Please select your default edition
Your default site has been set

"Take That for Data": l’ascesa di David Fizdale, uomo fuori dall’ordinario

NBA

Dario Costa (in collaborazione con "l'Ultimo Uomo")

Basket, storia, impegno sociale: ecco come l'allenatore dei Memphis Grizzlies è diventato uno dei giovani coach più interessanti della NBA, dentro e fuori dal campo

In vent’anni di carriera come assistente e poi come capo-allenatore, David Fizdale non si era mai dovuto confrontare con avversari ostici quanto Nathan Bedford Forrest e Jefferson Davis. Seppur immobili, le statue che ritraggono due figure storiche della Guerra Civile Americana incombono sulla coscienza di Memphis e dei suoi cittadini. Forrest, schiavista tra i fondatori del Ku Klux Klan, e Davis, prima generale dell’esercito confederato e poi presidente della Confederazione Sudista dal 1861 al 1865, sono da sempre al centro di polemiche che gli avvenimenti di Charlottesville hanno ridestato con forza.

Tra i primi firmatari della petizione che vorrebbe imporre al consiglio comunale la rimozione dei monumenti, il due volte campione NBA con i Miami Heat non si è tirato indietro quando gli è stato chiesto di spendersi per la causa. Alla sua seconda stagione sulla panchina del FedEx Forum, distante poco più di un miglio dagli oggetti del contendere, l’allenatore dei Memphis Grizzlies ha preso una posizione netta rispetto a una disputa che divide ancora oggi l’opinione pubblica, soprattutto in uno stato come il Tennessee. La fermezza e il coraggio dimostrati hanno sorpreso solo chi ne conosceva a stento il cammino percorso fin lì.

«Take that for data!»

Nel mondo dello sport professionistico una delle imprese più difficili è ricostruire l’identità di una squadra di successo. Chiudere un ciclo dopo aver assaporato l’ebrezza del trionfo, magari a ripetizione, richiede audacia e una certa dose di ingratitudine verso chi quel trionfo l’ha reso possibile. In un sistema impregnato sulla periodicità dei cicli vincenti come l’NBA, poi, agli anelli e alle parate con coriandoli, sigari e champagne seguono inesorabilmente stagioni quantomeno mediocri. Tuttavia, dato che il sistema di cui sopra garantisce a tutti la possibilità di competere ma, per ovvi motivi, non garantisce alcuna certezza quanto all’esito della competizione, succede spesso che il trionfo venga solo sfiorato. Arrivare a un passo dalla vittoria, infine, non scalfisce lo scorrere del tempo e il conseguente esaurirsi dei cicli. Se è quindi opera complessa mettere da parte i trofei e ricominciare da capo, quanto può essere ancor più difficile voltare pagina dopo aver solo intravisto il traguardo senza mai raggiungerlo?

Quando, nella tarda primavera del 2016, dopo tre lustri abbondanti di onorato servizio da assistente l’allora braccio destro di Erik Spolestra aveva accettato l’offerta dei Grizzlies sapeva bene a cosa andava incontro. L’era del Grit & Grind aveva portato in alto la squadra, anche se non a sufficienza per respirare l’aria rarefatta delle Finals, ma soprattutto aveva costruito un legame con la città che prima era inimmaginabile. Quell’identità così marcata aveva rappresentato un tratto fortissimo in grado di diffondersi come un vero e proprio culto tra la tifoseria locale.

Per marcare subito le differenze con il passato, le prime decisioni da head coach consistevano in mosse simboliche come l’imbiancatura dei muri degli spogliatoi, fino a lì tinteggiati ricalcando il blu delle divise da gioco, variazione estetica atta a favorire il distacco dalla precedente connotazione. Appena scesi sul parquet per il primo giorno di training camp, poi, i giocatori avrebbero trovato un’altra novità: il cronometro dei 24 secondi tarato sui 18. L’intento, manifestato sin da subito, era quello di velocizzare una manovra che fino ad allora aveva costruito i suoi successi sul gioco a metà campo. Era solo il prio passo di un disegno strategico che avrebbe comportato iniziative ben più concrete, come l’opera di persuasione nei confronti di Marc Gasol, passato da 0.1 a 3.8 tentativi di media da dietro la linea dei tre punti, o la decisione di estromettere dal quintetto il beniamino dei tifosi Zach Randolph in favore del più dinamico per quanto sconosciuto JaMychal Green.

Al termine della stagione regolare, il settimo posto nella Western Conference regalava la settima apparizione consecutiva nella post-season, ma proprio l’eliminazione al primo turno contro San Antonio ha finito per fortificare il rapporto con lo spogliatoio e l’ambiente tutto. Il celeberrimo “Take that for data!” con cui ha concluso la polemica conferenza stampa del post-Gara 2, oltre a originare una cospicua multa poi pagata con una colletta tra i giocatori, rivelava in diretta tv il carattere di un uomo che non aveva paura di alzare la voce per difendere i propri principi e denunciare le ingiustizie perpetrate sotto i suoi occhi. Che si trattasse del metro arbitrale favorevole agli Spurs o, come sarebbe successo qualche mese più tardi, dell’inadeguatezza del presidente Trump di fronte alla questione razziale in America, faceva poca differenza. Gli appassionati NBA e non solo cominciavano a prestare attenzione.

Lo sfogo è diventato talmente di culto che The Ringer ha mescolato la celeberrima conferenza stampa al film cult Indipendence Day

Nascere e crescere a L.A.

Con un’infanzia e un’adolescenza trascorse a South Central tra l’esplosione di crack e la violenza degli anni Ottana fino alle rivolte del 1992, David Fizdale ha vissuto sulla propria pelle sia la crescente brutalità della polizia locale che la sconvolgente ascesa della delinquenza da strada. La sua, nondimeno, è tutto fuorché la consueta parabola di povertà, crimine e riscatto che piace tanto ai media, soprattutto da questa parte dell’oceano.

Come buona parte dei suoi coetanei viene cresciuto da una madre single perché il padre, un bianco, lo ha abbandonato ancora in fasce. A dispetto delle ristrettezze economiche, però, il giovane David si costruisce un tracciato accademico di tutto rispetto alla San Diego University. Mentre studia sociologia e comunicazione, guida la selezione dell’ateneo nella spumeggiante West Coast Conference di metà anni Novanta. Point guard dal talento limitato ma dal temperamento feroce, il futuro condottiero dei Grizzlies si trova a scontrarsi spesso contro un pari ruolo dal discreto avvenire in NBA che gioca a Santa Clara, tale Steve Nash.

Abbandonato il sogno di diventare giocatore professionista, transita dal campo alla panchina nel ruolo di assistente. Il passo successivo è a Fresno State e, nonostante si parli anche in questo caso di una realtà non proprio di prima fascia a livello NCAA, l’operato dell’ormai quasi trentenne suscita l’interesse dei Golden State Warriors. Si tratta di una versione decisamente meno vincente degli attuali campioni NBA e a far da connettore è il capo allenatore Eric Musselman: i due hanno un trascorso comune a San Diego, seppur distanziato di qualche anno, ma l’avventura sulla baia di Musselman non dura molto e quella del suo assistente ancora meno. Ma poco importa: la chiamata da parte degli Warriors è solo la prima avvisaglia di una capacità attrattiva destinata ad aumentare col tempo. Se nel percorso professionale di coach Fiz è infatti possibile individuare un elemento distintivo, è probabilmente la spiccata facilità nell’instaurare e poi mantenere relazioni proficue con chi lo circonda.

Miami, biglietto d’andata e ritorno

Tra la conclusione degli studi e l’incarico di assistente alla San Diego University, il neo-laureato lavora come stagista nel comparto analisi video dei Miami Heat. È un intermezzo in apparenza poco significativo, eppure ne segnerà il destino professionale in maniera del tutto impronosticabile. Nel 1997 sul pino c’è Pat Riley e tra i suoi assistenti, responsabile degli analisti deputati a spulciare ogni azione di ogni partita, spicca un giovane di nome Erik Spoelstra. I due trascorrono un’imprecisata quantità di ore in sala video: la tecnologia, all’epoca, non offre grandi supporti  e tra VHS riavvolte e mille sovra-incisioni si cementifica un’amicizia che darà i suoi frutti dieci anni più tardi. Quando a Spoelstra viene affidato l’ingrato compito di succedere a Riley, ruolo che in precedenza ha inghiottito persino un eccellente professionista come Stan Van Gundy, l’ex-video coordinator pensa subito al compagno di tante nottate trascorse davanti allo schermo. Non bastasse, due stagioni dopo, lo stesso Spoelstra affida al suo assistente un compito non certo di poco conto: la gestione del nuovo arrivato LeBron James. Per lui, che ha passato gli anni precedenti nel vano tentativo di entrare nella testa di Michael Beasley, è una sorta di compensazione karmica: il rapporto anche in questo caso funziona, e gli Heat vanno in finale per i quattro anni successivi vincendo due titoli.

Il successo nella gestione di James, tuttavia, nasconde una trappola che Fizdale intuisce e vuole a tutti costi evitare. Come successo a molti altri assistenti afro-americani prima di lui, l’ex San Diego si rende conto di essere vittima dello stereotipo del ‘relationship guy’. In una lega con manodopera a larga maggioranza afro-americana, agli assistenti di colore è spesso affibbiata la funzione di tramite tra la guida tecnica e gli atleti, nella convinzione che la vicinanza culturale, e in molti casi d’età, possa garantire loro una via d’accesso facilitata; la controindicazione che emerge è la tendenza a ghettizzare questi assistenti ignorandone le competenze tecniche — a maggior ragione se, come nel caso in esame, il curriculum personale non può avvalersi di precedenti da giocatore di livello. La tenacia con cui ha sempre tenuto a ribadire la propria professionalità, nei vari colloqui con le franchigie a lui interessate e tra le righe delle interviste concesse durante gli anni, ha però fatto sì che Fizdale si guadagnasse sul campo i gradi di capo allenatore e con essi la fiducia di Wallace e del proprietario Robert Pera. Fiducia che, va detto, fin qui si è rivelata ben riposta.

Grit & Grind 3.0

Se la stagione 2016-17 ha segnato l’avvio dell’era post-Grit & Grind, il principio di quella attuale ha ribadito la bontà della scelta effettuata dal front office 18 mesi addietro. Consapevole da una parte della svolta impressa alla franchigia e dall’altra della visibilità acquisita come personaggio pubblico, Fizdale ha inaugurato il suo secondo mandato confermandosi come una delle personalità emergenti dello sport a stelle e strisce. Quanto alla vicenda delle statue, nell’articolare il proprio pensiero il coach dei Grizzlies non si è limitato a chiederne la rimozione, ha anche suggerito che le stesse dovrebbero essere trasferite in un apposito spazio nel museo dei diritti civili. Memore dei racconti del nonno materno, reduce della Seconda Guerra Mondiale e assassinato sulla soglia di casa quando David era poco più che adolescente, il peso della storia è valore fondante della sua visione. Lo stesso vale, con le dovute differenze, per la pallacanestro.

Dopo essersi adoperato per rimarcare la discontinuità con la gestione precedente, l’ex Toreros ha sostenuto con forza diverse iniziative tese a celebrare i primi tre lustri della franchigia. La “Hubie’s Hall”, dedicata al primo coach sedutosi sulla panchina dopo il trasloco dal Canada e inaugurata durante la pre-season, ne è un esempio perfetto. Le gigantografie dei giovanissimi Pau Gasol, Mike Miller e Shane Battier fanno bella mostra nei corridoi del FedEx che portano agli spogliatoi degli ospiti, così come i ritratti di Hubie Brown e Lionel Hollins, definiti “modelli cui ispirarsi, sulla panchina e nella comunità”. Il capo allenatore, inoltre, si è proclamato entusiasta del prossimo ritiro delle maglie numero 9 e 50, gesto di riconoscenza nei confronti di Zach Randolph e Tony Allen, veri e propri eroi di Beale Street. Di fatto, i Grizzlies stanno cercando di crearsi una storia.

Ma per quanto il passato non vada chiuso nel dimenticatoio, il compito di chi come Fizdale ricopre un ruolo di guida è traghettare il resto della compagnia verso il futuro. Salutati i veterani di mille battaglie, i Grizzlies si sono presentati alla prima palla a due della regular season con un organico decisamente ringiovanito. Mike Conley e Marc Gasol, pilastri attorno a cui è disegnata la planimetria della squadra, sono gli unici giocatori oltre i 30 anni. Insieme alle tante promesse pescate nelle parti meno nobili degli ultimi Draft, la scommessa attorno a cui potrebbe girare l’annata è il recupero di reprobi come Chandler Parsons, Tyreke Evans e Mario Chalmers. Parsons, in particolare sarà l’osservato speciale dello staff tecnico. La fragilità fisica ha segnato il suo esordio in Tennessee, chiuso a con 34 presenze e 6.2 punti di media, faticando a giustificare l’investimento fatto su di lui con un quadriennale da quasi 100 milioni di dollari.

Fizdale, a tal proposito, è stato piuttosto esplicito e, proprio come per le sue esternazioni in ambito sociale, si è premurato di provocare la giusta dose di disagio al diretto interessato. Con l’ex Dallas, ora abile e arruolato sin dal training camp, l’allenatore ha dichiarato che “non userà i guanti bianchi”. Pur considerandolo fondamentale per la mutazione tattica in atto, l’intenzione era quella di mandare un messaggio nemmeno troppo velato al giocatore: sei importante per noi, è ora di provarlo coi fatti. La pazienza, dunque, è limitata. Con l’ex Rockets come con tutti gli altri, i minuti non sono garantiti: gioca solo chi dimostra di essere pronto a dare battaglia su ogni pallone. Perché al di là dell’apertura al dialogo come cifra stilistica, coach Fiz non transige quanto a serietà professionale ed etica lavorativa, valori mutuati in primis dalla madre e poi forgiati durante l’esperienza a Miami sotto l’egida di Pat Riley. Qualcosa della carica emotiva e della determinazione su cui i Grizzlies hanno edificato la loro unicità, insomma, rimane: il Grit & Grind è morto, lunga vita al Grit & Grind.

Oggi Beale Street, domani il mondo

I primi risultati sono stati più che positivi e al momento in cui scriviamo la classifica dice 7 vinte e 5 perse, buono per il 5° posto nella Western Conference. Memphis può vantare vittime dell’alta nobiltà NBA come Warriors e Rockets, quest’ultimi battuti già due volte. L’inizio sembra promettente, anche perché la squadra prosegue spedita lungo quel processo evolutivo avviato l’anno scorso. La media di triple tentate a sera (29 contro le 26.5 della scorsa stagione) e il numero di possessi (97.87 contro 94.74) confermano la convinzione con cui il gruppo stia abbracciando la rinnovata impostazione.

I principi difensivi del Grit & Grind implementati dal contropiede fulmineo, il tutto contro i maestri indiscussi della specialità

Versione Grizzlies del “7 Seconds or Less” con Marc Gasol ormai in automatico ad aprirsi dietro l’arco per la conclusione veloce

L’esito finale di questo complesso esperimento di metamorfosi, tuttavia, si prospetta incerto. La ricorsa agli imprendibili Warriors ha alzato l’asticella della competizione e nel medio-lungo termine è probabile che i Grizzlies faticheranno a stare al passo con l’agguerrita concorrenza. A prescindere dal record con cui Memphis chiuderà la regular season, comunque, sotto molti punti di vista David Fizdale rappresenta già oggi il prototipo ideale per l’NBA contemporanea: attivo socialmente e a proprio agio di fronte alle telecamere, preparato dal punto di vista tattico e convinto dei propri mezzi, compassato senza disdegnare la mondanità (la moglie, peraltro la seconda, non passa certo inosservata nelle uscite pubbliche di coppia). Meno celebrato rispetto a colleghi più vincenti come Brad Stevens o meglio posizionati a livello mediatico come Luke Walton, Fizdale appare comunque avviato verso una lunga e significativa carriera in the League.

Certo, al momento sulla carta risulta poco più che un’esordiente, la strada verso l’affermazione rimane ancora lunga e il passo falso è dietro l’angolo. Lui, però, anche su questo tema si è già espresso con chiarezza, per sé e per i suoi. C’è da scommettere che continuerà a farlo.