Formula 1. Sky Spy: Red Bull mette le ali…della discordia

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L’addio alla squadra da parte di Daniel Ricciardo è solo l’ultimo di una lunga serie di episodi che portano a galla una gestione del team molto meno "smart" di quello che appare

IL CALENDARIO - LA CLASSIFICA

Quando nel 2005 la Red Bull decise di entrare in Formula 1 con un proprio team, introdusse nel Circus un nuovo concetto di marketing e pubbliche relazioni. Un hospitality aperta a tutti, una disponibilità notevole nei confronti dei media ed una serie di iniziative mirate a promuovere la squadra sia dentro che fuori le mura di cinta del paddock. Nel corso degli anni questo approccio è in parte cambiato, soprattutto dopo gli otto titoli Mondiali (tra piloti e costruttori) arrivati tra il 2010 ed il 2013, ma la squadra ha conservato una reputazione di team-aperto, trasparente, senza troppa politica e con grandi capacità manageriali.

Ma dietro la facciata c’è una realtà che cozza un po' con l’immagine ‘smart’, ed anche con la capacità di saper gestire la squadra al meglio. L’ultimo episodio è la conclusione del rapporto con Daniel Ricciardo che (come da stessa ammissione di Horner) non avrebbe lasciato il team per motivi economici. L’australiano non è un tipo che scansa i confronti, e per quanto Horner abbia insinuato che possa aver deciso di passare alla Renault per “paura della progressiva crescita di Max Verstappen”, è più credibile ipotizzare che a Ricciardo sia apparso in modo sempre più chiaro da che lato pende la dirigenza della squadra.

Il consulente speciale Helmut Marko non nasconde nel modo migliore le sue simpatie, ed in più occasioni è stata evidente la propensione a tutelare la sua ultima ‘scoperta’ Verstappen. Uno degli episodi più lampanti è stato il dopogara del Gran Premio di Monte Carlo, vinto da Ricciardo, in cui Marko è apparso tutt’altro che contento per l’esito della corsa. In seguito è arrivato il fattaccio di Baku, un incidente fratricida in cui Verstappen è andato oltre il consentito nel difendere la posizione dagli attacchi del compagno di squadra. Dopo il Gran Premio di Azerbaijan la posizione del team è stata rigida in egual modo con entrambi i piloti, attribuendo ad entrambi la responsabilità dell’accaduto.

E non è stata una situazione inedita nel box della Red Bull. Nel Gran Premio di Malesia del 2013 Vettel disobbedì in modo plateale agli ordini di squadra scippando la vittoria al compagno di squadra Mark Webber, un episodio arrivato al termine di quattro anni vissuti tra molte tensioni. L’australiano attese invano una ferma presa di posizione da parte del team, che non arrivo, e decise così che a fine stagione avrebbe lasciato la squadra. Webber ha poi spiegato nei dettagli quanto accaduto in quel periodo nel box della Red Bull nell’autobiografia pubblicata nel 2015, descrivendo una realtà molto diversa da quella che viene percepita dall’esterno.

Anche la gestione dei rapporti con la Renault è sintomatica di un management poco incline a rispettare chi non supporta gli interessi della squadra. Negli ultimi cinque anni la Red Bull si è costantemente lamentata della competitività del motore francese, a volte anche in modo sfacciato e poco rispettoso. Parliamo di una partnership che ha comunque permesso alla squadra di vincere tutti i trofei esposti nella sede di Milton Keynes, non poca roba. Alla Renault è stato pubblicamente rimproverato di non aver saputo garantire una power unit all’altezza di Mercedes e Ferrari, ma allo stesso tempo il management della squadra ha saputo anche farsi terra bruciata sul fronte delle relazioni con i due motoristi di riferimento.

Sono arrivate anche critiche feroci nei confronti della Pirelli (nel 2013) per la decisione di portare in pista una generazione di pneumatici con la struttura in acciaio che poco si abbinavano alla monoposto di Vettel e Webber. Parole pesanti, quelle che furono dette all’indirizzo della casa milanese, la quale decise a stagione in corso di ritornare alla soluzione tecnica dell’anno precedente, reintroducendo la struttura in kevlar. Alonso e la Ferrari smisero di vincere, la Red Bull (con Vettel) fece sue tutte le ultime nove gare in calendario, e tutto ritornò nei ranghi. Per poco tempo, però, perché già ad inizio 2014 arrivò la crociata contro le power unit ibride, con tanto di minaccia di ritiro dalla Formula 1. Curiosamente, secondo la Red Bull, la superiorità di power unit aveva reso la Formula 1 noiosa e scontata, mentre quella aerodinamica della stagione precedente (come detto, Vettel vinse le ultime gare del 2013) era uno show accattivante.

La lista è lunga, e parliamo solo di quanto è emerso più o meno pubblicamente. Ovviamente tutte le squadre operano solo nel proprio interesse, nessuno escluso, ma in passato dalla Red Bull sono arrivate frecciate nei confronti degli avversari rei di non interpretare lo sport secondo i suoi nobili valori. Dopo il Gran Premio di Germania del 2010, la gara in cui il box Ferrari chiese a Felipe Massa di dare strada a Fernando Alonso, il boss Dieter Mateschitz punto il dito contro la Scuderia: “Noi non daremo ordini ai nostri piloti, nella peggiore delle ipotesi non diventiamo campioni. Lo faremo magari l'anno prossimo, ma la nostra filosofia rimane la stessa perché è uno sport e deve rimanere lo sport. Non manipoliamo cose come in Ferrari. Il mondo intero li ha condannati dopo quello che hanno fatto a Hockenheim. Per noi un secondo posto in circostanze corrette sarebbe comunque migliore di una vittoria arrivata grazie ad ordini dai box”. Belle parole, peccato che poi la storia le abbia smentite. Ci sta anche questo, perché il tempo è un giudice durissimo, ma ci sta meno pensare che il barone di Coubertin sia di casa a Milton Keynes, soprattutto quando i risultati non sono quelli sperati.