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NBA, l'effetto Sacramento e il disastro infinito dei Kings

NBA

Nicolò Ciuppani

A più di un anno di distanza dallo scambio di DeMarcus Cousins e dopo un mercato estivo inconcludente, i Sacramento Kings non sanno ancora dove andare. 

Normalmente capire se una franchigia NBA si sta muovendo con cognizione di causa o meno è un compito relativamente semplice: basta considerare qual è la loro situazione, dove desiderano arrivare e in quanto tempo e quali strategie stanno adottando per farlo. Ma con i Sacramento Kings, come al solito, queste regole non valgono come per il resto della NBA. La situazione di Sacramento è la più compromessa in NBA e non è chiaro come possano uscirne a breve in modo pulito; allo stesso modo, però, bisogna sottolineare che la squadra riversava in condizioni ben peggiori dodici mesi fa, anche se gli ultimi dieci anni farebbero sembrare qualunque mossa decente fatta dalla dirigenza come qualcosa di sensazionale. L’unica cosa che sembra logico fare per analizzare una situazione così lontana dal contesto delle altre squadre è provare ad analizzare tutti i suoi estremi, sia le luci più accecanti che le tenebre più scure.

Kings of Confusion

Poco più di un anno fa il Reddit dei Kings cambiò la propria grafica e interfaccia diventando un Reddit dedicato al Re Leone, con l’immagine di Simba che capeggiava nel banner in cima alla pagina. I Kings avevano appena scambiato il loro giocatore franchigia, DeMarcus Cousins, per una prima scelta protetta, un rookie di 23 anni e poco altro. Al tempo su l’Ultimo Uomo ci esprimemmo con estrema severità e pochissima lungimiranza sullo scambio, e tutto sommato si può perfino avere il dubbio di esserci andati troppo leggeri. I Kings, infatti, non hanno ottenuto niente che potesse rendere la loro squadra migliore nel breve o nel lungo periodo: Buddy Hield si è rivelato un giocatore molto migliore di quanto non fosse ai Pelicans, ma la sua età già alta (compirà 25 anni a dicembre) rende molto limitato il suo potenziale, e risulta incomprensibile il motivo per cui tiri con meno del 30% da 3 quando parte titolare per invece veleggiare a quasi il 50% quando esce dalla panchina. Nel frattempo Cousins è stato una belva inarrestabile a New Orleans, formando una combo con potenziale notevole con Anthony Davis fino al suo infortunio.

Neanche quotati i 41 punti di DeMarcus Cousins al suo primo ritorno in città da avversario.

Grazie a un altro scambio ignobile avvenuto ormai due anni e mezzo fa, in cui per liberarsi di alcuni contratti inutili (che potevano essere semplicemente tagliati) e avere così spazio per firmare Rajon Rondo, Kosta Koufos Marco Belinelli, il GM Vlade Divac ha ceduto il diritto di scambiare la propria scelta con quella di Philadelphia al Draft 2017 e ceduto senza alcuna protezione quella del Draft 2019. Ovviamente i Kings hanno vinto la lotteria, consegnando a Phila la possibilità di scegliere al terzo posto (poi diventato primo), accontentandosi della quinta scelta spesa su De’Aaron Fox. A completare il Draft i Kings hanno inoltre scambiato la loro decima scelta assoluta, ottenuta dallo scambio con Cousins, per scegliere alla 15 e alla 20 rispettivamente Justin Jackson e Harry Giles.

Jackson è uscito dal college come uno dei giocatori più anziani e per lui si prospettava un ruolo da specialista. Finora la sua stagione è stata piuttosto deludente, non toccando minimamente le percentuali al tiro che lo rendevano pericoloso al college. Giles invece gode solo di luce riflessa dalla sua carriera liceale, poiché ripetuti infortuni e interventi chirurgici invasivi gli hanno fatto saltare due anni di sviluppo, con la seria possibilità ancora in gioco che non potrebbe giocare mai in NBA dati i cronici problemi fisici.

Scambiando la decima scelta per due giocatori, oltre all’evidente problema di non scegliere gente come Donovan Mitchell quando disponibile, i Kings hanno diluito ulteriormente il talento giovane presente a roster. Concludendo lo scorso Draft con la scelta di Frank Mason a inizio secondo giro (praticamente un’altra prima scelta di fatto), i Kings avevano iniziato la stagione con dieci giocatori nel contratto da rookie, un’enormità. Dieci giocatori che quindi necessitavano di giocare il più possibile per migliorare e diventare decenti, ma senza la certezza che qualcuno di loro fosse vagamente valido. Di nuovo la storia della squadra fa brillare anche i giocatori mediocri come delle stelle: Sacramento sceglie in top-10 al Draft da dodici anni consecutivi, riuscendo a scegliere tra questi un solo All-Star. Inoltre da quando è stato pescato DeMarcus Cousins, i Kings hanno scelto sei volte in lotteria, prendendo Jimmer Fredette (attualmente in Cina), Thomas Robinson (attualmente in Russia), Ben McLemore (6 punti e nemmeno 2 rimbalzi a partita per i peggiori Grizzlies del decennio), Nik Stauskas (definito da Vivek Ranadive “Grosso come Klay Thompson e tira come Steph Curry”, ma attualmente tira il 38% dal campo per i Brooklyn Nets in 8 minuti a partita), Georgios Papagiannis (appena tagliato, ma ci arriviamo) e infine De’Aaron Fox.

Di questi Fox è indubbiamente il giocatore migliore del gruppo, sebbene le sue cifre di efficienza siano tra le peggiori della NBA. Fox è ancora molto giovane, e sebbene il suo skillset vada migliorato su molti punti - in primis la capacità di segnare in sospensione - ha delle doti innate che fanno ben sperare. Ha dei riflessi fulminei che gli permettono di reagire quando lanciato in velocità nel campo, oltre che dei cambi di direzione istantanei quando porta palla. Inoltre è mancino ma non lascia che la sinistra monopolizzi il suo gioco, rendendosi creativo attorno al ferro con entrambe le mani. Tuttavia i lampi e i minuti giocati sono fin qui troppi pochi per fare chiarezza su che tipo di giocatore diventerà, se sarà un crack come John Wall o una montagna di mestizia come Brandon Knight, ma anche nel peggiore dei casi sarà comunque di default il miglior giocatore uscito dalle ultime Lottery dei Kings e comunque anni luce avanti rispetto al peggiore, l’ormai immortale Georgios Papagiannis.

L’incredibile storia di Georgios Papagiannis

Durante il Draft del 2016 i Kings hanno imbastito una trade con i Phoenix Suns in cui ne sono risultati effettivamente vincitori - una notizia di per sé eccezionale -, scambiando l’ottava scelta in Lottery per la 13^, la 27^ e i diritti su Bogdan Bogdanovic, che attualmente è il miglior giocatore a roster per i Kings. Il problema non è stato l’ennesima diluizione del talento, in una logica che ormai sembra dominare le politiche decisionali dei californiani, poiché per ora sembra quasi che chiunque abbia scelto in quel Draft dopo che Jamal Murray è uscito dal banco abbia fatto male. Ma era incredibile già al tempo che con una scelta in Lottery Divac avesse scelto Georgios Papagiannis, un giocatore sconosciuto ai più che anche i migliori siti specializzati sul Draft prospettavano in una zona che suona come l’incrocio di un locale di Manhattan: tra la 51^, la 57^ o direttamente non draftato.

Invece i Kings decisero di prenderlo sopra chiunque altro, pur avendo a disposizione una scelta a fine primo giro e una al secondo. Vlade Divac e il suo assistente Peja Stojakovic sembravano elettrizzati all’idea di mettere le mani su un giocatore con quel fisico e che, a detta loro, sarebbe stato in grado di cambiare sul perimetro e di diventare la pietra angolare della franchigia, ma che dopo le prime partite in Summer League è sembrato evidente come le pietre gli fossero state legate ai piedi, risultando estremamente lento e impacciato in campo, senza una caratteristica che lo facesse spiccare al di là della spocchia sua e di suo padre sui social network.

Dal momento in cui è stato scelto alla scorsa trade deadline è passata una sola stagione e mezza, ovvero circa 10 mesi di gioco effettivo. In questo periodo i Kings hanno fatto melina con i Reno Bighorns (la loro affiliata in G-League) passandosi “il barbagianni” per quattordici volte complessive. Ogni venti giorni quindi una delle due squadre se lo ritrovava a roster, dove risultava imbarazzante in NBA e mediocre in G-League. Inoltre, ogni volta che Georgios veniva affidato alla lega di sviluppo, i malumori dei familiari si facevano sentire. La ciliegina sulla torta comunque è arrivata all’ultima trade deadline, quando i Kings hanno scambiato George Hill coi Cleveland Cavaliers (torneremo anche su di lui) prendendosi indietro Iman Shumpert. Secondo quanto riportato successivamente, però, a poche ore dalla sirena i Kings hanno fatto marcia indietro, provando a inserire nello scambio Papagiannis per evitarsi l’imbarazzo di doverlo tagliare a 18 mesi dalla sua discussa scelta in lotteria. Questo però avrebbe fatto saltare lo scambio, poiché i 2.3 milioni di salario rimanente avrebbero costretto Cleveland, attualmente in luxury tax, a pagarne 7 solo per un giocatore da tagliare, mentre i Jazz giustamente non volevano averci nulla a che fare.

Come riportato da Adrian Wojnarowski di ESPN, la confusione nella dirigenza dei Kings non è nulla di nuovo, a cominciare dal fatto che lo scambio era stato gestito da Brandon Williams, l’assistente GM dei Kings, perché il vero GM, ovvero Vlade Divac, in genere non tratta direttamente per le trade, sebbene sia quello con più poteri decisionali all’interno della franchigia. Lo scambio è stato effettuato grazie ai Cavs e ai Jazz che hanno versato 3.3 milioni nelle casse dei Kings per pagargli il taglio del giocatore che è comunque arrivato.

L’ennesima trade confusionaria condotta dalla dirigenza ha peggiorato, se ancora fosse possibile, l’opinione che le altre squadre hanno di loro. I Jazz sono stati i più scottati dalla vicenda, perché hanno dovuto aggiungere più di un milione di dollari per far avvenire lo scambio quando gli accordi erano praticamente già fatti (ndr: le squadre possono scambiare solo 5.1 milioni di dollari l’anno, ma Cleveland aveva già inviato circa 3 milioni ad Atlanta in un salary dump ad inizio stagione per sbarazzarsi di Richard Jefferson e Kay Felder). La carriera NBA di Papagiannis sembra quindi destinata a una fine prematura: raramente si assiste a un giocatore da Lottery che non arriva nemmeno a fine del suo secondo anno nella lega, ma quando si tratta di questo genere di record i Kings sono sempre dei veri e propri pionieri.

L’effetto Sacramento

Per parlare correttamente delle cose che comunque stanno funzionando nei Kings occorre definire innanzitutto l’effetto Sacramento: dicesi “effetto Sacramento” quello per cui, data la ripetitiva e abissale incompetenza toccata negli anni precedenti, fa sembrare le scelte normali come i più superbi colpi di genio della storia.

Ad esempio: “I Kings si sono mossi bene al Draft 2016 perché hanno pescato Skal Labissiere e ne sono usciti con Bogdan Bogdanovic” sembra una frase di senso compiuto. Ma per quanto abbia mostrato lampi sufficienti al momento, Labissiere resta un giocatore enormemente sotto la media NBA, senza una grande idea di cosa fare con la palla in mano quando si trova a più di 50 centimetri dal canestro. E quello è il Draft in cui Vlade ha pescato “il nuovo Marc Gasol” ovvero il Papagiannis di cui sopra. Ovviamente rispetto ai Draft in cui si usciva con Nik Stauskas o Ben McLemore al posto di Kemba Walker, quello del 2016 sembra un successo pazzesco, ma non per questo lo si può definire un buon Draft.

Detto questo e messe le mani avanti a dovere, è bene sottolineare come non tutte le cose nella capitale della California stiano andando a rotoli (non è permesso ovviamente pensare che le cose vadano bene per “l’effetto Sacramento”). In estate la dirigenza aveva effettuato la controversa decisione di rinunciare alla flessibilità salariale per riempire la squadra di veterani che potessero dare il buon esempio o comunque fare da pretoriani a coach Dave Joerger. Le perplessità della cosa venivano sollevate dal fatto che per una squadra in ricostruzione avere spazio salariale è importante tanto quanto avere scelte, per permettere loro di prendere un brutto contratto in cambio di asset o per lo meno provare a scommettere a basso prezzo su un giocatore che non ha atteso le aspettative (come quando i Suns strapparono a prezzo di salto Isaiah Thomas, che era la PG titolare di una squadra su cui eviterò di fare il nome perché questa preferì pagare profumatamente Darren Collison). Invece i Kings hanno messo sotto contratto il quarantenne Vince Carter, il quasi quarantenne Zach Randolph e il 31enne George Hill.

Oltre alla diluizione del talento che portava tutti i giocatori ad avere meno minuti del previsto, l’aggiunta di veterani che esigono minuti di gioco sembrava essere un’ulteriore complicazione, e tutto sommato lo è stata. Hill ha giocato in modo orribile per tutta la sua permanenza a Sacramento, a colpi di passeggiate in attacco con le mani appoggiate sui fianchi e Tweet con ben 26 faccine arrabbiate. Non è comunque detto che i giovani debbano giocare per forza il maggior numero di minuti possibili e farsi prendere a calci in faccia da tutte le squadre competenti - anche perché i tifosi non sono troppo entusiasti di pagare profumatamente al palazzetto per vedere la propria squadra prenderne 40 dai Golden State Warriors -, e vivere una stagione al fianco di giocatori che sanno come muoversi e conoscono i trucchi del mestiere può senz’altro rivelarsi un fattore positivo. Joerger ha fatto senza mezzi termini un capolavoro nella gestione dei minutaggi, partendo con un vero e proprio platoon system in cui nessuno giocava più di 26 minuti a gara, adattandosi nel corso della stagione in base alle prestazioni e finendo in questo ultimo quarto di stagione col concedere delle serate di completo riposo ai veterani.

Il canestro del pareggio di De’Aaron Fox contro Brooklyn.

Ma la sapienza di Joerger è stata comprovata anche quando è riuscito ad andare oltre al suo stesso metodo per il bene della squadra: a dicembre Fox era il giocatore a roster con più minutaggio in assoluto nonostante percentuali al tiro traballanti e senza sapere ancora bene come difendere il pallone nel traffico, ma questo periodo prolungato gli è servito per raccogliere i frutti in questa parte di stagione (giusto ieri notte ha pareggiato allo scadere la gara poi vinta al supplementare con i Brooklyn Nets), così come il periodo di riposo iniziale prolungato ha fatto bene a Justin Jackson, dati i suoi miglioramenti nelle ultime settimane, compresa un’insospettabile capacità di mettere palla per terra.

Non è semplice dire se il platoon dei primi mesi abbia portato benefici nella crescita dei giocatori, ma ha creato al tempo la panchina migliore della lega. Prima di gennaio le riserve dei Kings erano prime nella lega per punti segnati (46.5), percentuale dal campo e da 3 (rispettivamente 45.2% e 39.5%), numeri perfino migliori a quelli dei titolari. In due partite le riserve di Sacramento hanno segnato 29 punti prima che un qualsiasi titolare segnasse un solo punto: il precedente record NBA apparteneva ai Bucks del 2011 fermi a quota 23. Non c’è mai stata una squadra così “piatta” nel talento e nei minuti nella storia recente, e sebbene sui risultati di squadra si è sempre rimasti ad un laconico “who cares?”, sembra che Fox stia trovando il suo ritmo, mentre per gli altri pronosticare qualcosa di più di qualche buona partita stagionale in carriera sembra un azzardo.

Le gerarchie sono anch’esse opera di Joerger, per cercare di evitare accoppiamenti in campo disfunzionali, è così ad esempio che si spiega la mossa di spostare Willie Cauley-Stein in panchina, dato che affiancargli Z-Bo ha portato a un record di 3-10 e farlo uscire dalla panchina gli ha permesso di giocare da 4 senza avere un giocatore che occupasse gli stessi spazi. Anche lo scambio di Hill non è stato negativo, e sebbene la partenza di Malachi Richardson lasci un po’ di amaro in bocca, la situazione salariale dei Kings è tornata molto più snella, dato che la presenza di Hill non portava nessun beneficio né allo spogliatoio né ai risultati in campo. Non c’è da strapparsi troppo i capelli anche per questi aggiustamenti, perché nelle serate in cui i veterani giocano può capitare di assistere a momenti di puro culto come vedere Zach Randolph prendersi 25 tiri o Vince Carter fare scelte come quella nel finale contro Oklahoma City.

Sotto di 2 a 7 secondi dalla fine dopo 5 minuti e mezzo in cui la squadra non aveva segnato mezza volta, invece di proseguire la transizione e attaccare il ferro perché non provare un bel jumper da centrocampo, alla faccia del buon esempio?

Ma ancora, tutte le cose positive ci sembrano positive per “l’effetto Sacramento”: allargando la visuale i Kings non hanno ancora un giocatore su cui scommettere che sarà un All-Star in futuro, provando a sviluppare contemporaneamente dieci giovani mentre allo stesso tempo cercavano di accontentare tre veterani - una decisione che non ha portato a disastri, ma nemmeno ha permesso la crescita inaspettata di qualcuno. Il miglior giocatore della franchigia è pur sempre un 25enne che ha giocato un lustro in Eurolega prima di buttarsi in questa rat race che è lo spogliatoio di Sacramento. E ora che sono invischiati in una lotta al tanking senza dignità, Sacramento rischia di vedere la propria scelta al prossimo Draft precipitare attorno alla 7, quando hanno bisogno come il pane di scegliere nelle prime due.

I Kings non hanno un giocatore franchigia, non hanno la loro scelta al Draft 2019, non hanno qualcosa che possa far pensare che non saranno la peggior squadra NBA il prossimo anno e a confronto delle altre squadre non hanno nemmeno poi così tanto senso. I tifosi dei Kings non si meritano tutto questo, perché nessuno si merita un periodo di assenza dai playoff talmente lungo che il rookie dell’anno nell’ultima apparizione era Chris Paul. Sacramento si merita di tornare competitiva e di avere una stella, dopo troppi anni senza soddisfazioni e dopo che l’ultimo giocatore-franchigia è evaporato in cambio di poco e nulla: la lotteria di maggio sarà il crocevia più importante della storia recente dei Sacramento Kings.