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NBA, Stockton to Malone, gioia e ripetizione

NBA

Dario Costa

Karl Malone e John Stockton, 18 stagioni insieme in NBA (foto Getty)

Come John Stockton e Karl Malone hanno scritto, insieme, pagine di storia della NBA - senza vincere il titolo, ma costruendo il DNA di un’intera franchigia.

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Il modo in cui il cervello umano risponde alla reiterazione dello stesso stimolo è uno dei fenomeni più studiati dalle neuroscienze moderne, le cui applicazioni pratiche variano dalle tecniche di meditazione alle campagne di marketing virale fino all’elettronica minimalista suonata nei club più all’avanguardia. L’effetto diffuso è l’assimilazione di movimenti, concetti o suoni che, dopo un certo numero di ripetizioni, diventano quasi automatici.

Per i fanatici NBA, e in particolare per i tifosi degli Utah Jazz, il ventennio trascorso da metà anni Ottanta a metà anni Duemila ha rappresentato un lungo, irripetibile esperimento di suggestione neurologica effettuato dai dottori John Houston Stockton e Karl Anthony Malone. O, più banalmente, ogni partita giocata da Utah in quei vent’anni scarsi si è trasformata in una sempiterna gag di Stanlio e Olio: impossibile fare zapping senza inciampare in uno dei loro sketch, sempre identici, eppure capaci di strappare ogni volta un sorriso. Allo stesso modo, per diciotto stagioni è stato inevitabile incrociare le due stelle degli Utah Jazz intente a praticare la nobile arte del pick and roll sui parquet della lega. 

A ben vedere, il parallelo con Stan Laurel e Oliver Hardy non si limita a questo, perché in fondo anche il duo comico non ha mai raggiunto un successo di critica, esattamente come a Stockton-to-Malone è sempre mancata la zampata decisiva per sigillare un’era straordinaria. E ciò che Charlie Chaplin è stato per Laurel e Hardy, ovvero un ingombrante contemporaneo al cui cospetto ogni tentativo di slapsitck comedy risultava pedestre, si è tramutato in Michael Jordan, muro invalicabile frappostosi tra grandezza e immortalità sportiva per Stockton e Malone.

Qui non ci sono piogge di coriandoli e trionfanti pianti liberatori, ma questo nulla toglie alla portata storica dei tre lustri abbondanti vissuti insieme. Una saga davvero unica, messa in scena grazie al verificarsi di un complesso incrocio di destini, persone e luoghi. Per provare a coglierne l’eccezionalità è forse utile partire proprio dall’ambientazione, perché la storia di Stockton to Malone non è una di quelle che sarebbero potute succedere ovunque.

Cosa fare a Salt Lake City quando sei morto

L’entusiasmo per il basket, nella Salt Lake City di metà anni Ottanta, è tanto stabile quanto contenuto. Le prime cinque stagioni dei Jazz, trasferitisi nello Utah da New Orleans per volontà del proprietario Sam Battistone, sono state tutt’altro che memorabili. Si gioca al Salt Palace, sorta di centro congressi riadattato ad arena sportiva, l’affluenza di pubblico è discreta ma i risultati latitano. Il front office della franchigia si contraddistingue per mosse non proprio lungimiranti, come il taglio di Pete Maravich, arrivato ormai a fine carriera ma comunque attrattiva straordinaria per i famelici appassionati locali, e la cessione di Dominique Wilkins, appena scelto al Draft e scambiato con Atlanta sulla base di meri calcoli al risparmio. Tuttavia, la squadra, che ha in Adrian Dantley il punto focale, riesce a raggiungere per la prima volta i playoff al termine della stagione 1983-84. L’uscita al secondo turno per mano dei Phoenix Suns è la prima, modesta soddisfazione regalata ai tifosi di casa. Si replica l’anno successivo, quando sono i Denver Nuggets a sbarrare la strada che porta verso la finale di conference. 

L’estate che segue, quella del 1985, a Salt Lake City come nel resto degli Stati Uniti, è caratterizzata dallo strepitoso successo al botteghino di Ritorno al Futuro. Uscita il 3 luglio, la pellicola rimarrà in testa alle classifiche degli incassi per undici settimane consecutive, lanciando nella stratosfera hollywoodiana le carriere di Robert Zemeckis e Michael J. Fox e riportando in auge la tematica del viaggio nel tempo. Se oggi fosse possibile salire a bordo della DeLorean usata da Michael J. Fox/Marty McFly e tornare proprio a quell’estate, proprio a Salt Lake City, sarebbe curioso aggirarsi tra le strade e chiedere ai passanti “come ti immagini la stella ideale per gli Utah Jazz?”. I supporter locali, espressione di quel particolare connubio tra religione mormone ed etica Midwest ereditata dai pionieri fondatori della città, avrebbero risposto senza esitazioni. “Un tipo tosto, senza fronzoli, tutta sostanza, dedizione ed etica lavorativa”. Niente Magic Johnson o Doctor J, insomma, con il loro glamour e codazzo mediatico più adatto alle grandi metropoli del paese. 

Per una volta Salt Lake City, località non proprio baciata dalla fortuna quanto a collocazione geografica e clima, non poteva immaginare quanto il destino fosse pronto ad esaudire i suoi desideri. Così come i due ragazzi arrivati nello Utah a cavallo delle ultime due off-season, pescati in quella zona grigia del Draft tra la posizione 10 e la 20, non erano certo in grado di figurarsi il domani. La città edificata sul grande lago salato si apprestava a divenire scenario perfetto per lo sviluppo delle rispettive carriere, unite per sempre da un filo che nemmeno le più cocenti delusioni sarebbero state in grado di spezzare.

Ordinario anticonformista

Tra le qualità che hanno contraddistinto la figura di John Wooden, guida illuminata di UCLA per quasi un trentennio, non compare la predisposizione ad elogiare in pubblico i giocatori, soprattutto  quelli allenati da lui (citofonare Kareem Abdul-Jabbar per conferme). Una delle rarissime eccezioni alla sua proverbiale ritrosia l’ha però riservata a John Stockton, definendolo “il giocatore che più amo veder giocare e l’unico per cui valga davvero la pena pagare il biglietto”. Non che i due, Wooden e Stockton, abbiano mai avuto rapporti diretti, eppure il motivo di tanta stima da parte del decano degli allenatori del college basketball è presto spiegato. Il playmaker dei Jazz ha rappresentato l’ostinata resistenza alla spettacolarizzazione del basket in un periodo storico, gli anni Ottanta e Novanta, durante il quale l’NBA è diventata lo showbiz sportivo per eccellenza. Nelle sue diciannove stagioni da professionista, Stockton non ha mai modificato lo stile di gioco solido ed essenziale. Quel modo di stare in campo, che spesso l’ha fatto sembrare un corpo estraneo rispetto a pari ruolo vere e proprie macchine da highlights come Magic Johnson e Isaiah Thomas, ha finito per diventare il suo marchio di fabbrica, unico e inconfondibile. 

Le testimonianze del quadriennio a Gonzaga sono rare e frammentate, ma c’è da scommettere che già al college John avesse elaborato una visione nitida del suo futuro in canotta e pantaloncini. Le cifre raccolte durante l’esperienza nell’ateneo della città natale, Spokane, confermano come lo stampo fosse già piuttosto definito. Stockton è stato il primo giocatore a raggiungere quota 1.000 punti e 500 assist nella storia dei Bulldogs, chiudendo la sua ultima stagione a 20.9 punti e 7.2 assist di media. E quei numeri, seppur significativi, finiscono per diventare un mero prologo a quella che sarà, dal punto di vista statistico, una delle più incredibili carriere di sempre: leader assoluto per assist (15.806) e palle rubate (3.265), titolare di primati irraggiungibili per chiunque altro. Stockton, inoltre, pur dotato di un fisico in apparenza nella norma, vanta soprattutto un altro record sbalorditivo: in 17 delle 19 stagioni trascorse in NBA ha giocato tutte le 82 partite di regular season. Nemmeno a specimen atletici ai limiti del paranormale come LeBron James è stato possibile avvicinarsi a una tale resistenza. E per quanto sia vero che nella sua lunga e onorata carriera è quasi impossibile scegliere una stagione che ne rappresenti l’apice, è altrettanto innegabile come l’efficienza con cui Stockton ha guidato le sue squadre, da esordiente così come da quarantenne prossimo al ritiro, sia stata impareggiabile. 

Come e più del compagno di mille battaglie Karl Malone, l’ex Gonzaga si è attenuto con scrupolo al copione assegnatogli già al Draft nel giugno 1984. Scelto alla posizione numero 16, la chiamata dei Jazz passava di fatto inosservata per via della contemporanea presenza dei vari Hakeem Olajuwon, Michael Jordan e Charles Barkley. Il rimanere lontano dalla luce dei riflettori non è d’altronde mai stato un problema per Stockton, che del basso profilo ha fatto la propria cifra stilistica. La sua ritrosia nei confronti dei media è stata seconda solo alla modestia nello stile di vita, testimoniato da un episodio del suo anno da rookie a Salt Lake City. All’epoca Stockton, preoccupato che la sua avventura da professionista potesse durare lo spazio di una stagione o poco più, aveva deciso di vivere in uno spartano monolocale poco lontano dal campo d’allenamento dei Jazz. Il primo, ponderato strappo all’ascetismo che il futuro Hall of Famer si concederà sarà un televisore, acquisto effettuato a fine gennaio e motivato dal diretto interessato con uno sbrigativo “altrimenti non avrei saputo dove guardare il Super Bowl”. 

L’atteggiamento modesto, mai fuori dalle righe e il rilievo dato alla vita famigliare hanno inoltre alimentato il feeling con la comunità mormone, costruendo un rapporto di solida stima reciproca (anche se il diretto interessato non ha mai fatto mistero della propria fede cattolica). Tuttavia, il fatto che John Stockton abbia alimentato, dentro e fuori dal campo, l’immagine di ordinary man non deve fuorviare rispetto alla vera natura e al valore del John Stockton giocatore e uomo. Al di là delle eloquenti cifre messe a referto con mostruosa continuità, visto nella prospettiva storica dell’evoluzione intrapresa dal basket Stockton appare giocatore molto più moderno di quanto normalmente considerato. 

Tiratore da 38.4% da tre in carriera, il playmaker di Spokane è stato portatore sano di una concezione altruistica del gioco che oggi contraddistingue i Golden State Warriors, modello inseguito da tutta la lega. La sua capacità di coinvolgere i compagni, inoltre, si accompagnava ad abilità spesso sottovalutate. A dispetto del fisico, come detto del tutto nella norma, Stockton era sapeva usare i gomiti come pochi altri, mordendo in difesa e portando blocchi granitici a favore di compagni in attacco, caratteristica che oggi condivide Steph Curry, prototipo dell’attuale interpretazione del ruolo. E fuori dal campo, ben nascosto sotto quell’aspetto ostinatamente dozzinale, Stockton ha custodito con cura un senso dell’umorismo emerso in rare, fulminanti occasioni. Da questo punto di vista, il picco della sua carriera è senza dubbio quello registrato sulle ramblas di Barcellona. Nel bel mezzo del delirio mediatico che accompagnava la spedizione del Dream Team alle Olimpiadi del 1992, la passeggiata in cui il playmaker dei Jazz attraversa la principale arteria turistica della città accompagnato dalla famiglia trollando, come si direbbe ora, i tanti tifosi che incrocia rimane, a un quarto di secolo di distanza, un capolavoro di auto-ironia. 

E sempre a proposito di auto-ironia, il discorso tenuto alla cerimonia per il suo ritiro, se non vale la performance in terra catalana, ci va molto vicino. Di fronte a un Delta Center grondante di solenne commozione, Stockton cita il consiglio ricevuto dal suo primo coach ai Jazz, Frank Layden: non cambiare una virgola della persona che sei, anche se adesso sei diventato un giocatore professionista. Quello che può sembrare l’incipit di un’egocentrica celebrazione si rivela subito pretesto per scherzare sulla sua relativa aderenza alle mode del momento, nel vero senso della parola. “In effetti non ho cambiato niente, nemmeno la lunghezza dei miei pantaloncini”. E proprio i pantaloncini di Stockton, rimasti identici nonostante lo stile in voga suggerisse di variare lunghezza e taglia, sono forse il metro con cui misurarne lo status di figura storica, icona così ordinaria da diventare anticonformista. 

Il ragazzo di campagna

Cresciuto nella profonda Louisiana rurale, porzione d’America dove a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta il concetto di progresso aveva le sembianze di un suppellettile esotico, Karl Malone non ha mai fatto mistero di amare caccia, pesca e più in generale qualsiasi attività all’aria aperta. L’ala dei Jazz, insomma” è sempre stato un tipo pratico e, qualora decidesse un giorno di stendere la propria autobiografia, il titolo potrebbe essere Il manuale Karl Malone, ovvero “come diventare il secondo marcatore di sempre della NBA, vincere due volte il titolo di MVP, avere al collo due medaglie d’oro olimpiche e non rientrare mai nelle discussioni sul miglior giocatore ogni epoca”. Perché se esiste un tratto che unisce la carriera di Malone, dagli esordi a Louisiana Tech fino all’introduzione nella Hall Of Fame di Springfield, è proprio la difformità tra il rendimento in campo e l’apprezzamento da parte di tifosi e addetti ai lavori. 

Snobbato al Draft del 1985 per via della ridotta esposizione mediatica attirata in maglia Bulldogs (sì, il nickname della squadra al college è identico a quello della Gonzaga di John Stockton), Karl Malone ha costruito la sua scalata da quella tredicesima scelta fino al gotha del gioco su una prerogativa ineguagliabile: la continuità. Le cifre, anche in questo caso, parlano da sé: 1.476 partite giocate, di cui 1.471 partendo in quintetto (record ogni tempo), 25 punti e 10 rimbalzi di media. Nelle sue 18 stagioni a Utah Malone ha saltato tante partite quante le dita che si contano sulle sue mani. Eppure, al di là dell’incontestabile portata dei numeri, il nome di Karl Malone non compare davvero mai nelle discussioni su chi sia il migliore ogni epoca, faticando molto spesso a rientrare nelle prime quindici posizioni. Il motivo di una così scarsa considerazione è difficile da spiegare, anche se le crepe nel calco che vorrebbe il faccione di Malone pronto per il monte Rushmore del gioco, a ben vedere, sono evidenti. 

A dispetto delle cifre che ne testimoniano la capacità di mantenere alto il livello delle prestazioni anche nella post-season (24.7 punti e 10.7 rimbalzi le sue medie in carriera), la percezione della grandezza di Malone nei momenti importanti rimane segnata da due episodi, maturati in frammenti cruciali delle apparizioni alle Finals. Prima i due liberi sbagliati in Gara-1, poi persa, delle Finali 1997, quando sul cronometro mancavano 9.2 secondi, il punteggio era in perfetta parità e il sibillino Pippen gli ha ricordato che “il postino non consegna di domenica” (giorno della settimana in cui si giocava la gara).  Passaggio a vuoto raddoppiato e replicato dodici mesi più tardi, con la palla persa e rubata da Jordan che poi andrà a siglare l’iconico canestro della vittoria sigillando il finale di Gara-6.

E se il fatto di essere inciampati proprio all’ultimo miglio prima del traguardo rappresenta un destino comune a diverse altre stelle della storia NBA, la severità di giudizio applicata ai fallimenti di Malone è probabilmente stata influenzata dalla sua inadeguatezza nel creare e mantenere relazioni proficue con l’ambiente che lo circonda, dai compagni agli avversari fino alla stampa. L’ala dei Jazz, anche in quest’ottica prodotto delle sue origini rurali, non si è difatti mai contraddistinta per l’esercizio della diplomazia o per l’abilità nel dire la cosa giusta al momento giusto. In tal senso, l’equivalente dei passaggi a vuoto nelle Finals potrebbero essere due uscite alquanto infelici formulate a distanza di dieci anni una dall’altra. Lo scetticismo, all’epoca del tutto fuori dal coro, espresso a inizio stagione 1992-93 nei confronti del rientro in attività di Magic Johnson, reduce dall’annuncio della sua sieropositività, non gli ha di certo attirato le simpatie di pubblico e colleghi, anche se il capolavoro che definisce meglio la sgangherata comunicativa di Malone risale al suo ultimo anno da professionista speso a Los Angeles sponda Lakers. Arrivato nella città degli angeli, l’ex-Utah ha maturato la brillante idea di flirtare con eleganza (“Sai perché indosso spesso stivali e cappello da cowboy? Perché sono sempre a caccia di ragazzine messicane…”) nientemeno che con Vanessa Laine, giovane proprio di origini messicane e, soprattutto, moglie di Kobe Bryant. 

Aggiungete al quadretto il particolare che A) lo spogliatoio gialloviola quella stagione era più che mai l’archetipo della polveriera pronta a esplodere allo minima scintilla e B) a Hollywood quel tipo di gossip è il materiale grazie al quale i media cittadini prosperano, e otterrete le dimensioni della fesseria che contribuirà a minare i già fragili equilibri di quei Lakers sull’orlo di una crisi di nervi. Non bastassero queste due performance poco edificanti, le ripetute dichiarazioni pubbliche rilasciate a favore del Partito Repubblicano e della NRA, nonché l’appassionata partecipazione al mondo del wrestling, compendio di un’appartenenza ideologica piuttosto in controtendenza rispetto al resto della lega, hanno contribuito a limitare parecchio l’indulgenza riservata a Malone nel corso degli anni. A dire la verità, esiste anche un terzo motivo a cui ricondurre la relativa popolarità di Malone, quest’ultimo non ascrivibile ai limiti del giocatore o dell’uomo. Prototipo della power forward classica, tutta tiri dalla media distanza, attacchi al ferro e gioco spalle a canestro, l’evoluzione del gioco ne ha di fatto reso obsolete le qualità nel breve volgere di un decennio.

In quest’ottica è quindi comprensibile come, a distanza di anni dal ritiro, contemporanei come Jordan, Barkley o anche lo stesso compagno d’avventura Stockton, vengano tutt’ora presi come metri di paragone per le nuove leve, laddove l’appellativo di “nuovo Karl Malone” rimane probabilmente sospeso nelle conversazioni tra patiti dei Jazz nostalgici del tempo che fu. Infine, a pesare sul ricordo collettivo di Malone c’è quell’ultimo, disperato e mal riuscito tentativo di coronare il sogno di mettersi un anello al dito. Anche in questo caso, a ben vedere, c’è poco da addebitare al giocatore. Conclusa l’avventura ai Jazz con il ritiro di Stockton, i Lakers di Shaq e Kobe rappresentavano un’occasione quasi irrinunciabile di provare a sanare quella ferita così dolorosa per uno spirito competitivo come Malone. Solerte nell’adattarsi al ruolo, decisamente più marginale rispetto alle abitudini maturate durante le diciotto precedenti stagioni, l’ironia della sorte vuole che Malone, fin lì estraneo a qualsiasi problema fisico, s’infortuni proprio all’ultimo giro di giostra: 39 partite saltate durante la regular season e soprattutto la ricaduta in Gara-3 delle Finals che lo toglierà dalla contesa persa malamente coi Detroit Pistons. E a proposito d’ironia della sorte, pochi mesi dopo, Cheryl Ford, figlia avuta quando era ancora 17enne dalla donna che però non sarebbe mai diventata sua moglie (e con cui avrebbe ingaggiato una lunga battaglia legale per il riconoscimento della paternità), vincerà, lei sì, il titolo di campione WNBA. E dove se non nella mai tanto detestata Motor City, con la maglia delle Detroit Shock? Anche il destino, insomma, non è stato troppo clemente con Karl Malone, concorrendo a plasmarne la carriera, allo stesso tempo così lineare eppure così contraddittoria.

Tuttavia, la summa definitiva del personaggio Karl Malone potrebbe trovarsi, molto più banalmente, nel soprannome guadagnato grazie alla stabilità delle sue prestazioni sul parquet. “The Mailman", il postino, perché Malone ha consegnato il pallone nel canestro, sera dopo sera, stagione dopo stagione. Per quanto senz’altro azzeccato, va da sé come l’appellativo abbia ben poco a spartire con la magniloquenza dei vari “His Airness”, “The Dream”, “The Admiral” o con il fascino minaccioso di un “The Worm” o “The Round Mount of Rebound”, tanto per limitarsi ai suoi contemporanei. In quel soprannome, così allusivo eppure così poco intrigante, sta forse la vera essenza dell’ala dei Jazz. Perché così come a nessun bambino viene da rispondere “il postino” alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?”, è davvero arduo scovare una stella nascente della NBA che citi Karl Malone come fonte d’ispirazione.

Stockton-to-Malone

L’esperimento, del tutto empirico, potrebbe essere quello di applicare le statistiche avanzate alle 18 stagioni che Stockton e Malone hanno trascorso insieme con la maglia degli Utah Jazz. Soltanto queste metriche, non disponibili mentre la loro storia si dipanava, potrebbero davvero rivelare quanto le carriere dei due non si siano solo sovrapposte, andando oltre il concetto di armonia tattica per creare un affiatamento difficile da tradurre in parole che non risultino stucchevoli. Quanti dei 25 punti a partita di Malone sono riconducibili ad assistenze di Stockton? E viceversa quante delle 3.265 palle rubate da Stockton sono frutto di raddoppi difensivi forzati da Malone? La lista delle ipotetiche curiosità statistiche sarebbe infinita, ma, in assenza di dati che confortino la tesi, ci si può basare solo sull’impressione visiva. Osservare Stockton e Malone calcare i parquet di tutta l’America lungo due decenni è stato uno spettacolo — magari non dei più esaltanti, ma di certo caratteristico come pochi. La sincronia creatasi tra i due era evidente in ogni aspetto del gioco, ma la sublimazione di quell’intesa rimane senza dubbio la pratica del pick and roll. Quel gioco a due, soluzione tattica che negli anni sarebbe diventata l’alimento base di ogni dieta offensiva NBA e non solo, ripetuto all’infinito, sempre uguale a sé stesso, eppure sempre efficace. Come il rientro sul piede sinistro di Arjen Robben, l’illusoria partenza lenta sui 100 metri di Usain Bolt o il rovescio a una mano di Roger Federer: tutti marchi di fabbrica consolidati a cui si presuppone gli avversari avrebbero dovuto trovare da tempo contromosse adeguate e che invece continuano a mietere vittime senza apparente possibilità di scampo.

John & Karl in “La nobile arte del pick and roll”.

E se il perfezionamento dell’esemplare impiego del pick and roll è senz’altro il contributo più evidente del duo all’evoluzione del gioco, ridurre l’impatto che Stockton e Malone hanno avuto sull’NBA a quel particolare sarebbe ingeneroso. I due, infatti, possono ascriversi un merito che pochissime altre stelle, magari ben più celebrate, vantano nel loro curriculum: aver creato l’identità di un’intera franchigia. Prima che Stockton e Malone prendessero per mano la squadra traghettandola stabilmente nell’élite della lega, i Jazz erano il goffo prodotto del trapianto forzato da New Orleans e il nome della squadra rimaneva quanto di più distante dallo spirito cittadino. 

Invero, l’opera di forgiatura identitaria porta una terza, autorevole firma. Jerry Sloan, assistente fino al 1988 e poi capo-allenatore di Utah per i successivi 23 anni, ha ricoperto un ruolo decisivo nella svolta intrapresa dalla franchigia. Con Sloan in panchina, sulle spalle delle sue due stelle, la squadra ha conquistato la città tanto che, nel 1991, si è dovuto traslocare dal Salt Palace — ormai insufficiente, con i suoi 12.000 posti a sedere, ad accogliere l’entusiasmo del sempre crescente seguito —, verso l’appena ultimato Delta Center. Il nuovo palazzo, dalla capienza quasi raddoppiata rispetto alla sistemazione precedente, registrerà un perpetuo sold out per gli anni a venire. Non solo: il pubblico del Delta Center riempirà di senso l’espressione “fattore campo”, diventando uno dei più temuti e detestati dagli ospiti. E la sintonia tra pubblico e squadra sarà pressoché perfetta, perché la creatura modellata da Sloan fa della durezza, mentale e fisica, il proprio mantra. 

I Jazz di quegli anni sono una squadra pragmatica, feroce nell’applicazione del piano partita in ogni singola azione, che rifugge il numero ad effetto e l’improvvisazione come se fosse una malattia contagiosa. Anche in questo senso Stockton e Malone guidano il gruppo per etica lavorativa, cattiveria e coerenza nelle scelte operate in campo. Ad ogni training camp i due fanno a gara per chi si presenta più in forma, frutto di estati trascorse in palestra e a correre tra i boschi anziché su spiagge assolate e in pulsanti nightclub. Niente viene lasciato al caso o concesso allo spettacolo e in quanto a fisicità e trattamento riservato agli avversari, i due non sono molto distanti dai Bad Boys di Detroit, anche se godono di una nomea meno marcata. Persino il premio di co-MVP dell’All Star Game casalingo, vinto nel 1993, viene vissuto come un cerimoniale superfluo anziché come una vera e propria consacrazione

Questa impostazione rigorosa e professionale rimarrà il segno distintivo dei Jazz anche dopo l’addio al gioco delle due stelle, con Sloan a garantire la continuità fino alle dimissioni rassegnate nel febbraio 2011, al termine di un lungo dramma shakespeariano con Deron Williams e il front office a recitare la parte dei cospiratori annidati tra le mura amiche. Certo, questa impostazione non ha regalato il tanto anelato Larry O’Brien Trophy, di cui è stato possibile solo intravvedere il luccichio dietro al cancello sorvegliato da Jordan e Pippen. Le successive teoriche reincarnazioni del duo, buon ultima quella di Gordon Hayward e Rudy Gobert, non hanno nemmeno sfiorato i livelli raggiunti dal modello originale. Tuttavia questo non può ridimensionare l’importanza che quella squadra ha avuto sul destino della franchigia: l’eredità delle stagioni in cui Stockton e Malone hanno rappresentato un simulacro per la gente di Salt Lake City, d’altro canto, va ben oltre la pallacanestro.

Chiamami col tuo nome, versione Utah

Travalicare i confini dello sport per entrare a pieno diritto nella cultura popolare è un’impresa riuscita a pochi, anche in un contesto come quello americano alla continua ricerca di miti (e affari) da costruire. Per un Muhammad Ali e un Joh McEnroe che diventano icone e trascendono l’evento sportivo, ci sono migliaia di atleti che rimangono patrimonio del gruppo di appassionati, ristretto o meno, che segue le rispettive discipline. Ciò che di solito contraddistingue queste icone, oltre alla capacità comunicativa fuori dal comune, sono i successi agonistici, un medagliere ben fornito e possibilmente qualche impresa epica portata a termine per conquistare questi successi. Perché l’aurea di vincente è fondamentale, partendo dal presupposto che vincere è l’obiettivo principale della competizione sportiva. 

Le eccezioni sono rare — anzi, quasi inesistenti. E pur considerando come la NBA degli ultimi decenni si sia dimostrata maestra nel promuovere le proprie stelle al di là dei risultati concreti ottenuti, l’impatto avuto dal duo Stockton-Malone rimane comunque sorprendente a tre lustri di distanza dal ritiro. Più che le loro singole personalità, spesso snobbate per i motivi elencati in precedenza, è il concetto di duo, anzi proprio di Stockton-to-Malone ad essersi insinuato nella cultura popolare americana. L’espressione ha così assunto un valore simbolico e viene utilizzata come sinonimo di “qualcosa di automatico, un meccanismo oliato”, anche se l’Urban Dictionary — come sempre — gli affida pure altri, bizzarri utilizzi. Ma se l’utilizzo dell’espressione Stockton-to-Malone è obiettivamente in uso tra chi ha quantomeno una vaga familiarità con l’NBA, il concetto è stato nel corso degli anni preso a prestito anche da realtà che con la pallacanestro hanno poco o niente a che vedere. 

The Jacobin, magazine espressione della sinistra radicale americana, ha per esempio deciso di intitolare proprio Stockton-to-Malone uno dei suoi podcast più ascoltati. Trattandosi pur sempre di una storia americana, lievitata nella patria del capitalismo, scorrendo tra gli utilizzi, propri e impropri, si passa poi al bieco utilizzo commerciale. Come quello di un rivenditore d’auto di Sandy, mezz’ora dall’arena in cui giocano i Jazz, che ha deciso di chiamare proprio così la sua attività. Non è dato sapere se il tentativo di sfruttare la passione dei tifosi locali abbia pagato dividendi significativi, quel che è certo è che ha lasciato il segno in taluni più che in altri. Ne sa qualcosa Stockton Malone Shorts che, a differenza di quanto si potrebbe immaginare, non è un grossista di pantaloncini che usa il nome dei campioni per farsi pubblicità. Si tratta invece di un ragazzo in carne e ossa, classe 1998, che gioca nella squadra della Copper Hill High School di West Jordan, a sud di Salt Lake City. I genitori, tifosissimi dei Jazz, gli hanno dato quel nome per compensare forse il dolore derivante dalla più bruciante delle delusioni. Stockton Malone, infatti, è nato quattro mesi dopo le seconde Finals perse contro i Bulls, a distanza di centoventi giorni dal celeberrimo tiro di Jordan che ha spedito il Delta Center nel profondo di un incubo e i Bulls nella valhalla del gioco. E in fondo, parte dell’eredità lasciata da Stockton e Malone ha anche aiutato a trovare il modo di convivere con quel ricordo doloroso.

La macchina del tempo

Come detto in premessa, certe cose possono succedere solo in determinati posti. L’indole di un luogo è fondamentale per permettere che qualcosa di particolare accada, qualcosa che altrove sarebbe del tutto impensabile. Celebrare una squadra che non ha vinto alcun titolo? In un sistema iper-competitivo come quello dello sport americano e della NBA in particolare sembrerebbe un’iniziativa del tutto priva di senso. Eppure a Salt Lake City l’hanno fatto: nel giugno dello scorso anno, a vent’anni esatti dal loro primo accesso alle Finals, i Jazz hanno riunito il gruppo che fece l’impresa dopo tre finali di conference perse consecutivamente. Ai margini della celebrazione avvenuta sul parquet della Vivint Smart Arena, versione ammodernata del mitico Delta Center, è stata messa in scena una vera e propria rievocazione storica. Il celebre tiro da tre punti contro i Rockets che spediva la squadra nell’esclusivo club delle finaliste è stato replicato con stocktonesca meticolosità. Nonostante l’assenza di Karl Malone, autore del monumentale blocco nell’azione originaria e unica, grave defezione alla reunion, la rimessa di Byron Russell è risultata del tutto identica a quella effettuata sul campo di Houston vent’anni prima e, come ovvio, anche il jumper di Stockton ha chiuso la sua parabola muovendo a stento la retina. Tutto uguale, compreso il rituale di festeggiamento tra Stockton e Russell, ricalcato esattamente su quello, spontaneo, di vent’anni prima.

Ad altre latitudini avrebbero prodotto magliette, poster e qualsiasi altro gadget a immortalare lo “Stock got it!” del leggendario Hot Rod Hundley, commentatore delle partite dei Jazz per oltre trent’anni.

A pochi, tra il numeroso pubblico accorso per applaudire ancora una volta gli eroi del passato, sembrava importare poi molto dell’esito infausto delle successive Finals. Eppure, se fosse possibile riprendere la famosa Delorean e tornare indietro nel tempo, c’è da scommettere che sarebbero in molti a voler mettere mano ad alcuni episodi che hanno finito per negare a quei Jazz il coronamento di un sogno inseguito con testarda passione. Elaborato il lutto sportivo conseguente ai due liberi sbagliati da Malone proprio in Gara.1 di quelle Finals, è probabile che nell’impostare la data sul display della Delorean la stragrande maggior parte dei tifosi di Utah inserirebbe il 14 giugno del 1998, giorno della Gara-6 delle Finals che avrebbero dovuto rappresentare la rivincita, e che invece è una ferita che non si è mai rimarginata. Perché alla storia, che come noto è sempre scritta dai vincitori, sono passati il pallone strappato dalle mani di Malone e il successivo canestro della vittoria di Jordan, mentre la cronaca di quanto labile fosse la differenza tra le due squadre è stata sepolta sotto vent’anni di retorica jordaniana. Resta quindi patrimonio di pochi il fatto che proprio John Stockton, che con 57 secondi sul cronometro aveva segnato gli ultimi tre punti dei Jazz, dopo il celeberrimo canestro di Jordan abbia avuto la concreta possibilità di mandare la serie a Gara-7.

Così è caduta nell’oblio l’opinione, all’epoca piuttosto diffusa, che i Bulls fossero davvero al limite della sopportazione fisica e mentale e l’eventuale bella, da giocare al Delta Center, avrebbe rappresentato con ogni probabilità una montagna troppo alta da scalare. L’obiettivo del viaggio nel passato, quindi, sarebbe quello di spingere quell’ultimo pallone scagliato dalle mani di Stockton pochi centimetri più in là, dentro la retina e non sul primo ferro. Nonostante tutto, l’impressione è che alla fine Jordan, anche in una realtà alternativa modificata dall’intervento di un tifoso Jazz, avrebbe comunque trovato il modo di spezzare i 20.000 cuori accorsi al Delta Center. E allora, più che salire a bordo della Delorean, potrebbe risultare utile proporre un esperimento diverso, partendo da un presupposto che al netto della retorica jordaniana di cui sopra appare ormai acclarato: quei Bulls erano più forti dei Jazz. Jordan poteva contare di fatto non solo su un altro Hall of Famer come Scottie Pippen, in questo caso pareggiando almeno sulla carta il duo Stockton-Malone, quanto su due giocatori come Toni Kukoc, talento cristallino e perfetto incastro a livello di caratteristiche tecniche nel quintetto di Chicago, e Dennis Rodman, forse il miglior difensore dell’epoca moderna. 

Dall’altra parte, il roster a disposizione di Jerry Sloan rispondeva con Jeff Hornacek, eccellente specialista ma ben lontano dalla caratura del supporting cast dei Bulls, e poco altro. In teoria, quindi, sarebbe curioso ipotizzare che le regole contrattuali e il senso comune che regna oggi in NBA fossero attuali anche durante gli anni Novanta e che tra gli All-Star sparsi nelle altre franchigie ci fosse qualcuno disposto a unire le forze con Stockton e Malone per tentare l’impensabile: sconfiggere Michel Jordan. Immaginare in maglia Jazz un Patrick Ewing o un Alonzo Mourning a proteggere il ferro amico o un Reggie Miller o un Mitch Richmond ad aprire il campo con le loro capacità balistiche è però un’esercizio di fantabasket divertente quanto futile. Anche perché, tra i mille cambiamenti a cui la lega è andata in contro negli ultimi due decenni, una cosa è rimasta immutata: nessuna stella andrebbe di sua spontanea volontà a giocare a Salt Lake City.

E in fondo va bene anche così, considerato come tutta la narrativa che ruota intorno ai Jazz rimane costruita sull’essere underdogs e poter contare solo sul duro lavoro e l’impegno. È una storia che continua, perpetuata in giocatori come Donovan Mitchell, e che grazie all’eredità del lavoro di Sloan e dei suoi fedelissimi è entrata nel DNA della franchigia. Quanto agli archetipi di quella storia, i due irraggiungibili antenati, i tifosi di Salt Lake City possono omaggiarne la memoria prima e dopo ogni singola partita casalinga. L’epopea di Stockton e Malone, scolpita nel bronzo proprio fuori dal palazzo che fu teatro delle loro gesta, rimane unica anche in questo. Le due statue, seppur posate a distanza di un anno una dall’altra, sono state progettate per sostare fianco a fianco, ritraendo una scena famigliare a chiunque transiti da quelle parti: Stockton che passa il pallone a Malone. 

Qualora l’omaggio scultoreo non risultasse sufficiente ad avvalorare lo status simbolico assunto dal duo, c’è infine l’ubicazione delle statue: all’incrocio tra la Karl Malone Drive e la John Stockton Drive. Già, perché l’amministrazione comunale non si è limitata a intitolare ai due campioni le arterie che costeggiano il palazzo, è andata parecchio oltre. La modifica parziale imposta alla viabilità della zona ha fatto sì che le due strade si incrociassero, rendendo così Stockton to Malone patrimonio duraturo per l’intera città, rimanendo nel cuore di Salt Lake City per sempre.

In quello dei veri amanti del basket, pur senza aver mai portato a termine la missione titolo NBA, erano entrati già da tempo.