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NBA: Labissiere, dal terremoto di Haiti alla NBA

NBA

Stefano Salerno

Labissiere

Skal Labissiere, il rookie scelto alla n°28 dai Sacramento Kings, è stato uno dei protagonisti della notte. Un giocatore dal grande potenziale e con una storia incredibile alle spalle

Nella notte i Sacramento Kings hanno vinto in volata il match contro Phoenix per 107-101, trascinati letteralmente nel finale da Skal Labissiere, autore di tutti gli ultimi 16 punti della sua squadra, ciliegina sulla torta di una prestazione da 32 punti con 11/15 al tiro e 11 rimbalzi. Il giocatore originario di Haiti è stato scelto nel draft dello scorso giugno alla n°28 proprio dai Suns, ma per conto della squadra californiana che aveva ceduto i diritti della sua ottava scelta in cambio di Bogdan Bogdanovic, incassando oltre a lui anche le pick numero 13 e 28. Labissiere  è uno dei lunghi selezionati da Vlade Divac assieme a Georgios Papagiannis; scelte che fecero storcere non poco il naso a DeMarcus Cousins che twittò la sua contrarietà (prima di smentire dichiarando che quel cinguettio non era legato in alcun modo al draft). DMC però adesso non c’è più e coach Dave Joerger sembra avere finalmente spazio e minuti da poter concedere al giovane talento che nonostante i soli 21 anni di età, ha alle sue spalle una storia incredibile. Una vita rivoluzionata dal terremoto che il 12 gennaio 2010 rase al suolo Haiti.

Un calciatore troppo alto - “Giocavo sempre a calcio, anche perché è lo sport più diffuso e famoso sull’isola. Ma quando a 12 anni mi resi conto di essere alto quanto Zlatan Ibrahimovic, uno dei calciatori più alti che conoscessi all’epoca, mi sono reso conto di dover cambiare sport”. Così si racconta lo stesso Labissiere nelle decine di articoli scritti negli anni scorsi su di lui (qui, qui e qui per chi volesse approfondire). “L’unico che restava da raggiungere era Peter Crouch”, scherza ricordando i tempi in cui le sfida con la palla tra i piedi erano l’unico svago presente su un’isola in cui l’energia elettrica era un bene prezioso da razionare. Un privilegio che soltanto in alcuni momenti della giornata veniva concesso ai quasi tre milioni di abitanti dell’hinterland di Port-au-Prince, la capitale dello stato. “Giocavamo a calcio con tutti i ragazzi del vicinato per l’intero pomeriggio e appena vedevamo ritornava la corrente in casa, correvamo di sopra a fare una doccia calda, guardare la TV e magari accendere qualche videogioco”. Grazie a quelli infatti, il basket era già entrato nella sua vita. Sfide interminabili assieme al fratello in cui Skal non aveva mai dubbi. “Io prendo Kobe”, era la frase che spesso doveva sentirsi ripetere nelle orecchie Elliott davanti al Nintendo GameCube. Quando poi a 13 anni anche Peter Crouch era ormai diventato uno da poter guardare dall’alto verso il basso, mamma e papà capirono di dover fare le cose sul serio per provare a garantire un futuro nel mondo della palla a spicchi al loro piccolo.

Memphis, partenza rimandata – Il tramite sull’isola con il basket a stelle e strisce non poteva che essere Pierry Valmera, ex giocatore che aveva frequentato il college negli Stati Uniti molti anni prima. Haiti non era di certo il posto migliore per provare a diventare un professionista e l’unico campetto a disposizione (quello della scuola), era spesso intasato. “Eravamo quasi in 2.000 a scuola e in molti volevano giocare a basket. Chi vinceva teneva il campo, mentre ai ragazzi che perdevano toccava aspettare almeno cinque o sei partite prima di tornare a giocare. Per quello la competizione in quelle sfide era molto accesa”. La pratica quotidiana unita alle partite dei Lakers che passavano in TV erano l’unica vera fonte d’ispirazione per un giovane le cui ambizioni non potevano più essere contenute dai 27.000 chilometri quadrati dell’isola nell’Atlantico. La telefonata arriva a inizi 2010, quando Skal non ancora 14enne supera già i due metri e il suo nome è ormai sottolineato sul taccuino di Gerald Hamilton, pronto a inserirlo all’interno di un programma educativo in cui il giovane Labissiere può conciliare studio e basket trasferendosi in Tennessee. Il massimo, se non fosse a migliaia di chilometri da casa, in un Paese di cui al tempo non conosceva neanche la lingua. “Avevo fatto dei corsi di inglese ad Haiti, ma purtroppo non sono serviti a molto”, racconterà anni dopo il suo arrivo negli States. Alla fine quindi, la decisione la prende papà Lesly: meglio declinare l’invito.

Sotto le macerie –A sconvolgere la vita della famiglia Labissiere in quel gennaio del 2010 non è quindi la partenza del figlio più promettente, ma il terremoto che il 12 gennaio devasta l’isola. “Ricordo tutto con estrema chiarezza. Eravamo in macchina con mio padre, stavamo tornando a casa e lui vide che il canestro artigianale che avevamo montato sul retro che aveva il ferro incrinato. Non so per quale motivo, ma decise di non entrare subito dentro, ma di restare fuori a metterlo a posto. È stata la nostra salvezza”. Skal infatti, una volta entrato in casa e sistemata la roba, si ritrova travolto dall’onda d’urto di un sisma sin da subito chiaramente più forte di quelli che ciclicamente distruggono qualche edificio già pericolante. “Sono scappato verso mia madre assieme a mio fratello e in pochi istanti ci siamo ritrovati in mezzo alle macerie. Travolti. Il primo ricordo che ho dopo il crollo è la voce di mio fratello che urla a causa del piede dolorante; parte della scrivania sotto cui ci eravamo protetti gli era franata addosso. Io ero seduto lì sotto e alle mie spalle avevo il muro che in parte era finito sul suo piede. Non potevo muovermi in alcun modo. Appena vidi però il volto di mia madre ricoperto di sangue a causa dei calcinacci che l’avevano ferita, sono andato nel panico. Ho iniziato a urlare ‘aiuto’, senza rendermi conto che lì fuori c’era la voce di mio padre che stava cercando di aiutarci”.

Occasione da non perdere – “Pensai di tutto nelle tre ore che abbiamo trascorso lì sotto. Sono un’eternità in cui passi dalle urla, alle preghiere, al silenzio. Mia madre abbracciava mio fratello e lo scuoteva per assicurarsi che non perdesse conoscenza, che fosse ancora vivo. Per fortuna poi sentimmo una voce da fuori. ‘Ema’, urlava. Era mio padre che chiamava mia madre. Appena siamo stati liberati da quell’inferno, mi sono subito rivolto a lui dicendogli: ‘Promettimi che faremo di tutto per raggiungere l’NBA’. È stata la molla che ha cambiato la mia vita”. Skal però, soltanto una volta emerso dalle macerie si rese conto che le sue gambe erano rimaste schiacciate senza che il sangue potesse circolare per tre ore. “Per alcuni giorni ho temuto di non poter più giocare”. Un mese dopo invece, lasciati alle spalle i problemi agli arti inferiori fortunatamente risolti, era finalmente arrivato il momento di accettare quella proposta. Dopo sette mesi, risolti i problemi dovuti all’inglese zoppicante che non gli permetteva di superare i test d’ingresso, arriva finalmente un’opportunità da Memphis. “Ho dormito soltanto una notte in strada, poi dal secondo giorno dopo il terremoto ci siamo trasferiti nella scuola dove lavorava mia madre, uno dei pochi edifici rimasti in piedi in città. Da quel momento, ho cercato in tutti i modi di superare le difficoltà burocratiche per riuscire a partire e non perdere più tempo. Adesso che sapevo che tutto può cambiare da un momento all’altro, quella lunga attesa era snervante. Alla fine, sette mesi dopo riuscii a partire. Ho lasciato la mia famiglia e Port-au-Prince per andare negli Stati Uniti. I miei cari erano ancora accampati nella scuola di mia madre, mentre io stavo andando a Memphis per giocare a basket”. 

“Io ti ho già allenato” –La crescita tecnica e di conoscenza del gioco di Labissiere è impressionante fin dai primi mesi americani della sua vita, un giocatore acerbo non abituato a vivere in un contesto del genere, ma pronto ad assorbire i migliaia di insegnamenti di cui poteva disporre. “Non immaginavo potessero esistere delle realtà in cui la pallacanestro è una parte così importante della vita delle persone. La passione della gente è stata di gran lunga la cosa che mi ha permesso di sentirmi bene”. Il tutto si traduce poi in ottime prestazioni anche sul parquet, dove il centro che supera ormai i 210 centimetri attira anche le attenzioni di John Calipari, storico allenatore di Kentucky. “Avevo visto pochi giorni prima uno speciale proprio su Calipari e sulla sua università e non potevo credere che lui venisse a vedere una delle mie gare. Quella sera le cose andarono bene, chiusi il match con 17 punti e 11 rimbalzi e il coach a fine partita si avvicinò per parlarmi. ‘Io ti ho già allenato in passato’, mi disse, lasciandomi spiazzato. ‘L’ho fatto quando ho avuto la fortuna di avere in squadra Marcus Camby e Anthony Davis. E tu puoi diventare un giocatore di quel livello’. Non potevo credere a quello che mi stava dicendo. Fui il primo giocatore della classe del 2015 a essere reclutato”.

Il futuro dalla sua parte – Un solo anno di college e poi subito il grande salto in NBA, quel pensiero fisso che da oltre sei anni ronzava nella sua testa più del terremoto. “Per tanti motivi, in quelle tre ore, è stata la cosa che più spesso mi passava per la mente. Probabilmente perché era il mio sogno e pensavo che non sarei mai riuscito a raggiungerlo. Pensavo che sarei morto lì sotto”. Dopo i primi mesi ai Kings passati all’ombra di Cousins (e lontano dal parquet), sembra finalmente essere arrivata la sua occasione. Nelle ultime 11 partite ben 17 minuti di media con 10.5 punti a gara e 6 rimbalzi abbondanti, condite adesso con tanto di primo trentello NBA, prima doppia doppia e prima tripla a bersaglio, simbolo di come nella serata contro i Suns sia finalmente andato tutto per il verso giusto. “Da piccolo ero costretto a preoccuparmi della corrente elettrica e del fatto se fosse o meno disponibile in casa. Adesso, dopo essere andato così vicino dal perdere tutto – compresa la mia stessa vita -, ho un sacco di buoni motivi per guardare al futuro, nella vita come sul campo da basket. E non voglio più dare nulla per scontato”.