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La resa di LeBron: “Ho dato tutto quello che avevo: non è bastato”

NBA

Dario Vismara

Dopo la sconfitta in gara-5, LeBron James non ha niente da rimproverarsi dopo una serie in tripla doppia di media: “Loro sono stati la miglior squadra degli ultimi tre anni, noi non siamo un superteam”

“Ho lasciato tutto quello che avevo in campo, non ho nulla da rimproverarmi”. Basterebbero queste parole, le prime pronunciate da LeBron James in conferenza stampa dopo la sconfitta in gara-5 contro i Golden State Warriors, per commentare la sua serie. Avrebbe anche potuto limitarsi a citare queste cifre: 33.6 punti, 12 rimbalzi e 10 assist, il primo giocatore di sempre a tenere una tripla doppia di media in una serie di finale. Oppure indicare tutti i minuti che ha giocato per dare una chance alla sua squadra, tutte le volte in cui ha attaccato il ferro mandando in crisi la miglior difesa della lega, o tutte le volte che ha messo i suo i compagni in condizione di segnare. O anche il fatto che, in una serie persa 4-1 contro una delle migliori squadre di sempre, nei 212 minuti passati con lui in campo i Cavs hanno perso solamente di 12 punti. “Ho dato tutto quello che avevo e non è bastato: è come se tu scrivesti il miglior pezzo della tua carriera e qualcuno scegliesse un altro al posto tuo. Tu come ti sentiresti?” ha continuato James rispondendo direttamente al giornalista che gli aveva chiesto come si sentisse dopo la sconfitta. Il Re, come sempre fatto nell’ultimo triennio, non ha mancato di sottolineare quanto fossero forti i suoi avversari: “Golden State è stata la miglior squadra della nostra lega negli ultimi tre anni e la migliore di questa stagione. Lo hanno mostrato di nuovo in questi playoff. Eppure neanche una volta ho pensato che potessero sopraffarci, almeno fino a quando ho guardato in alto e a un minuto e 20 dalla fine eravamo sotto di 13. A quel punto mi sono detto: ‘Ok, abbiamo lasciato tutto in campo e ancora non è bastato’”. Paradossalmente, il titolo dello scorso anno ha finito per creare a James un problema ancora peggiore rispetto a quanto non fossero gli Warriors prima dell’arrivo di Durant – ed erano già una squadra da 73 vittorie in regular season: “L’anno scorso siamo riusciti ad avere la meglio, e loro hanno preso uno dei migliori giocatori che questa lega abbia mai visto. Perciò hanno fatto un grande lavoro, sia da parte della dirigenza che dei giocatori, per reclutarlo durante l’estate: ovviamente ha pagato grossi dividendi”.

“We’ll Be Back”

Eppure James non ha potuto fare a meno di aspettare Kyrie Irving nei corridoi della Oracle Arena per mettergli un braccio attorno al collo, come farebbe un fratello maggiore, e dirgli solamente: “Torneremo qui, tu e io. Torneremo qui”. Una dichiarazione di intenti per quella che sarà la sua 15esima stagione nella NBA, da vivere ancora a Cleveland – ha un anno di contratto a 33.2 milioni di dollari, mentre dovrebbe uscire dall’accordo per diventare free agent nell’estate 2018, con la possibilità di firmare un contratto migliore –, ma per la quale non ha voluto elaborare nel post-gara: “Personalmente, devo fare un passo indietro e considerare tutta la situazione. Ho messo tutto il lavoro che dovevo fare nelle sale video, nella mia testa e nel mio corpo ogni singolo giorno, preparandomi con tutto me stesso per affrontare qualsiasi ostacolo che ci si ponesse davanti come squadra. Questo risulta sempre in un titolo NBA? No. È il mio terzo anno qui e non abbiamo vinto ogni singola partita. Così come non abbiamo vinto ogni finale, ovviamente. Ne abbiamo perse due. Ma come dico sempre a me stesso: se pensi di averci messo tutto il lavoro necessario e aver lasciato tutto in campo, allora puoi sempre spingere in avanti e mai girarsi verso il passato”. Questo però non ha impedito a James di fare un po’ il bilancio di fine anno dei suoi Cavs: “Abbiamo avuto buoni e cattivi momenti, ma la cosa più grande di questa stagione è che non siamo riusciti a essee sani se non quando i playoff erano ormai dietro l’angolo. Poi abbiamo mostrato di cosa siamo capaci quando ci siamo tutti, e sarebbe stato bello poterlo vedere lungo tutta la stagione per costruire la giusta chimica di squadra, senza dover aspettare aprile. Poi siamo riusciti a premere l’interruttore giusto, ma quelle partite a novembre e gennaio che secondo la gente non sono importanti, per me lo sono e per la nostra franchigia. Però non fa nulla, siamo riusciti a vincere la Eastern Conference senza il fattore campo contro Boston e arrivare in finale: come individuo e come squadra, è tutto quello che puoi sperare di avere – un’opportunità. Solo che poi siamo incappati in una delle migliori squadre ai playoff che questa lega abbia mai visto e non siamo riusciti a ottenere quello che volevamo. Ma non è mai una stagione fallimentare quando ci metti tutto il lavoro che abbiamo messo noi sin da fine settembre”.

Il mostro finale

Il vero problema per James, che a fine dicembre spegnerà 33 candeline, è che negli ultimi anni del suo prime tecnico e fisico continuerà ad incrociare la spada contro gli Warriors, avversari delle ultime tre finali: “Penso che rimarranno in giro per un po’: quasi tutti i loro giocatori migliori sono ancora ventenni e non mostrano alcun segno di voler rallentare. Ci saranno tante squadre che cercheranno modi di mettere assieme roster per pareggiare quello che loro possono fare in una serie di playoff, sia a est che a ovest. Perché a mio modo di vedere sono costruiti per durare diversi anni”. Superteam chiama superteam, si direbbe. Ma non ditelo a James, che a precisa domanda ha risposto di “non aver mai giocato per un superteam, e non credo di averlo qui”. Una presa di consapevolezza resa ancora più difficile dall’arrivo dall’altra parte della barricata di Kevin Durant, già definito da James come “la più grande differenza rispetto allo scorso anno” e rivelatosi, alla fine, un enigma irrisolvibile per tutta Cleveland. “No, non sono contento che abbia vinto il suo primo titolo. Non lo sono per niente” ha ammesso con grande franchezza James. “Ma sin da quando ho giocato contro di lui nelle Finals del 2012 gli ho detto che l’esperienza è la più grande insegnante della vita, perciò bisogna provare sulla propria pelle certe cose. Penso che avesse bisogno di rimettere assieme e riconsiderare la sua carriera venendo qui [a Oakland]. Come ho sempre detto, vincere il primo titolo per me è stato come avere il mio primo figlio. È un momento di grande orgoglio, una cosa che non potrai mai dimenticare – perché da quel giorno in poi nessuno potrà mai dire che non sei un campione, è un titolo che non potranno mai toglierti. Potrà anche essere l’ultima cosa che dicono di te, ma devono ricordare il fatto che sei un campione. E una volta che hai messo tutto il lavoro necessario e le cose ti ripagano, puoi vivere con serenità qualsiasi cosa succeda nella tua carriera”. Anche perdere cinque finali su otto tentativi, come inevitabilmente gli verrà ricordato per la sua legacy. Ma anche solo il fatto che le sue prestazioni abbia portato Draymond Green un anno fa a mandare un sms a Durant appena 30 minuti dopo la fine di gara-7 è l’ennesima testimonianza della sua Grandezza, quella con la G maiuscola, e al terrore/rispetto che incute nel resto della lega. Questa volta non è bastato, non riuscendo a vincere nemmeno una partita in trasferta per la prima volta dopo ventinove serie consecutive (l’ultima risaliva alle finali di conference del 2009 contro Orlando, quando viaggiò a 38.5 punti, 8 rimbalzi e 8 assist di media). Non è bastato, ma veramente poteva fare qualcosa di più?