Las Vegas, party e motori: la nuova frontiera USA della F1

NON c’era una volta in America. Cioè, chiedendo subito scusa al compianto Sergio Leone e al suo capolavoro cinematografico, qui e ora si tenterà di spiegare come mai, per anni o meglio ancora per decenni!, negli States la Formula Uno proprio non ci fosse. A scanso di equivoci: i Gran Premi a stelle e strisce venivano disputati, talvolta persino due a stagione, USA East e USA West, però erano spettacoli riservati a pochi intimi. In breve: non fregava una mazza a nessuno. Potevi andare a Phoenix o a Indianapolis, a Long Beach piuttosto che a Watkins Glen ma di una cosa eri e rimanevi convinto. Questa: il pubblico statunitense non riusciva a innamorarsi della F1. Ostentava addirittura una gelida indifferenza. Refrattario persino al mito di Mario Andretti, iridato con la Lotus nel 1978. Di Piedone, gli americani ricordavano solo la vittoria alla 500 Miglia di Indianapolis. Per quanto nel resto del pianeta fosse considerato un genio dello sport business, beh, tra New York e Los Angeles il mitico Bernie Ecclestone veniva considerato un modesto impresario di un circo scadente. Circo a quattro ruote, d’accordo: ma vuoi mettere con il fascino rumoroso del catino di Indy? Emblema di questo disastro, emotivo e comunicazionale fu proprio Las Vegas, dove la scintillante F1 del dopo Ecclestone si appresta a celebrare un colossale mega party, in un tripudio di luci e colori. Insomma, correva l’anno 1982 e nella capitale del gioco d’azzardo venne allestito l’ultimo Gran Premio della stagione. Evento memorabile solo per l’identità del vincitore: il carissimo Michele Alboreto, al primo successo in carriera al volante di una Tyrrell. Grandissimo Michele, ma i miliardari del Nevada lo fecero correre in mezzo al parcheggio di un hotel, in un deserto che rovinosamente contrastava con l’immagine gaudente della città. Roba da tagliarsi le vene in diretta tv, giusto per richiamare un minimo di attenzione. Oggi, 2025, la F1 sfreccia felice sulla Strip di Vegas. È padrona del territorio, essere lì è uno status symbol. Lo stesso vale per gli altri due Gran Premi che vengono allestiti nel Paese di Lincoln e di Kennedy. Pure Miami e Austin hanno festeggiato con entusiasmo le manovre di Norris e di Piastri, di Verstappen e di Hamilton, di Leclerc e di Russell. Come diavolo è potuto accadere? Cosa ha modificato la percezione USA nei confronti della vecchia, cara, ma oltre oceano a lungo negletta Formula Uno? Allora, magari non soltanto in America la F1 era diventata uno sport per vecchi, o quasi. Poi un bel giorno Netflix ha lanciato una serie, Drive to survive, interamente ambientata tra box e dintorni. Il successo è stato epocale soprattutto tra i giovanisssimi, siamo già alla settima edizione. Un linguaggio nuovo nel racconto ha presentato, in primis ai concittadini di Donald Trump, una idea meno… rugginosa dei Gran Premi. Non a caso, sommessamente credo io, nel 2024, in piena campagna elettorale per la riconquista della Casa Bianca, The Donald ha trovato il tempo per recarsi ai box di Miami. Non lo avrebbe fatto, se ancora la F1 fosse stata estranea al sentimento collettivo dei suoi connazionali. Ancora. Ecclestone, figlio di una cultura antica, disprezzava i social. Li osteggiava, li combatteva, li avvertiva come pericolosi parassiti. I suoi eredi, quelli di Liberty Media, oggi guidati dall’italianissimo Stefano Domenicali, hanno rovesciato lo schema. Se vuoi essere trendy, devi varcare le colonne d’Ercole dei new media. E oplà, l’America giovane adesso adora la F1. Infine, il carico da undici. La combinazione con lo strapotere di Hollywood sul terreno della cultura popolare. Il film sulla Formula Uno interpretato da Brad Pitt, il divo più divo che c’è, ha dominato ovunque la classifica degli incassi. A dimostrazione che, come già era accaduto per la pellicola di Ron Howard dedicata alla epopea di Niki Lauda, eroe di fine Novecento, c’è un pubblico nuovo che ama le storie ambientate negli autodromi. Magari aiuta il realismo delle scene più spettacolari , ma dietro e dentro c’è qualcosa di più. Durerà, questo amore sfrenato fra la F1 e l’America? Ah, saperlo. Certo non sorprende che un brand prestigioso come Cadillac, cantato persino dal leggendario Bruce Springsteen, abbia fatto carte false pur di entrare in griglia di partenza. Dal 2026 avremo una Cadillac allo start dei Gran Premi, anzi due, con i veterani Pérez e Bottas nell’abitacolo. Manca ancora un driver Born in the USA. Ma potete scommettere che arriverà presto.

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Leo Turrini