana, subito c’è chi lo ribattezza “il Pirata”. In quegli anni mi ero da poco separato, non era un buon momento della mia vita e vivevo da solo in un monolocale a Milano, Marco di tanto in tanto mi chiamava, anche a notte fonda, per farmi ridere, per farmi compagnia. Mi prendeva anche in giro: "Ma cosa fai a casa tutto solo, vai un po’ in vita, vieni qui da me che ti porto a divertire…". Era generoso Marco, con un cuore grande così.

Quel "maledetto" orgoglio - Ma era anche maledettamente orgoglioso. Basta rileggere il giudizio scolastico elaborato dalla sua maestra delle elementari, la signora Neri, e riportato nel libro di Manuela Ronchi e Gian Franco Josti Un uomo in fuga. "Situazione di partenza incerta, nonostante l’intelligenza vivace, alla quale si contrappone un temperamento nervoso e irrequieto. Troppo vivace, molto aggressivo, irrimediabilmente negligente e disordinato. Nella vita coi compagni vuole sempre essere all’avanguardia e non ammette la sconfitta. A casa non fa quasi niente, ma a scuola si interessa a tutto ed è pronto alla conversazione su qualsiasi argomento. Scarso in lingua per la scrittura e l’ortografia troppo trascurati; buone le idee. In aritmetica si arrangia. Però migliora. Pronto nella drammatizzazione".

Quella volta che volle conoscere Jovanotti - Lo ricordo anche nel dicembre del ’98, dopo la fantastica accoppiata (Giro e Tour). Marco mi chiese se poteva conoscere Jovanotti. Gli dissi: "Marco, ma Jovanotti ha come massofisioterapista Fabrizio Borra (oggi ha anche Alonso e Fiorello, tra gli altri, ndr): chiedilo a lui". E Marco mi fece capire che preferiva che mi adoperassi io, perché non amava chiedere favori, soprattutto a chi lavorava già per lui… Ne parlai con Angelo Costa e ci attivammo con Borra. Il servizio lo facemmo: a Forlì, in un giorno di pioggia terribile. Lorenzo venne con la sua bicicletta e la maglia Sole & Luna, Marco era felice come un bimbo e anche Fabrizio fu costretto a fare il tragitto in bicicletta con questi due “amici di bici” (questo fu il titolo scelto per la copertina di tuttoBICi di gennaio 1999).

E poi arrivò una manager, Manuela... - Fu in quell’occasione che conobbi per la prima volta Manuela Ronchi, la manager del Pirata. Si palesò a me con fare diretto e fermo: "Questa è la prima e ultima volta che tu organizzi una cosa chiamando direttamente Marco, da oggi ci sono io e si fa quello che dico io". Le risposi sorpreso e un po’ in imbarazzo che Marco lo conoscevo da tanti anni e che tra noi c’era un buon rapporto… niente, la Ronchi, entrata nella vita di Marco nell’agosto del’98 grazie all’interessamento di Alessia Tomba, sorella del fuoriclasse bolognese e amica di Manuela, portò di fatto via Marco a chi lo conosceva bene da tempo. Da quel momento in poi nessun giornalista – quei dieci/quindici che avevano un rapporto abituale con lui – poté più parlare direttamente con Marco. Per quanto mi riguarda chiamavo Brignoli, Roberto Conti, Fontanelli e loro me lo passavano, ma chiamarlo direttamente era pressoché impossibile.

L'ultima volta che lo sentii di persona - Ricordo che l’ultima volta che lo sentii fu grazie ad Alcide Cerato, ex corridore professionista e dirigente di ciclismo di prima grandezza, che era a Saturnia in vacanza e di tanto in tanto incontrava Marco e in una di queste occasioni mi chiamò per passarmelo. Marco era molto giù di corda, si percepiva chiaramente il suo male di vivere… "I giudici mi vogliono morto e i tuoi amici giornalisti non sono meglio…", mi disse. Io gli risposi che a me non piaceva neanche un po’ Manuela Ronchi, che per anni ha raccontato un’altra verità, e si è sostituita a professionisti del ramo con il piglio di una psicologa d’accatto. Per Marco litigai come non mai, sia con la Ronchi sia con Fabrizio Borra, che all’epoca la difendeva. Per me era una che pensava solo a vendere il Marco Pantani per riportarlo in bicicletta a prescindere, ad ogni costo, senza pensare al Marco uomo.

La mitica cavalcata sul Galibier...
- Nel cuore mi è rimasto quel 27 luglio 1998, quando Marco si veste di giallo a Les Deux Alpes dopo la mitica cavalcata sul Galibier. Ricordo ancora oggi l’emozione di quell’impresa. Io sotto al podio e sotto alla pioggia, appena dietro a una moltitudine di fotografi e telecamere e in mezzo agli sportivi ebbri di gioia. Io lì, a guardarmi la scena di Marco in maglia gialla. E Gatti che mi cercava disperatamente in sala stampa perché c’era una montagna di cose da scrivere per il giorno dopo. Un sogno, che è racchiuso in una fotografia che è in bella mostra sulla mensola all’ingresso di casa mia. Io con Angelo Costa, Cristiano Gatti, Pietro Cabras, Alessandra Giardini e Giovanni Cerruti attorno a Marco che fa con indice e medio il segno di vittoria in maglia gialla sui Campi Elisi. Tutti con la camicia gialla, le aveva comprate per l’occasione Giovanni quella mattina del 2 agosto.

Lo voglio ricordare così - Ed è così che lo voglio ricordare, Marco. Corridore e ragazzo impagabile. Generoso e ritardatario come pochi. Acuto e sensibile come nessuno. Pantani corridore: un vero artista. E lasciamo perdere i soliti discorsi, le solite repliche di chi sostiene che le sue vittorie erano esclusivo risultato del doping. Tutto si può dire di Marco, ma nessuno può negare il suo talento. Togliete il doping. Mettete tutti sullo stesso piano, con gli stessi ottani nelle vene: resta Pantani. Per sempre.

*direttore di TuttoBICI