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"Coach Wooden and me": un’amicizia e un legame che va ben oltre il basket

NBA

Il racconto da parte del più grande realizzatore della storia della NBA del rapporto con l’indimenticato coach di UCLA, diventata negli anni una storia da raccontare

Per capire il senso del libro “Coach Wooden and me: 50 anni di amicizia dentro e fuori dal campo” (Add Editore) basta partire dalla copertina, dall’incrocio di foto tra il fronte e il retro del volume. Due istantanee che raccontano gli estremi di un rapporto che ha cambiato le vite dei protagonisti, prima ancora che le loro carriere: in testa un giovanissimo Lew Alcindor che riceve indicazioni dal suo nuovo allenatore, impegnato a spiegare i movimenti in una posa fin troppo plastica (“È evidente che fosse una foto scattata durante uno shooting. Coach Wooden è sempre stato un uomo con i capelli in ordine, ma non dirigeva gli allenamenti in cravatta…”). Sul fondo invece, gli stessi protagonisti sullo stesso parquet, fotografati qualche decennio dopo impegnati a uscire dal campo mano nella mano, in un rapporto di necessità paradossalmente ribaltato dallo scorrere del tempo. Kareem Abdul-Jabbar a fare strada e il coach che, con quasi cento anni vissuti nelle gambe, procede con passo incerto e compassato appoggiandosi al bastone. In mezzo, non tanto e non solo 240 pagine avvincenti, ma una storia vera in cui il basket è il pretesto, ma non l’attore principale. Senza la comune passione per la palla a spicchi, difficilmente un giovane 18enne afroamericano di New York avrebbe conosciuto e avvicinato un uomo di cinquanta centimetri più basso, trentacinque anni più vecchio e reduce dall’essersi arruolato in Marina durante la Seconda Guerra Mondiale come ogni fervente difensore della patria. I poli opposti di una nazione che durante gli anni ’60 stava giungendo al culmine dello scontro, capaci di convivere e soprattutto di crescere uno al fianco dell’altro, oltre che a dominare e distruggere qualsiasi record a livello di basket collegiale. Di quello però, non c’è celebrazione; non c’è il racconto dei ripetuti trionfi o la tristezza delle rare battute d’arresto. La pallacanestro è il mezzo per raccontare di una discriminazione razziale strisciante, di contraddizioni religiose stridenti e di come il mondo possa diventare un posto migliore se si impara a fare delle buone azioni. Come fatto da coach Wooden per 99 lunghi anni.

Due letterati prestati al mondo della pallacanestro

La prima persona singolare usata nel racconto da Kareem Abdul-Jabbar è convincente, perché uscita dalla penna di quello che negli anni è poi diventato opinionista del New York Times e del Washington Post. Un gigante nella lotta per i diritti civili nell’America spaccata in due da atroci contraddizioni, premiato con la Medal of Freedom dal presidente Barack Obama nel 2016, quando imbarazzato raccontava di essere felice per quel riconoscimento: "Siano il riso e l'allegria a scavarmi le rughe dell'età", commentava in quell’occasione il miglior realizzatore della NBA citando William Shakespeare, quando la maggior parte delle persone con cui ha condiviso lo spogliatoio per anni faticherebbero a fare soltanto lo spelling del nome dello scrittore. Uno dei tanti vezzi presi a prestito proprio da Wooden, che prima di diventare l’allenatore più vincente dalla storia della pallacanestro collegiale era un professore di letteratura. “Quando mi sono arruolato durante la guerra ho ricevuto delle lettere e dei pensieri soltanto dai miei giocatori e nessuna dai miei alunni: lì ho capito che avevo la possibilità di incidere sulle persone molto di più facendo il coach”; questo uno delle miriadi di aneddoti che emergono dal racconto, in cui la Storia con la S maiuscola entra spesso e volentieri in gioco. Impossibile dunque che un personaggio come il coach non restasse affascinato dalla personalità del giovane Alcindor, che a 18 anni già si domandava quale sarebbe stata la parte che sarebbe stato chiamato a recitare nel combattere in favore dei diritti dei neri, in quella che sentiva essere la sua vera missione. "L'ignoranza è curabile, la stupidità è per sempre", raccontava Jabbar in un’intervista rilasciata dopo la morte del coach nel 2010, portando avanti uno dei tanti insegnamenti ricevuti in quasi 50 anni di amicizia. Un rapporto in cui tre anni di successi difficilmente replicabili per chiunque passano in secondo piano, perché “il tabellone dei punti non è mai importante. Fate però tutto il possibile per prepararvi: se saprete di aver dato il meglio di voi, quella sarà la vostra ricompensa”.