Recenti ricerche statistiche dicono che la "mano calda" non esiste, eppure il numero 11 dei Golden State Warriors ha costruito i momenti migliori della sua carriera proprio grazie alle improvvise esplosioni realizzative - cambiando anche il corso della storia NBA.
Chiunque abbia giocato qualche volta al campetto o abbia assistito a una partita di basket sa bene cosa significa “avere la mano calda”. Quando un giocatore segna più di un canestro in fila, qualcosa di magico porta le conclusioni successive ad entrare a loro volta, come se fare canestro porti a fare canestro in un loop meraviglioso che va avanti per diversi minuti. Una percezione talmente inserita nell’immaginario comune da entrare anche nell’algoritmo dei videogiochi sul basket. Ormai la comunità più attenta all’analisi statistica da anni tenta di spiegare questo fenomeno: nel corso del tempo sono scese in campo le opinioni più disparate, a partire dall’analisi empirica realizzata nel 1982 che ha riportato un esito negativo secondo il quale “bisogna capire che non c’è molta differenza con il tiro della monetina”, ovverosia: considerando che i giocatori tirano più o meno col 50%, se consideriamo tre canestri messi consecutivamente questi modificano di molto la probabilità che il quarto possa entrare verso il basso. Ovviamente il tiro successivo può entrare lo stesso, ma è meno probabile: quindi tirare ancora perché si è segnato già tre volte dal punto di vista statistico non è razionale.
A rincarare la dose ci sono quella più recente di Michael Lewis, l’autore di Moneyball, secondo cui “le strisce di canestri consecutivi che i fan e i giocatori stessi pensano di vedere sono illusioni”. Ma anche un premio Nobel per l’economia come Daniel Kahneman, il quale affronta il discorso con un approccio più scientifico, conclude che “la mano calda è una grandissima illusione cognitiva”. Si è arrivati quindi a parlare di “mito fallace della mano calda”, un’idea che porta la fiducia nella mano calda quindi ad essere addirittura sconsigliata dal punto di vista statistico.
Eppure chi gioca a basket ha provato almeno una volta questa sensazione di avere in mano un pallone più leggero del normale e di vedere il canestro più grande, come se segnare fosse l’unico risultato possibile di un tiro. Allenatori e giocatori della NBA, inoltre, ci credono quanto e più di noi. Non sappiamo ancora se il fenomeno della mano calda esista veramente, ma quello che conta è che esiste nella testa di chi tira perché può creare situazioni gloriose, anche in grado di cambiare il corso intero della NBA – come nel caso della gara-6 di finale di conference 2016 tra i Golden State Warriors e gli Oklahoma City Thunder. In quella gara la mano di Klay Thompson non era calda, era lava: 41 punti totali, 11 triple segnate (record nella storia dei playoff) e una prestazione balistica in grado di cambiare l’inerzia stessa della partita, della serie e della lega in generale.
Senza quella incredibile prestazione, Kevin Durant sarebbe andato in Finale NBA con i Thunder e in estate con ogni probabilità non sarebbe andato agli Warriors, creando un universo del tutto diverso rispetto a quello che conosciamo ora. Oltretutto, gli Warriors sarebbero potuti implodere su loro stessi, sprecando la miglior regular season di tutti i tempi (73 vittorie e 9 sconfitte) senza arrivare neanche a vincere la Western Conference. Le parole di coach Steve Kerr sono forse le migliori per capire l’impatto della mano calda di Thompson sulla storia della NBA: “È stata una delle più incredibili prestazioni individuali che qualcuno abbia mai avuto, considerando le circostanze: eravamo praticamente morti. E non è che stessimo utilizzando chissà quali schemi per far arrivare il pallone a Thompson in posizione favorevole”.
Kerr ovviamente si ricorda bene quel momento che ha cambiato anche la sua storia: c’era la difesa atleticamente asfissiante di OKC, con cambi sistematici e braccia lunghissime; c’era la capacità di uno tra Westbrook e Durant di attaccare costantemente e tenere sotto pressione gli Warriors; e c’era il vantaggio in doppia cifra (fino al +13) che sembrava aver definitivamente deciso la gara a fine terzo quarto. Poi è arrivata la tempesta perfetta del numero 11, che ha iniziato a buttare dentro qualsiasi cosa gli capitasse in mano. “Avevamo provato di tutto, ma la difesa di OKC era devastante. E lui in questo contesto inizia a tirare quei tiri che ti fanno dire: ‘Oh mio Dio di no, no, no…sì!’ . La qualità di Klay è che può tirare in qualsiasi momento: è così grosso e strutturato fisicamente che può prendersi il tiro in qualsiasi momento e da dovunque voglia”.
Mano calda come lava incandescente.
L’idea stessa della mano calda quindi ha preso forma sotto i nostri occhi in un momento cruciale della storia della lega, non in una partita qualunque di regular season. Nel momento più drammatico della stagione, improvvisamente Klay Thompson ha cominciato a tirare sempre perché continuava a segnare senza mai sbagliare. Le sue parole sulla mano calda della famosa partita contro i Sacramento Kings nel 2015 in cui mise 37 punti in un quarto possono aiutare a dare l’idea di cosa significhi per un giocatore questo fenomeno: “Non potevo crederci ma ho segnato 13 volte di seguito: una cosa difficile da fare in allenamento, figuriamoci in partita. E i tiri che prendevo erano tutti in ritmo. Sembrava che arrivassero seguendo un buon flusso di gioco. Una situazione assurda, difficile da descrivere a parole”.
Seconda opzione fluttuante
Che esista o meno, la capacità di sfruttare il fenomeno della mano calda è quello che ha fatto entrare Klay Thompson nei libri di storia della NBA, ed è il motivo per cui al quarto miglior giocatore degli Warriors viene data tanta attenzione da parte degli avversari ed è tanto amato da compagni e tifosi. Il suo ruolo offensivo negli Warriors è tanto semplice da descrivere quanto fondamentale: Thompson deve muoversi lungo il campo fungendo da “seconda opzione fluttuante” (così la definisce Zach Lowe di ESPN), ovverosia deve sempre farsi trovare a disposizione come opzione di scarico del primo portatore fuori dall’arco. Questo porta il suo ruolo ad essere ovviamente strettamente collegato a quello di Steph Curry, perché questa dinamica tra i due – esemplificata dal soprannome della coppia come “Splash Brothers” – è il cuore stesso dell’attacco dei Golden State Warriors. La presenza di Thompson sempre in relazione a Curry implica che il numero 30 può attirare su di sé la difesa anche a 10 metri dal canestro e mantenere comunque la sicurezza di avere uno scarico in visuale a cui cedere il pallone, un tiratore di altissimo livello su cui gli avversari devono ruotare immediatamente se non vogliono prendersi tre punti in faccia.
Ma i due possono portarsi anche blocchi a vicenda, liberandosi tra loro e guadagnando — soprattutto in regular season dove gli avversari non sono abituati a questi tipi di situazione — quei punti a partita facili derivanti dal passaggio extra che nasce spontaneamente dopo lo scambio, come un fiore che sboccia dal terreno. Thompson è allo stesso tempo il giocatore di cui Curry si fida di più e il suo alter ego, il primo che vuole mettere in ritmo e quello cui scaricare ad occhi chiusi per dare il via a un parziale. Uno è un artista, la personificazione del concetto di creatività applicato a un pallone che deve entrare dentro a un canestro; l’altro è un artigiano, un fine lavoratore che attraverso la ricerca della perfezione nel gesto è arrivato a poter fare il suo mestiere ad occhi chiusi.
Questo rapporto simbiotico deriva prima di tutto dal rapporto di fiducia che i due hanno creato grazie alla loro visione comune di pallacanestro, ma anche dall’idea dell’allenatore stesso di fomentare questa visione, di lasciarli liberi di cercarsi a vicenda anche per superare i piccoli slump al tiro durante la partita. Un’idea nata già sotto Mark Jackson, il primo a dare libero sfogo alla loro peculiare interpretazione degli spazi in campo, ma ci voleva un tiratore come Kerr per spiegare cosa passa nella testa di due tra i migliori tiratori della storia, di sicuro i migliori di sempre a giocare nella stessa squadra: “Non vogliamo che Klay e Steph pensino troppo. Loro sono tiratori, quindi dobbiamo perdonagli anche qualche brutto tiro e dobbiamo fidarci che, a un certo punto, inizino ad entrare in ritmo. Succede quasi sempre”. Questo ha portato alle famose eruzioni improvvise di Klay per spaccare le partite con parziali che sembrano usciti da un videogioco (dai 37 in un quarto contro Sacramento ai 60 in 29 minuti contro Indiana), ma anche a situazioni in cui Curry — per cercare di aiutare il suo compagno ad entrare in ritmo — forza qualche passaggio di troppo, come nel caso della recente sconfitta contro gli Houston Rockets. Nel momento più importante della gara, in pieno contropiede Curry cerca immediatamente Thompson per una tripla in transizione: nella sua testa la priorità era di mettere in ritmo il giocatore in grado di creare dal nulla il parziale decisivo con 3-4 canestri.
Curry ha sbagliato nella scelta, ma non c’è da dargli troppo torto nell’intenzione, perché un tiro in ritmo di Klay Thompson vale più di un appoggio contestato in contropiede.
Per il numero 11 il catch and shoot è il pane quotidiano, con una tecnica e soprattutto una velocità d’esecuzione che non hanno pari nell’attuale NBA. Il momento con cui spezza il polso è solo l’ultima istantanea che vediamo, ma è tutta la preparazione a essere perfetta, a partire dal movimento senza palla per staccarsi dal marcatore e ricevere il pallone. Thompson naviga tra i blocchi per passare orizzontalmente da un lato all’altro, ma molto spesso parte da fermo portando lui stesso un primo blocco per poi aprirsi e staccarsi immediatamente dal giocatore dopo l’impatto e iniziare il movimento.
La palla è la cosa più importante del basket e il nostro occhio volge naturalmente verso di essa, ma questo spesso ci impedisce di apprezzare proprio tutto quello che c’è di preparatorio al tiro. In Klay Thompson si vedono anni e anni di sviluppo di tecniche per liberarsi degne di chi, come Reggie Miller o Ray Allen prima di lui, hanno già mostrato quanto la preparazione al tiro spesso possa fare la differenza sul risultato finale. Thompson non è certo un grande esempio di atletismo esplosivo in grado di schiacciare il pallone nel canestro staccando direttamente dalla lunetta, ma negli strappi che porta al difensore diretto mostra come non necessariamente serve saper saltare se si può ricevere con spazio. In questo i tempi di reazione di Klay nel passare dal contatto con l’uomo allo scatto per liberarsi fanno la differenza.
La miglior prestazione di quest'anno: 38 punti contro i Chicago Bulls.
La ricezione di Thompson è talmente veloce che gli permette di poter tirare nel momento stesso in cui i piedi si posano paralleli alle spalle sul terreno: da lì in poi, passare dal caricamento sulle ginocchia al movimento di tiro vero e proprio che si conclude con il rilascio è veramente questione di un battito di ciglia. Il tiro senza neanche un palleggio è la sua specialità: il 64.3% delle sue conclusioni in questa stagione viene preso ricevendo e tirando immediatamente il pallone, l’equivalente di 6.1 tentativi da tre a partita realizzati con il 45.9%. Se Curry ha cambiato la nostra idea di cosa significa essere un tiratore inventandosi l’efficienza abbinata al tiro dal palleggio, e se Durant ha cambiato la concezione stessa della fisica applicata al corpo umano con la capacità di raccogliersi e far partire un tiro a tre metri d’altezza da terra, Klay Thompson è la sublimazione di anni di evoluzione del tiratore puro, della tecnica abbinata all’esercizio per arrivare nel minor tempo possibile ad avere un rilascio immediato con un movimento sempre fluido.
Siamo nell’empireo dell’idea del tiratore, tanto per esecuzione (il 74.4% delle sue conclusioni vengono prese in meno di due secondi dalla ricezione) quando per efficienza (al momento segna 3.3 triple a gara su 7.4 tentativi, sostanzialmente le stesse della scorsa stagione con un tentativo in meno). Parliamo di un giocatore che ha messo più di 300 triple nella scorsa stagione tirando entro gli 0.8 secondi dalla ricezione, ben 110 in più rispetto al secondo in questa classifica C.J. Miles. Non sono neanche immaginabili le ore di sessione di tiro per poter arrivare al risultato che vediamo tutti i giorni ora, la memoria muscolare in grado di portare al movimento sempre uguale a certe velocità e a certe altezze di esecuzione.
Un tiratore di spalle
Uno degli aspetti più sottovalutati della sua meccanica è l’importanza delle spalle. È lui stesso a sottolineare come la posizione delle spalle cambi tutto: “Hopla [il suo coach del tiro, ndr] dice che non importa dove sono i tuoi piedi se le tue spalle sono bene in ordine, e questa cosa ha funzionato con me fin da quando ero bambino. Quindi ora ogni volta che provo a prendere un bel tiro voglio essere sicuro che le mie spalle guardino il canestro, anche se i miei piedi partono da posizioni strane. Partire da questa base e avere una buona elevazione è tutto quello che mi serve”. Dalla parte bassa del corpo grazie a due gambe grosse come tronchi d’albero, invece, parte un movimento che lui definisce “a cascata rovesciata”, ovvero da immaginarsi come lo scorrere dell’acqua di una cascata, sempre costante nella velocità per portare il pallone dal petto al rilascio con il polso spezzato sopra la testa. Klay Thompson atterra sempre da dove parte, come una molla fissata al terreno, ma non è un tiratore mono-dimensionale: le rare volte in cui non è in ritmo (parliamo per capirci del 14.2% dei casi) e non può tirare immediatamente, è in grado di mettercisi da solo con un palleggio prima del movimento, spesso per mandare a vuoto il recupero di un difensore. Paradossalmente questa situazione deve spaventare ancora di più la difesa perché, anche se si tratta di meno di un tiro da tre a partita (0.7 tentativi per la precisione), il tiro entra più di una volta su due (56.7%).
Da un puro punto di vista dell’efficienza, quindi, per la difesa è aritmeticamente preferibile lasciargli il piazzato che farlo mettere in ritmo da solo col palleggio. Questo solo per far capire che mal di testa sia cercare di impedirgli di tirare.
Le letture senza palla non solo lo portano a farsi trovare libero per ricevere, ma anche a capire quando anticipare o quando rallentare il movimento di tiro una volta ricevuta la sfera. Può capitare che il difensore tenti di rimanere attaccato dall’inizio, tenere il blocco e togliergli quindi lo spazio per tirare, e allora lui all’azione dopo semplicemente cambia registro e taglia verso il canestro invece che orizzontalmente. Thompson è ormai tra i migliori al mondo nel tagliare in area, più che altro per via della sua intelligenza e l’abitudine a giocare nelle pieghe della partita e in una squadra che premia proprio questo tipo di azioni, visti i passatori che si ritrova e gli spazi in cui ci si può muovere.
Quando sono schierati tutti contemporaneamente, cioè quando gli Warriors mettono in campo gli “Hamptons 5” con Curry, Thompson, Iguodala, Durant e Green, la cosa particolare è che paradossalmente il peggior passatore è proprio lui. E parliamo di un giocatore in grado di eseguire passaggi non necessariamente al compagno più vicino e di servire un tagliante senza problemi. Questa però è la realtà degli Warriors, una squadra che può permettersi di non chiedere a Thompson nulla di quello che non sappia fare: se può tirare subito parte per il tiro, altrimenti anticipa il difensore tagliandogli alle spalle e ricevendo in corsa, mantenendo in movimento una catena di passaggi che prima o poi troverà la soluzione più efficiente.
Ormai è un dato di fatto che nei pochi minuti in cui sia Curry che Durant sono contemporaneamente in panchina (9.7 minuti a partita) il peso dell’attacco ricade sulle sue spalle più che su quelle di Draymond Green (che non è un realizzatore naturale). Anche senza le due superstar, però, Thompson non ha intenzione di cambiare il proprio gioco e per adesso i risultati sono ottimi, visto che la sua efficienza cala ma rimane incredibile. Soprattutto da tre, dove nei due tentativi a gara presi senza Curry e Durant tira comunque con percentuali élite da 42.5% (quando sono in campo invece Thompson tira da tre col 50.4%) e un attacco con lui rimane quindi comunque a galla, permettendo alle due stelle principali di riposarsi senza troppi pensieri.
Anche perché Klay sembra avere una dinamo interna che pare ricaricarsi automaticamente, rimanendo sempre e comunque lucido. Per avere certi livelli di rendimento la capacità di stare in campo è fondamentale, soprattutto per la creazione di quella chimica che porta la squadra a funzionare anche meglio della somma delle singole parti. In questo Klay Thompson si sta costruendo una carriera perfetta: in questa stagione ha saltato solamente una partita per riposarsi, nella scorsa quattro, in quella precedente due. Klay è una sicurezza non solo per quello che può dare praticamente in ogni partita, ma per il fatto di esserci in campo praticamente in ogni partita.
Un difensore d’élite
Thompson non è solo fondamentale per fare degli Warriors la miglior squadra al mondo nella metà campo offensiva: dal punto di vista del potenziale, nulla è paragonabile agli Warriors neanche in difesa e in questo Klay è un fattore determinante. Uno dei mantra di Kerr è che la NBA è una lega in cui, dal punto di vista difensivo, quello che conta di più è la capacità di cambiare marcatura per mantenere costante la pressione, o per dirla con parole sue “Questa lega è un gruppo di gente attorno ai due metri che possono marcare e cambiare in difesa”. Thompson è proprio questo tipo di giocatore qui (casualmente proprio alto 6 piedi e 7, ovverosia 205 centimetri) e probabilmente il più bravo in circolazione tra i pari ruolo nella capacità di cambiare e adeguarsi all’avversario. Se si prendono in considerazione le guardie tiratrici d’élite, è sicuramente il migliore difensore in post tra questo gruppo, una caratteristica fondamentale quando una difesa vuole cambiare con continuità senza concedere vantaggi agli avversari.
Contro il migliore attaccante in 1 contro 1 del mondo, nelle finali NBA.
Con Thompson in campo la difesa degli Warriors migliora di 5.5 punti su 100 possessi, ma quello che conta di più è che con Thompson in campo il giocatore che viene più attaccato per evidenti motivi (Steph Curry) non deve marcare il primo portatore di palla avversario. Tanto Curry aiuta Thompson in attacco nel leggere dove andrà a mettersi per servirlo e metterlo in ritmo, tanto Klay aiuta Steph nell’altra metà campo. Non è solo il fisico e la velocità di piedi che gli danno la capacità di cambiare senza problemi, ma l’intelligenza nelle letture difensive quando deve tenere l’uomo, quando deve accompagnarlo verso un aiuto e quando serve pressarlo. Thompson riesce a rimanere attaccato e concentrato e poi in una frazione intuire il cambio e spostarsi sul nuovo obiettivo, come un cane a cui viene lanciata un’altra pallina mentre ne sta già inseguendo una. In questa stagione, quando deve marcare in isolamento, l’uomo con la palla tira con il 19.4%: parliamo quindi di élite assoluta in termini di difesa sull’uomo.
Thompson ha dichiarato che il suo personale obiettivo stagionale dal punto di vista difensivo è di arrivare a una stoppata di media a partita (per adesso siamo in linea con il resto della carriera a quota 0.6). Klay però non è il migliore difensore in aiuto e questo non gli permette di realizzare tantissime stoppate, ma in una difesa che può vantare due pterodattili alle sue spalle come Durant e Green non gli viene neanche richiesto, dato l’enorme lavoro che deve già fare nel tenere sotto controllo la situazione legata a Steph Curry.
Il miglior specialista del mondo?
Una cosa che rende speciale Thompson è che sa benissimo quello che deve fare, e praticamente in quello che deve fare non ha punti deboli. Il suo gioco può avere delle zone grigie ancora non sviluppate del tutto, ma è anche vero che la sua eccellenza in quello che gli viene chiesto giustifica questo e altro. Forse, a voler essere proprio pignoli, il suo margine di crescita maggiore è nel rapporto con la lunetta avversaria, un trucco che le altre stelle hanno imparato a sfruttare e in cui lui ancora sembra essere indietro. Klay non va molto in lunetta, ma è pur vero che non attaccando spesso l’area in palleggio è difficile ricevere tanti falli, e probabilmente non sarà mai in grado di andare a cercare il contatto nel pitturato per aumentare il numero di liberi a partita.
Forse la risposta sta proprio nel fatto che Thompson arriva in area solo in situazioni di taglio, e ci arriva con un tempismo e un equilibrio tali che poi nella conclusione semplicemente non gli capita di dover finire subendo un contatto, perché il difensore battuto è troppo distante e quello sotto canestro non fa in tempo ad arrivare. Questa è solo una mia teoria, però, a rigor di analisi va detto che tirare così pochi liberi è effettivamente deleterio per un giocatore con le sue percentuali nel fondamentale: portare a casa solo 1.5 liberi tentati a gara non è abbastanza per un due volte campione NBA che ormai da anni fa parte dell’All-Star Game. Inoltre rischia di costargli molto caro perché, pur essendo ad un passo in termini di percentuale di realizzazione dallo stare nel club del 50%-40%-90%, rischia di non potersi qualificare per via dei troppi pochi tentativi ai liberi rispetto a chi ne fa parte. E rientrare in questo club, per una volta, sembra interessargli come legacy personale: “So che Steph e KD sono entrati nel club dei 50-40-90, quindi vorrei entrarci anche io. Sarebbe bello”.
Per riuscirci deve puntare di più il canestro nei minuti senza Steph e KD.
Un altro aspetto sottovalutato di Thompson — anzi, forse il più sottovalutato — è quello mentale, in particolar modo dal punto di vista della concentrazione, perché è proprio quella che porta alla creazione dei parziali in cui va on-fire e sembra poter mettere la palla da qualsiasi posizione contro qualsiasi contesto. Klay durante la partita sembra entrare in una sorta di concentrazione zen estraniata dal resto del mondo, che lo porta come nessun altro sia a difendere come uno specialista che al fenomeno della mano calda. A rendere ancora più misteriosa questa sua “Modalità Klay” c’è il fatto che non sappiamo bene come faccia a raggiungerla: per quanto, nel rapporto con lo sport che si pratica, conti tantissimo il tipo di persona che si è, del Klay Thompson persona sappiamo veramente poco.
Un personaggio non-personaggio
E sappiamo veramente poco perché lui vuole farci sapere poco. Sappiamo ad esempio del suo amore per il suo cane Rocco, la figura che più gli manca durante le trasferte in stagione, l’unico personaggio sempre presente sui social network quando non si tratta di basket. Sappiamo che gli piace bere latte e cacao, che non vuole giocare ai videogiochi per paura di “rimanerci sotto”, che adora gli scacchi (il suo gioco preferito da sempre e che gioca ora in aereo con il compagno Andre Iguodala) e che odia il Gatorade. Abbiamo visto che non si fa problemi a mangiare in conferenza stampa perché, dice, “nutrirsi è una necessità”, e che se capita può scapparci anche una birretta.
Sappiamo che il suo rituale pre-partita per entrare concentrato è sfogliare il periodico del giorno negli spogliatoi, un consiglio di sua madre per togliere la distrazione da social network e farlo rilassare entrando proprio in quel mondo tutto suo che poi vediamo in campo. Questo lo sappiamo perché ce lo dice lui: Thompson ci vuole far vedere di essere una persona genuina a cui non interessa la creazione di un brand personale, eppure forse proprio questo è il suo brand — un personaggio quasi goffo nei rapporti con il mondo esterno e privo di qualsiasi interesse nel mostrarsi più di quello che è. Per chi lo conosce solo come il giocatore che è in campo e non ha tempo di seguirlo nelle surreali interviste in cui si interrompe mentre per pensare ad altro o perché ha visto il carrello del cibo arrivare, “China Klay” — com’è stato soprannominato il suo goffo alter ego fuori dal campo nel viaggio estivo in Cina per promuovere le sue scarpe — può essere una buona guida da cui partire. Sono diventati di culto i suoi video in cui ha passato l’estate sbagliando schiacciate, perdendo gare di flessioni e braccio di ferro con ragazzini che pesano la metà di lui e mattoni su mattoni al ferro nelle partitelle al campetto davanti a orde di ragazzi estasiati. Sempre con un sorriso disinteressato e l’aria di chi si sta godendo una vacanza più di chi sta promuovendo la principale fonte dei suoi guadagni per il prossimo lustro.
Se sul campo c’è la ripetizione estenuante per arrivare alla perfezione, fuori non è esattamente così.
A volte si rimane quasi esterrefatti davanti alla franchezza delle sue risposte che sembrano quasi essere un auto-sabotaggio, come quando durante i giorni dell’incontro per convincere Durant ad unirsi agli Warriors gli scappò che tanto, Durant o meno, i suoi tiri durante le partite se li sarebbe presi lo stesso — non certo per arroganza, ma semplicemente perché era quello che pensava in quel momento. La cosa poi effettivamente si sarebbe rivelata vera: Thompson ha avuto lo stesso identico numero di tiri dopo l’arrivo di Durant rispetto a quanto succedeva prima, ma una dichiarazione del genere è lontana anni luce da quelle un po’ di facciata e un po’ di genuina riverenza che tutte le altre franchigie facevano filtrare per convincere KD ad arrivare da loro.
Gli ultimi mesi sono stati un tripudio del Klay Thompson uomo totalmente fuori dagli standard della lega. Il punto più alto è stato raggiunto quando, mentre passeggiava per New York, ha ricevuto una richiesta di intervista da una giornalista tv che — evidentemente non riconoscendolo — gli voleva chiedere cosa ne pensasse delle impalcature fuori i palazzi, visto che recentemente c’era stato un incidente che le riguardava. Thompson da attore consumato non ha fatto una piega, rispondendo che solitamente ci faceva caso e che ogni tanto quando sembrano vecchie preferisce evitare di passargli sotto. Come un qualsiasi uomo del popolo. (Se vi state chiedendo cosa ci fosse in sovrimpressione sullo schermo mentre parlava di impalcature la risposta è “Klay Thompson, giocatore NBA”). Ridendo e scherzando i giornalisti il giorno dopo gli hanno chiesto come mai si è prestato all’intervista e lui con faccia seria ha risposto che gli interessava essere un cittadino attivo della comunità. L’intervistatrice non sapeva chi fosse, e questa cosa per lui è stata fantastica.
Ovviamente questo sua atteggiamento poco in linea con i tempi in cui viviamo di attenzione alla costruzione ermetica di figure da poter trasformare in brand trasversali non deve essere confuso con menefreghismo verso la propria carriera. Al contrario, in ogni intervista con una prospettiva più ampia Klay Thompson fa emergere una grande ambizione, ma semplicemente sembra voler arrivare a certi obiettivi a modo suo, come quando ha risposto ai paragoni tra questi Warriors e i Bull degli anni ’90: “Siamo a un terzo di quell’impresa [due titoli vinti contro i sei di Jordan & co. ndr]. Ci siamo vicini, ma allo stesso tempo abbiamo ancora parecchia strada da percorrere: essere paragonati a quella squadra è sicuramente un onore, è successo soprattutto due anni fa, quando abbiamo raggiunto il record delle 73 vittorie stagionali. È stato bello, ma non possiamo dire di essere ancora a livello di quella squadra: agli occhi dei tifosi NBA di oggi vogliamo essere per gli anni 2000 quello che i Bulls sono stati negli anni ’90”.
Sembra ormai chiaro che, per il tipo di giocatore che è e per il tipo di persona che sembra essere, Klay Thompson si trova in quello che è il migliore dei mondi possibili per lui: un ambiente ambizioso ma in cui ognuno viene portato a dare il meglio in quello che sa fare, dove non ci sono compagni migliori e non esiste filosofia di gioco migliore di quella degli Warriors per il tipo di giocatore che è lui. Ovviamente lui stesso è uno dei maggiori responsabili della creazione di questo contesto, è innegabile, ma questo contesto così perfetto porta anche alla difficoltà di estrapolarne il valore in senso assoluto. A lui però di tutto questo non sembra interessargli: l’idea di essere la stella assoluta di una franchigia non sembra interessargli perché preferisce pensare alla squadra come la somma di tanti piccoli contributi per raggiungere un risultato comune. Per questo l’idea che possa lasciare gli Warriors per passare da quarto miglior giocatore a stella assoluta non sembra fare parte del suo percorso. E lo ha detto chiaramente ogni volta che gli è stato chiesto.
Sono cose che possono cambiare in un istante, ma che comunque lui le dica in modo così aperto, visto il personaggio di cui stiamo parlando, significa che un fondo di verità deve esserci. Come quando dice che per lui non sarebbe un problema firmare un contratto meno sostanzioso per permettere a questi Warriors di rimanere intatti: “Sono solo un po’ di milioni di differenza, sarebbe una benedizione qualsiasi contratto firmassi. Lo considererei sicuramente perché non voglio perdere nessuno di questo gruppo”. E forse questo nasce proprio dalla sua consapevolezza di trovarsi nel posto giusto al momento giusto per il suo gioco: “Non mi sento per niente sacrificato: preferisco fare parte di qualcosa che possa entrare nella storia. Il basket è qualcosa di più che fare i propri punti e essere il maschio alfa. Spero di continuare a fare quello che faccio per molto tempo”.
Nessuna squadra è in grado di esaltare Klay quando sente la mano calda come gli Warriors, e questo lui lo sa. Anche le cose che forse non esistono possono portare a segnare una carriera.