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NBA, parla LaMarcus Aldridge: l'addio a Portland, il rapporto con Lillard e la verità su Popovich

NBA

“Sulle prime sono molto, molto riservato – ammette l’ala degli Spurs – e passo spesso per uno freddo e disinteressato”. Ma in una rara intervista racconta la sua versione dell’incontro estivo con Popovich e la verità sull’addio a Portland e sul suo rapporto con Damian Lillard

Come esempio la gara persa da San Antonio sul parquet di Golden State calza a pennello. In casa dei campioni NBA in carica, LaMarcus Aldridge chiude i suoi 37 minuti di pallacanestro con 30 punti e 17 rimbalzi. Non ne parla praticamente nessuno. E non solo perché Kevin Durant ne fa 37 e gli Spurs perdono, ma perché dell’ala di San Antonio (e precedentemente dei Blazers) si è sempre parlato poco. Troppo poco: “Non voglio passare per quello che si lamenta – ha raccontato lui recentemente a Vice – ma se qualcun altro avesse fatto le cose che ho fatto io nella mia carriera se ne parlerebbe sicuramente di più. Siccome io sono timido, riservato e non mi concedo molto ai giornalisti, il mio contributo spesso viene sottovalutato”. Difficile dargli torto: perché per tre anni consecutivi, dal 2014 al 2016, Aldridge è stato l’unico giocatore NBA insieme a LeBron James, Steph Curry e Chris Paul a essere inserito in uno dei tre quintetti All-NBA (due volte nel terzo quintetto, una volta nel secondo). Perché – tolto il tiro da tre, non la sua specialità – dal 2013 al 2015 nessuno ha mai segnato più canestri da due punti in tutta la lega (1.907). E perché per sei volte è stato un All-Star, l’ultima solo poche settimane fa a Los Angeles. Forse la sua presenza più importante tra le stelle. Perché solo la scorsa estate, dopo una prima stagione a San Antonio ampiamente sotto le aspettative, per tanti LaMarcus Aldridge cominciava ad assomigliare a un giocatore finito. “Non voglio dire che non mi aspettavo più di tornare a disputare un All-Star – racconta oggi l’ala degli Spurs – ma sapevo che affinché potesse succedere di nuovo dovevano cambiare parecchie cose”. E i cambiamenti dovevano essere tanto suoi, quanto della squadra attorno a lui. Da qui il famoso incontro estivo con Gregg Popovich, raccontato pubblicamente dallo stesso allenatore, compresa la richiesta del giocatore di essere eventualmente ceduto: “Non è andata proprio così – corregge Aldridge oggi, dando la sua versione – perché non sono andato da Pop a dirgli ‘Voglio andarmene’. Gli ho solo confessato che in un determinato contesto tecnico non avrei potuto essere il giocatore che lui voleva che io fossi, e di aiutarmi a fare in modo che questo potesse invece succedere”.

Il rapporto con Lillard e i rimpianti per il passato

Ma la rivelazione più importante in una rara intervista dell’ala di San Antonio (“Sulle prime sono molto, molto riservato – dice di sé Aldridge – perché la fiducia non va data, va guadagnata. Spesso passo per uno freddo, disinteressato ma una volta che qualcuno mi conosce meglio, sono una persona molto leale”) non riguarda tanto il suo attuale periodo come membro degli Spurs ma il suo passato in maglia Blazers. Una parte importante della sua carriera, i primi nove anni nella lega, conclusa nell’estate del 2015 con l’addio all’Oregon accompagnato da voci di un rapporto tutt’altro che ideale con l’altra stella della squadra, Damian Lillard. Aldridge ammette per la prima volta che le cose forse si sarebbero potute gestire meglio, anche sulla scia delle parole rilasciate dal n°0 dei Blazers a fine novembre (nel descrivere il suo attuale ruolo di mentore verso Jusuf Nurkic, Lillard ha dichiarato: “Avrei voluto che LaMarcus avesse fatto per me le cose oggi io sto facendo per Jusuf. Con LaMarcus ho sempre avuto un buon rapporto, mai una discussione, andavamo realmente d’accordo ma il modo in cui io oggi mi prendo cura di Jusuf vorrei fosse stato il suo verso di me”): “Per me è sempre difficile trovare il giusto equilibrio tra il voler essere d’esempio, anche con un consiglio o un suggerimento, e il rispettare il modo di fare di ognuno di noi. Sì, oggi mi dispiace non avergli parlato di più, ma allo stesso tempo credo che lui per primo stesse cercando di capire chi fosse. Quello che sia io che Damian abbiamo imparato da quando ho lasciato Portland probabilmente ci avrebbe aiutato a gestire meglio la situazione quand’eravamo assieme ai Blazers. Ma chi mi conosce bene sa che non ho mai avuto cattive intenzioni: non volevo passare per quello che alzava la voce e reclamava il suo ruolo da leader magari mettendo in ombra Damian, per cui mi sono ritirato in un angolino e ho lasciato che lui facesse le sue cose. Penso però che se avessimo comunicato di più e meglio, le cose sarebbero andate molto diversamente”. Un piccolo rimpianto, forse, anche se oggi Aldridge si gode un’estensione di contratto da 72.3 milioni di dollari firmata con gli Spurs a ottobre e un ruolo in squadra che (complice anche la prolungata assenza di Leonard) è sempre più da leader. Il passato è passato, mentre il futuro, per il n°12 di San Antonio, può avere ancora parecchie soddisfazioni in serbo.