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NBA, perché Kyrie Irving vuole lasciare LeBron James e i Cavs?

NBA

Dario Vismara

Kyrie Irving e LeBron James alla cerimonia degli anelli a inizio stagione 2016-17 (Foto Getty)
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La notizia della richiesta di scambio di Kyrie Irving ha sconvolto la NBA. Ma quali sono i motivi dietro alla decisione del playmaker dei Cavs? E qual è il suo rapporto con LeBron James? Proviamo a rispondere

A una prima occhiata superficiale, la richiesta di scambio di Kyrie Irving può apparire come un fulmine a ciel sereno. E per quanto sia certamente una notizia clamorosa, scavando un po’ nel passato più o meno recente si possono intravedere dei segnali che Irving, a Cleveland, non è mai stato realmente felice. L’ultimo indizio è arrivato appena qualche giorno fa, quando ha definito la situazione dei Cavs “peculiar”, una parola destinata a diventare un tormentone nei prossimi mesi (e prontamente già ripresa da Kevin Love con il suo tweet ironico). Ma per capire le motivazioni più profonde di questa scelta bisogna tornare ai primi tre anni della carriera di Irving, quelli che vanno dallo sbarco a Cleveland come prima scelta assoluta nel Draft 2011 fino al momento di svolta arrivato nell’estate del 2014. Due momenti marchiati a fuoco da una presenza ingombrante, quella di LeBron James — prima come “erede” del regno lasciato dal Re appena un anno prima, e poi con il ritorno nel 2014 quando Irving aveva appena firmato un rinnovo quinquennale da 90 milioni di dollari con cui sarebbe dovuto diventare ufficialmente la faccia della franchigia. Per certi versi, per tutta la sua carriera Kyrie Irving è stato — direttamente o indirettamente — nell’ombra di LeBron James: non lo sapremo mai per certo, ma forse è questo il motivo alla base della sua decisione di andarsene da Cleveland.

Little Brother & Big Brother

Come scritto da Michael Lee di The Vertical, la prima cosa da capire è che quello tra James e Irving è stato “un matrimonio combinato”. Più precisamente, un matrimonio combinato da James e che Irving ha dovuto più che altro subire, perché è stato LeBron a sceglierlo come compagno (preferendolo a un Dwyane Wade sul viale del declino) e come “fratello minore”, un ruolo che Irving ha accettato con molta riluttanza. Nelle prime fasi del loro rapporto, il numero 2 dei Cavs ha cercato di resistere a James e alla sua voglia di fargli da “fratellone” insegnandogli come si vince, cercando di fare le cose a modo suo senza modificare più di tanto il suo gioco. Una cosa che inizialmente faceva impazzire James, il quale come è noto lo “appese al muro” (figurativamente e mediaticamente) dopo una partita da 3/17 a Portland all’inizio della loro prima stagione insieme, dicendo chiaramente che era inaccettabile. Irving risposte nella partita dopo segnando 34 punti con 0 assist, in aperta ribellione contro il volere di James, ma con il tempo si rese conto anche lui che resistere sarebbe stato inutile e che cercare il modo di funzionare in campo e fuori con LeBron avrebbe portato a risultati migliori — culminati ovviamente nel titolo del 2016 in cui il Re cedette un possesso-chiave nel finale di gara per permettere a Irving di segnare il famoso tiro decisivo di gara-7. Doveva essere un’investitura, così come quel braccio attorno al collo di Kyrie alla fine di gara-5 delle ultime finali dicendogli (a favore di telecamera) che “l’anno prossimo torneremo qui”. Chissà se Kyrie Irving, dentro di lui, pensava già a quello che è successo ieri, visto che già dopo il titolo del 2016 — secondo quanto riportato da Brian Windhorst di ESPN — aveva considerato l’idea di richiedere uno scambio.

Mamba Mentality e la gestione dell’ego

Per capire a pieno Irving bisogna tenere in considerazione la sua idolatria per Kobe Bryant. Il suo rapporto con la leggenda dei Lakers risale al suo primo anno in NBA, quando al training camp di Team USA in preparazione alle Olimpiadi di Londra sfidò Kobe in un uno-contro-uno con una rara faccia tosta. Quell’episodio però finì per creare un rapporto tra di loro, diventato sempre più stretto negli anni fino al titolo del 2016, quando Kobe fu la prima persona chiamata su Facetime da Irving al rientro negli spogliatoi e lo stesso Kyrie a sottolineare davanti ai microfoni che prendendosi il tiro decisiva “l’unica cosa a cui pensavo era: Mamba Mentality”. Per uno con questo tipo di mentalità, pensare di rimanere a lungo il numero 2 è impensabile: è quello che è successo allo stesso Bryant quando chiese l’allontanamento da Los Angeles tanto di Shaquille O’Neal quanto di Phil Jackson nel 2004, facendo diventare finalmente i Lakers la sua squadra. Allo stesso modo, Irving oggi vuole trovare la sua squadra e uscire dall’ombra di James: avendo già vinto un titolo NBA, ora Irving vuole dimostrare di poter essere un giocatore in grado di vincere l’MVP e affermarsi come la miglior point guard della NBA, titolo che nonostante tutti i suoi riconoscimenti in carriera — MVP dell’All-Star Game, MVP ai Mondiali, oro olimpico nel 2016, oltre ovviamente a quel tiro nel 2016 — ancora non gli viene riconosciuto, rimanendo un gradino sotto ai vari Steph Curry, Russell Westbrook e Chris Paul. Irving nel tempo ha imparato a tenere a bada il suo ego, accontentandosi di un ruolo di supporto a James per avere la possibilità di competere per il titolo ogni anno e sviluppando con lui anche un rapporto quasi di amicizia – e proprio per questo James si è detto “preso alla sprovvista e deluso” dalla decisione di Irving. Ma Kyrie deve stare attento a quello che realmente desidera, perché il mondo senza LeBron può essere più brutto di quello che si immagina.

Chi è Irving senza LeBron?

La presenza di un giocatore universale come James ha permesso in questi anni a Irving di concentrarsi solamente sulle cose migliori che sa fare, vale a dire principalmente segnare. Non gli era richiesto di difendere perché la linea secondaria dei Cavs sarebbe arrivata in suo aiuto (almeno ai playoff, mentre in regular season Cleveland ha sempre tenuto le marce basse); non gli era richiesto di coinvolgere i compagni e metterli in ritmo perché i compiti di playmaking erano affidati più che altro a LeBron, e tutti i compagni si aspettavano che Irving cercasse di segnare ogni volta che il pallone finiva nelle sue mani. Per certi versi, l’intero sistema offensivo dei Cleveland Cavaliers – che a tratti assomigliava a un codice binario in cui gli isolamenti di James e di Irving erano le uniche opzioni possibili, con poca considerazione della metà campo difensiva in cui Kyrie è spesso stato un minus – era costruito attorno alle qualità e ai difetti di Irving, che non è mai stato un giocatore particolarmente bravo a muovere il pallone e giocare con i compagni, mentre è al top del mondo quando può giocare in uno-contro-uno. Bisogna però anche considerare che negli anni i Cavs hanno sempre avuto enormi problemi ogni volta che James non è stato disponibile, cosa che dava enormemente fastidio a Irving: il record di Cleveland senza LeBron è di 3 vittorie e 13 sconfitte negli ultimi tre anni, e nella stagione appena conclusa i Cavs sono stati battuti di 90 punti nei 574 minuti in cui Kyrie ha giocato senza il suo numero 23 (numero confermato nei playoff: -30 in 61 minuti, 37-13 nelle Finals). Viene quindi da chiedersi quale sia il vero valore di Irving senza la presenza ingombrante ma per certi versi rassicurante di LeBron James, e come possa inserirsi nelle quattro squadre sulla sua lista dei desideri: i San Antonio Spurs (dove sarebbe comunque il numero 2 dietro Kawhi Leonard), i New York Knicks (dove dovrebbe dividere i riflettori con Kristaps Porzingis), i Minnesota Timberwolves (dove troverebbe l’amico Jimmy Butler ma anche un giovane “Monstar” come Karl-Anthony Towns) e i Miami Heat (dove sarebbe il miglior giocatore… ma finirebbe per ripercorrere le orme di LeBron James, ancora una volta).

Il valore sul mercato di Kyrie e le possibili destinazioni

Dal punto di vista dei Cavs, inevitabilmente la notizia uscita su ESPN è un grosso problema, perché li pone in una situazione di svantaggio in ogni contrattazione. A loro vantaggio c’è però che Irving è sotto contratto almeno per altri due anni (più l’opzione a sua discrezione per il terzo) a una cifra complessiva di 60 milioni – un prezzo basso per i tempi che corrono e per il valore assoluto del giocatore, che peraltro ha solamente 25 anni ed è nel prime della sua carriera. Le quattro opzioni espresse da Kyrie però non hanno particolarmente senso per i Cavs: gli Spurs potrebbero offrire al massimo un pacchetto attorno a LaMarcus Aldridge (ma che senso ha con Kevin Love?); i Knicks hanno già fatto sapere che Porzingis non è sul mercato (e Carmelo Anthony non vale Irving); i Timberwolves potrebbero arrivare a offrire Andrew Wiggins (scambiato nel 2014 per Kevin Love… ironia della sorte), ma intendono offrirgli un’estensione al massimo salariale e Jeff Teague non può essere scambiato fino al 15 dicembre; e i Miami Heat possono mettere sul piatto Goran Dragic e Justise Winslow, ma sarebbero comunque lontani al vero valore di Kyrie. Per la dirigenza di Cleveland il punto a favore è che non sono costretti ad assecondare i desideri di Irving, visto che non è in possesso di una “no-trade clause” (cosa che invece è presente nel contratto di LeBron James, rendendolo non scambiabile contro il suo consenso) e per questo possono accettare l’offerta più gradita. Ovvio che l’obiettivo è ricevere un pacchetto tale da poter ricostruire una squadra in grado di vincere il titolo attorno a James e a Love: una missione molto difficile per il nuovo GM Koby Altman, promosso nel ruolo di capo della dirigenza dopo settimane ad interim, il quale deve sempre tenere in considerazione la possibilità che LeBron se ne vada nel 2018. Una situazione che era già intricatissima prima e che diventa ancora più difficile ora: il mondo dei Cleveland Cavaliers è in subbuglio e gli interi equilibri della Eastern Conference potrebbero essere sconvolti ancora una volta.