Uno dei più grandi giocatori dei New York Knicks si è lasciato alle spalle un ricordo controverso e opaco, che non rende giustizia a tutto quello che ha fatto nel corso della sua eccellente carriera.
C’era una volta un fenomenale prospetto, l’erede designato di figure carismatiche come Bill Russell o iconiche come Kareem Abdul-Jabbar. Un predestinato in grado di infiammare qualsiasi realtà collegiale per poi cambiare il destino di una fortunata franchigia. La storia di Patrick Ewing e dei suoi primi vent’anni di vita ricalca fedelmente questo cliché, tanto da stravolgere e disegnare un inedito rapporto di forza nella NCAA dal momento della sua comparsa. Solo una volta approdato nella NBA, la trama della storia ha cominciato a complicarsi inesorabilmente, tanto da costringerlo ad adattarsi a un ruolo di secondo piano rispetto alle straordinarie attese.
Dopo una avventura ricca di alti e bassi, funestata da feroci critiche e rischiarata da sporadiche soddisfazioni, la storia del nostro protagonista è tornata nuovamente al punto di partenza. Perché quella università di Georgetown che lo ha consacrato stella di assoluta grandezza lo ha poi richiamato al suo capezzale per risollevare le sorti di un programma allo sbando. Respinto “sentimentalmente” e mai completamente apprezzato a New York, Patrick Ewing ha sempre cercato di tornare nell’orbita Knicks per dimostrare le sue qualità e appagare una forte voglia di riscatto. Un fuoco interiore e un trasporto che non hanno mai trovato adeguata corrispondenza da parte della proprietà, tradizionalmente prodiga di attenzioni con i veterani ma rigorosamente cieca e sorda di fronte ai suoi richiami. Se le cose nella Grande Mela tendono a succedere più rapidamente che altrove, nel suo caso hanno conosciuto accelerazioni degne della velocità “curvatura” cara agli appassionati di Star Trek.
Uno dei centri più rappresentativi della storia del gioco vive da tempo una situazione singolare, sospeso in un curioso limbo. Non è certamente il più amato dai tifosi, eppure è il talento più fulgido ad aver indossato quella maglia dai lontani anni Settanta - e per certi versi è assimilabile come il migliore giocatore di sempre dei Knickerbockers. Ha cesellato nel corso della carriera un gioco offensivo efficace e lontano dai canoni tradizionali del ruolo, contribuendo a cambiare la filosofia del lungo moderno, ma è stato un effort che ha pagato scarsi dividendi e che non ha mai conosciuto la gioia di un titolo. Il suo nome è stato cavalcato da Bill Simmons per sdoganare una celebre Teoria sul gioco, un assunto poco lusinghiero e sinonimo di giocatore disfunzionale o sopravvalutato. Un giochino mediatico crudele che ha contribuito ad appannare la sua immagine agli occhi del grande pubblico. Secondo questo assunto elaborato verso la fine degli anni Novanta, le squadre di Patrick hanno reso meglio senza il suo contributo (per via di infortuni o per problemi di falli, ad esempio) stimolando i compagni ad un approccio più efficace in sua assenza.
Per la proprietà transitiva si dovrebbe dedurre che in determinati casi potrebbe essere vantaggioso non disporre di una stella di prima grandezza, un concetto affilato come una lama e che affonda le sue fondamenta nella cavalcata di New York durante i playoff del 1999. Una stagione fuori da ogni normale logica (quella del primo lockout, per intenderci) e che ha sdoganato probabilmente agli occhi del mondo l’efficacia della “Small Ball” anche al livello più alto di competizione, sgretolando una della barriere più stereotipate del basket. Se il concetto di fondo della Teoria è intrigante, la corrispondenza con un pilastro del gioco simile è fuori luogo.
Cercasi Pat disperatamente
Uno dei momenti storicamente più importanti del basket collegiale è indiscutibilmente griffato da Ewing. Il prospetto di origine giamaicana è infatti l’oggetto del desiderio di un palcoscenico che, dopo aver lanciato il dualismo Bird-Magic, è disperatamente alla ricerca di un profilo in grado di mantenere elevato l’interesse nazionale, giunto al suo culmine. Approccia la pallacanestro poco prima del liceo, una volta approdato negli Stati Uniti per raggiungere la madre, ormai trasferitasi stabilmente per motivi di lavoro. Da promessa del cricket si trasforma rapidamente in un giovane nume della palla a spicchi; il processo di assimilazione della nuova realtà e di una cultura differente è invece lungo e macchinoso.
La scuola lo affida alle cure del coach Mike Jarvis e del primo assistente Steve Jenkins che partendo praticamente da zero riescono al meglio nella delicata fase di apprendimento dei fondamentali. Il ragazzo è taciturno ma ha feroce voglia di emergere ed è un buon lavoratore. Cresce nei dintorni di Boston, in un contesto difficile in cui pesa come un macigno la sua imponente stazza fisica (siamo vicino ai 210 centimetri ben prima della maggiore età), il colore scuro della pelle e una voce con un accento straniero che non passa inosservato. In campo, però, scrive pagine straordinarie della storia di Cambridge Rindge And Latin dove ha modo di rifinire il suo talento e di gettare le basi di un notevole arsenale nei pressi del ferro. Le strabilianti doti atletiche nascondono la mano educata e sono più che sufficienti a trasformare la squadra in una corazzata (77-1 il record) che vince tre titoli liceali in fila e consente al suo leader di accumulare oltre 1.200 punti, con un bottino vicino alle 13 stoppate di media. I numeri non raccontano fino in fondo un dominio assoluto che necessita di un minutaggio risibile per annichilire la concorrenza. In qualche occasione la sua visibilità si rivela però un boomerang: è infatti costretto a confrontarsi con una serie di piccoli e grandi episodi di intolleranza razziale dovuti alla frustrazione del pubblico e delle compagini avversarie, ferite che incidono notevolmente sul suo approccio riservato e diffidente nei confronti del mondo esterno. L’eco delle sue imprese non passa inosservato ai selezionatori americani che lo invitano a dei provini per le Olimpiadi di Mosca del 1980, poi boicottate.
L’interesse nei suoi confronti accelera le pratiche della naturalizzazione e infiamma una vera e propria rincorsa tra i college più titolati: c’è letteralmente la fila per garantirgli una borsa di studio. Ad osservare un talento tanto reclamizzato ci sono anche emissari dei Boston Celtics, interessati a studiare il prospetto locale e compilare report dettagliati alle università più vicine in termini di pubbliche relazioni. La sua scelta accademica è un tema che tiene banco per mesi sui giornali, fino a quando è John Thompson di Georgetown a spuntarla sulla concorrenza. L’allenatore afroamericano (un tempo riserva di Bill Russell e per questo chiamato “caddy”) ha fama di burbero, ma è il mentore ideale per un talento che va gestito e tutelato. Il ragazzo deve fare i conti con qualche problema di lettura e un rendimento scolastico non sempre esaltante, conseguenza delle sue difficoltà di ambientamento negli Stati Uniti. Per certi versi il reclutamento di uno dei giocatori più attesi di tutti gli anni Ottanta si trasforma in un singolare caso di ribaltamento dei ruoli: Jarvis e l’ambiente vicino al giocatore reclutano direttamente l’università, bloccando sul nascere ogni tentativo di famelici scout o di opachi mediatori. Lo staff tecnico della scuola prepara un dettagliato memorandum con delle precise richieste, come ad esempio l’esenzione dai test con risposta multipla a tempo. Un meccanismo di protezione che è per mesi al centro di velenose insinuazioni da buona parte dei tifosi e dirigenti rimasti a bocca asciutta. Cominciano a serpeggiare le etichette di “poco intelligente” in modo del tutto gratuito, calunnie che saranno poi cavalcate dallo spietato pubblico NCAA. Striscioni con slogan del tipo “Ewing can’t read” o con motti ironicamente sgrammaticati sono purtroppo destinati a diventare una spiacevole consuetudine.
Hoya Paranoia (1981-1985)
Thompson e Georgetown con il nuovo arrivato cambiano letteralmente dimensione e volano in prima pagina dopo anni di paziente costruzione e relativo anonimato. L’università a poca distanza dalla Casa Bianca è al centro di feroci polemiche per la forte componente afroamericana del programma (in piena era conservatrice Reaganiana) e per le dichiarazioni urticanti del suo allenatore. Un personaggio che che fa gola ai college più importanti e che per restare al timone ottiene senza troppi sforzi un budget faraonico per implementare l’area tecnica. Un gruppo di studenti si spinge a finanziare una magione dotata di una piscina con un mosaico raffigurante Marilyn Monroe per favorire la sua permanenza. Un eccesso tipico del periodo. L’ex giocatore dei Celtics è il monarca assoluto degli Hoyas e si prepara ad egemonizzare la neonata Big East Conference: la sua figura fisica imponente (ben oltre i 200 centimetri) e il caratteristico asciugamano sulla spalla lo trasformano in un figura riconoscibile e di tendenza.
I suoi modi risoluti sono indigesti alla maggior parte degli osservatori specializzati che preferiscono di gran lunga gli sfoghi isterici di Bobby Knight allo stile militare dell’ateneo. Si tratta dei primi ribelli del compassato mondo collegiale, un approccio anticonvenzionale e sfacciato. Va in scena una pallacanestro fisica che fa dell’intimidazione e della difesa al limite un mantra irrinunciabile. Un atteggiamento tale da generare una diffusa antipatia nell’intero panorama nazionale, ma capace di gettare un ponte verso la cultura pop che sta sdoganando nuove forme di espressione. Il merchandising e le scarpe dedicate sono subito oggetto di culto tra i ragazzi e gli artisti di colore: prima dei Fab Five di Chris Webber e Jalen Rose e del fenomeno Duke, è questa la squadra che cambia le regole del gioco e che diventa un brand a tutti gli effetti. Il Bulldog diventa celebre in tutto il paese.
Le “Terminator” specifiche della stagione ‘85.
Si sprecano le iperboli negative e l’associazione più frequente è quella con “l’impero del male” del regime sovietico. Qualche giornalista si spinge persino a confronti tra lo staff e il sanguinario dittatore africano Idi Amin. La questione razziale, come si può facilmente immaginare, imperversa. La situazione si fa talmente insostenibile che non vengono facilmente resi pubblici nemmeno i normali bollettini degli infortuni: la coltre di riservatezza è impenetrabile e non ammette eccezioni, i media non possono accedere al campus e sono tassativamente vietati estranei durante gli allenamenti.
Pat è un giocatore molto più rifinito di quanto si creda, eppure viene dato risalto solo al suo potenziale difensivo. Le firme di maggior prestigio del tempo lo definiscono semplicemente fisico e brutale con eccessiva faciloneria. L’etichetta di “nuovo Bill Russell” contrasta con il vero punto di forza, che risiede nelle letture offensive e nella capacità realizzativa, Il talento difensivo è solo una parte del suo bagaglio, anche se viene letteralmente rimodellato dalla guida tecnica che cerca di esaltare in tutti i modi la sua intimidazione e la presenza sotto canestro. I compagni hanno bisogno di un guerriero e non di un fine dicitore e il giamaicano si cala nella parte con entusiasmo, incurante del mondo esterno. Spigoloso ma sempre fondamentalmente corretto, pronto a reagire se provocato. Un ragazzo in missione. Questo ambiente protetto dal mondo esterno, unito a un allenatore in grado di fare da parafulmine nelle situazioni difficili, è un toccasana per la sensibilità e l’atteggiamento diffidente del suo protetto. Un’arma a doppio taglio che senza dubbio lo ha penalizzato una volta diventato professionista, soprattutto con il passaggio allo spietato circo mediatico di New York.
Durante gli anni accademici riesce a confermare buona parte delle straordinarie aspettative. Trascina in finale l’università per tre anni consecutivi, trasforma Thompson nel primo allenatore afroamericano in grado di vincere il titolo ed è protagonista in alcuni dei primi fenomeni social-sportivi rilevanti della decade. Ad esempio, trionfa con la squadra USA alle Olimpiadi di Los Angeles. Lo stesso anno conquista “solo” una vittoria ai danni dell’università di Houston guidata dal celebre Hakeem Olajuwon, nello scenario di un duello semplicemente incantevole. È costretto a sventolare bandiera bianca nell’epilogo finale nel 1983 contro la favoritissima UNC di Michael Jordan e James Worthy e a fare da testimone a una delle imprese sportive più romantiche di sempre con la clamorosa vittoria della “cenerentola” Villanova nel 1985.
Nella sconfitta con i Tar Heels gioca uno degli spezzoni di gara più iconici della storia NCAA: il coach lo esorta a intimidire gli avversari e lo spinge ad effettuare una serie di stoppate irregolari per segnare idealmente il territorio e “sconsigliare” l’accesso in area. Seguono cinque clamorosi gesti atletici in rapida successione e un’impronta che incide notevolmente sulla sfida, destinata a terminare all’ultimo possesso e segnata dalla freddezza di MJ. La storia dell’annata 1984-85 è invece uno dei punti cardine del fascino e degli imprevisti tipici del livello universitario. Villanova, guidata dal pittoresco condottiero “Rollie” Massimino, conquista il titolo con un’impresa sensazionale, proprio contro il miglior impianto difensivo del paese. Una partita perfetta con medie dal campo appena inferiori all’80% e una serie di retroscena e di sottotrame degni di un romanzo, aspetti felicemente descritti in un celebre documentario della HBO. L’agrodolce finale non intacca l’aura che il simbolo degli Hoyas sta proiettando da tempo al piano di sopra.
Le insidie nascoste dietro le mille luci di New York (1987-1989)
Il Madison Square Garden è in subbuglio. La Grande Mela insegue i fasti di un passato glorioso e tenta invano la rincorsa al titolo dal 1973 (non è cambiato molto neanche adesso). Le speranze di un futuro radioso sono scemate con i problemi fisici di Bernard King e una serie di forzature manageriali che hanno costretto ai margini il progetto tecnico (...non è cambiato molto neanche adesso). Le partite sono disertate dal pubblico e cresce la preoccupazione per le sorti di una franchigia chiave per il mercato televisivo. Occorre un salvatore della patria, un profilo che combacia perfettamente con le caratteristiche del lungo giamaicano che è senza dubbio il prospetto più atteso. La NBA sta cercando da anni di contrastare il tanking selvaggio e per scoraggiare il pericolo pubblico numero uno (Donald Sterling che sta cavalcando l’epopea del “Clipper Triangle”) istituisce una lotteria tra le peggiori classificate nel tentativo di mitigare imbarazzanti finali di stagione. Oltre alla condotta dei Clippers desta perplessità la gestione dei Rockets che hanno speculato con eccessiva disinvoltura per assemblare il tandem Sampson-Olajuwon. Per la prima volta c’è effettiva incertezza per l’ordine di scelta, ma l’innovazione ha un tempismo vagamente sospetto. Una dispersione dei migliori talenti verso squadre di secondo piano rischia di compromettere il buon esito del rinnovo del contratto nazionale con la CBS giunto ormai a scadenza. Situazione perfetta per far nascere una serie di affascinanti teorie del complotto a favore del pubblico del Madison e indirettamente di tutto il movimento.
Questo clima accende l’interesse verso il Draft 1985 che ha in Ewing il capofila di una classe di esordienti destinati a lasciare tracce molto importanti come Karl Malone, Chris Mullin e Joe Dumars. Le immagini della selezione delle buste all’interno di una grande urna trasparente ricevono un’attenzione incredibile e ancora oggi sono oggetto di improvvisate “moviole” per trovare elementi in grado di provare l’andamento pilotato del sorteggio. Il momento dell’annuncio della vittoria di New York è uno momenti più controversi della gestione del commissioner David Stern, ma contribuisce ad accrescere la popolarità di uno sport e di una associazione che sta emergendo con prepotenza dopo anni di evidente declino.
La maglia numero 33 dei Knicks è pronta per le telecamere pochi minuti dopo, alimentando le speculazioni. Nel giro di qualche ora i centralini della biglietteria sono presi d’assalto dai tifosi e uno dei giocatori più schivi e timidi di sempre è completamente travolto dalle richieste di interviste e di pubblicitari estasiati che non vedono l’ora di esplorare un potenziale commerciale senza precedenti. A vigilare e dirigere il flusso è il super agente David Falk (lo stesso di Jordan) che ottiene senza troppa fatica un contratto faraonico che trasforma il suo assistito in uno giocatori più pagati e invidiati della NBA.
La pressione e le aspettative sono enormi, ma la situazione tecnica è ai limiti della telenovela (Bernard King è fuori per tutta la stagione, Bill Cartwright compare in sole due gare) e senza alcun dirigente in grado di timonare con saggezza un innesto tanto importante. Nel roster il talento scarseggia e l’umore è sempre sconfortante: Pat Cummings e Gerald Wilkins sono spesso le uniche risorse convincenti tra le seconde linee. In panchina siede il polemico Hubie Brown, che è probabilmente l’unico in tutto lo Stato a non fare i salti di gioia per l’approdo del giovane talento. Il rapporto tra i due non decolla e, per la prima volta in carriera, Pat affronta una marcata diffidenza da parte del suo allenatore. Privi di mezzi quanto di entusiasmo e mai in grado di accontentare le richieste del coach, i giocatori naufragano rapidamente in una delle peggiori stagioni di sempre. A peggiorare il quadro è il suo ginocchio destro che necessita di un intervento chirurgico. Nel deserto generale accumula cifre di tutto rispetto (20 punti e 9 rimbalzi con 2 stoppate di media) in 50 presenze, numeri che gli valgono il premio di matricola dell’anno. Il campionato cominciato come una festa va in archivio con un numero impressionante di interrogativi e un record di 23–59. Ne fa le spese la bandiera di lungo corso Dave DeBusschere, che viene allontanato dalla stanza dei bottoni.
Il nuovo GM è “Scotty” Stirling, un tuttofare di prestigio ingaggiato dalla proprietà per cercare di sbrogliare una situazione incandescente. Si tratta di uno dei personaggi più amati dai dirigenti, una figura di una intelligenza e di una versatilità rara. Le sue competenze spaziano dalla gestione manageriale (nel baseball e nella ABA) allo scouting ed è anche celebre come speaker/dirigente radiofonico di alto profilo. La sua popolarità non intenerisce la velenosa stampa locale che nel giro di pochi mesi lo delegittima completamente: paga a caro prezzo un Draft mediocre dopo l’esito sfortunato della nuova lotteria (sceglie Kenny “Sky” Walker con la quinta scelta) e un ridotto margine di manovra per effetto di un salary cap già troppo pesante. Pur di ottenere giocatori in grado di contribuire immediatamente cede un numero eccessivo di scelte future, compresa la selezione al primo giro che Seattle converte in Scottie Pippen nel 1987 e poi gira ai Chicago Bulls, dove avrà discretamente fortuna. A far precipitare completamente il contesto è l’autolesionismo di Brown che comincia la stagione dirottando Ewing nella posizione di ala per fare spazio al rientrante Cartwright.
Pat deve fare i conti con delle articolazioni in disordine e si dimostra poco entusiasta nell’affrontare giocatori molto più veloci di lui. Dopo le inevitabili polemiche e la rottura definitiva con la sua stella, arriva puntuale l’esonero dell’allenatore dopo 16 orrende partite. Bob Hill è chiamato a traghettare il roster e limitare i danni. Il gruppo che si avvia senza troppi sussulti a compilare il peggior record NBA cumulativo nel triennio 1984-87 fa letteralmente imbufalire la città: nel giro di pochi mesi saltano due allenatori e il nuovo General Manager. Il pubblico se la prende con il suo nuovo simbolo e nelle ultime gare si abbandona a colorite contestazioni: gli abbondanti fischi e la distruzione dei suoi poster sugli spalti diventano ordinaria amministrazione. Stirling prima delle dimissioni avvia trattative con Rick Pitino (nato a Brooklyn e cresciuto nel Queens) e Larry Brown per la panchina della stagione 1987-88, lasciando in eredità al suo successore Al Bianchi contatti fondamentali da cui ripartire.
L’esplosione e l’ascesa verso il vertice della lega (1987-1989)
I primi due anni del talento prodotto da Georgetown sono un incubo. La sua riservatezza e la natura schiva non vanno a braccetto con un ambiente profondamente passionale come quello di New York. Si stabilisce nel New Jersey alla ricerca di una tranquillità e di un isolamento che lo danneggiano in modo evidente. Raramente compare nei punti nevralgici del celebre tessuto urbano e anche in periferia si muove sempre in orari strategici. Il suo strano rituale nel giorno delle partite (nessun autografo, neanche ai bambini) irrita profondamente una tifoseria che non riesce a stabilire alcun legame emotivo con il giocatore di riferimento. Il pubblico vuole segnali di appartenenza, un appello che Ewing raccoglie e rielabora a suo modo suo sul finire degli anni Ottanta, grazie alla maturità che comincia a levigare qualche tratto spigoloso. Dal punto di vista tecnico lascia interdetti molti esperti: la sua difesa, pur sopra media, non è in linea con le roboanti aspettative e in generale la sua intensità è sospetta, probabilmente anche per una gestione conservativa delle doloranti ginocchia che lo stanno pesantemente limitando da quando è diventato professionista. È già evidente che sia un ottimo elemento, ma la squadra ha bisogno di un fuoriclasse e di un leader carismatico.
L’uomo che cambia le sorti di questo rapporto complicato è un giovane mago della panchina. Il prescelto per dettare la nuova guida tecnica è il 35enne Rick Pitino, reduce dalle Final Four con Providence e forte di una esperienza proprio come assistente di Brown. Dal momento della sua firma l’inversione di tendenza dei Knicks è impressionante e la franchigia a poco a poco comincia ad azzeccare una sequenza di scelte vincenti che cambiano lo scenario in pochi mesi, restituendo orgoglio e speranza. Il nuovo arrivato capisce la chiave di volta per rigenerare il suo pivot: sfruttare direttamente il supporto di John Thompson con cui ha solidi contatti, ricostruendo da zero il rapporto già pieno di ruggini all’interno dell’organizzazione. L’azione diplomatica promossa dai vertici di Georgetown è fondamentale: ai nastri di partenza della nuova stagione sono finalmente tutti pronti a leggere la stessa pagina del libro. Gli allenamenti diventano oggetto di svariate leggende metropolitane per la qualità e la durezza della sessioni. Pitino sperimenta una pallacanestro che ha molti punti di contatto con il basket di oggi: orchestra una eccitante run & gun che fa innamorare tutti gli appassionati. Sono quasi banditi i tiri da due dalla lunga distanza e i suoi esterni conquistano rapidamente il nomignolo di “Bomb Squad” quando nella sua seconda annata scoccano ben 1.147 triple con 386 realizzazioni, polverizzando completamente i precedenti record NBA: la prima squadra in grado di superare quel volume di tiri sarebbe arrivata solo cinque stagioni più tardi.
I progressi sono tangibili: con il maggiore spazio a disposizione Ewing diventa in uno dei centri più dominanti della lega, rendendo realtà ciò che ci si aspettava da lui. La disciplina e un fine lavoro psicologico annullano i problemi di concentrazione e di rendimento, trasformando un incerto prospetto in un pilastro difensivo che diventa praticamente insensibile alle finte avversarie. Le sue doti di stoppatore e rimbalzista emergono con prepotenza, migliora esponenzialmente la gestione dei falli e persino le articolazioni concedono una lunga e duratura tregua. Il monocorde giocatore offensivo degli esordi lascia spazio ad un passatore affidabile e un raffinato lettore delle spaziature avversarie. Il numero 33 sposa uno stile di gioco squisitamente collegiale: la sua pericolosità interna e la mano educata sono vitali per garantire buoni tiri ai compagni. Gli innesti di Charles Oakley (scambiato per Cartwright) e soprattutto di Mark Jackson (scelto al numero 18 del Draft 1987 per acclamazione popolare) trasformano la squadra più depressa dell’associazione in una delle novità più frizzanti del panorama della palla a spicchi.
I Knicks del biennio 1987-89 sono molto divertenti (oggi sbancherebbero il League Pass) e regalano una battaglia a ogni partita grazie ad una rotazione furiosa e uno stile di gioco offensivo che diventerà un trend consolidato solo molti anni più avanti. A una fase d’attacco innovativa si accompagna una più classica e ben oliata difesa “press” a tutto campo, un sistema ancora efficace per il periodo ma oggi quasi completamente superato dall’evoluzione senza posizioni definite del basket odierno. New York torna ai playoff, vince un titolo divisionale nel 1989 e avanza fino alla semifinale di conference dove cede inevitabilmente il passo ai Bulls.
Qui contro Charles Barkley dà vita a una delle migliori partite cult di sempre.
Apogeo della carriera in un contesto difficile (1990-1993)
Tra lo stupore generale Rick Pitino rassegna le dimissioni per tornare nuovamente nel mondo NCAA, forte dell’interessamento di Kentucky ed evidentemente condizionato dalla sfiducia nei confronti di un management che continua a destare diverse perplessità. Bianchi decide di proseguire la sua linea verde e sceglie di promuovere l’assistente 33enne “Stu” Jackson, affiancandolo al veterano Paul Silas. Una decisione molto coraggiosa visto che il nuovo coach ha sempre lavorato come assistente nei suoi pochi anni da professionista. Il giovane timoniere si affida ad un approccio molto più tradizionale e consegna completamente le chiavi del gioco al suo fuoriclasse.
Il costante lavoro che conduce in estate nella base di Georgetown (che si arricchisce progressivamente delle presenze di Alonzo Mourning e Dikembe Mutombo) paga preziosi dividendi e lo proietta finalmente nel salotto buono delle superstar NBA. A un affidabile tiro in sospensione aggiunge un gran numero di movimenti in post basso che inserisce con grande disinvoltura in un repertorio sempre più variegato. Il suo classico “baseline jumper” è ormai un’arma letale e i progressi del gancio (effettuato a seconda dei casi con entrambe le mani) sono notevoli. Quando si rende necessario il suo utilizzo del tabellone, comincia ad avvicinarsi al livello dei migliori interpreti degli anni Settanta. La parabola del suo tiro in allontanamento descrive un arcobaleno praticamente immarcabile. Con gli evidenti progressi del ginocchio destro sfoggia una sorprendente esplosività e un dinamismo insospettabile.
A irrobustire il tutto c’è un impegno fisico che si fa sempre più duro e minuzioso; la parte superiore del corpo è ormai granito puro e risulta quasi del tutto insensibile alle spinte dei difensori avversari. L’ambizione personale e le magre del primo biennio lo hanno spinto a diventare un vero e proprio fanatico della sala pesi e uno stakanovista immarcabile: i giorni successivi a una sconfitta è quasi scontato ritrovarlo all’allenamento con circa un’ora di anticipo per smaltire la delusione con esercizi supplementari. È un attaccante da quasi 30 punti a sera, un difensore dominante e un rimbalzista di prima classe. Dal 1990 al 1993 è probabilmente il miglior centro della lega: Olajuwon è molto vicino al suo livello ma non ha ancora lo stesso impatto complessivo, David Robinson è ancora oggettivamente inesperto, e l’ombra di Shaquille è ancora relativamente lontana. È il top in uno dei momenti di maggior concorrenza del ruolo ma il suo stile rigorosamente sobrio, il grande pragmatismo e la consueta freddezza ne limitano la popolarità.
I Knicks possono ormai contare su un buon roster ma la qualità generale non è all’altezza delle prime 4-5 della classe e gli equilibri raggiunti sono ancora molto fragili. Pat non ha un compagno con cui condividere pienamente le responsabilità offensive e il vistoso crollo di Mark Jackson, ormai orfano delle alchimie di Pitino e costantemente fuori forma, pone diversi dubbi sulla posizione di play titolare. L’asse Wilkins-Oakley è la vera base di appoggio del giamaicano che è spesso costretto agli straordinari. New York compila una stagione discreta ma denuncia un vistoso calo nella fase successiva alla partita delle stelle, evento che lo vede finalmente esordire. Per molti esperti è il classico “MVP romantico” dell’annata 1989-90.
Nei playoff l’avvio è desolante: ne approfittano gli anziani Boston Celtics che si portano avanti per due partite a zero nel primo turno. Con i media sul piede di guerra, è ovviamente il totem dell’MSG a cambiare l’inerzia di una serie che sembra già scritta. Con tre partite di altissimo livello (33 punti in gara-3, 44 in gara-4 e 31 nella decisiva gara-5) trascina quasi di peso i compagni al turno successivo, rafforzando notevolmente il suo status all’interno della lega. Nella quinta partita regala una delle sue migliori prestazioni in carriera: segna un canestro da tre da giocoliere puro che infiamma il pubblico e sfiora una clamorosa tripla doppia. Il suo sforzo conquista in modo particolare i grandi veterani dei biancoverdi che finiscono per diventare i suoi sponsor più solidi, nonostante l’eliminazione. L’ostacolo successivo però è proibitivo: si tratta dei “Bad Boys” di Detroit che la spuntano in cinque partite per poi conquistare il titolo poche settimane dopo. Un livello ancora troppo elevato per New York.
La stagione seguente è un altro duro colpo al cuore per i tifosi: Jackson perde il controllo del roster e Jackson è troppo inesperto per riuscire a mantenere a galla una nave che imbarca acqua da tutte le parti. Il coach viene licenziato dopo una falsa partenza (7-8) e il suo sostituto McLeod non riesce a invertire le sorti della squadra con particolare efficacia. Matura uno scialbo ottavo posto ad Est grazie al solito sospetto che si aggira in vernice, una posizione che vale l’accesso a una post-season a cui non crede nessuno e che si inabissa dopo un imbarazzante eliminazione per mano dei Chicago Bulls. Il rapporto con i tifosi continua a vivere di alti e bassi, ma nonostante sia l’unica certezza è il pessimo feeling con la stampa che lascia sempre più perplessi. Si adatta alla situazione complicata e il suo approccio distaccato che inizialmente lo aveva penalizzato si dimostra perfetto per mantenere equilibrio in uno scenario capace di stroncare buona parte della concorrenza. L’unica nota lieta del 1990-91 è la scoperta di John Starks, che viene inserito nel roster dopo una breve carriera nella lega di sviluppo.
I Golden State Warriors di Chris Mullin puntano a farlo uscire dal contratto sfruttando una clausola e la solida regia di Falk che richiede persino un arbitrato. La nuova telenovela si conclude però con una sontuosa estensione salariale (il vero obiettivo dell’agente) che scatena un fiume di polemiche e che viene strutturata per far respirare il salary cap. Dalla lotteria del 1985 Ewing ha visto transitare sei allenatori e quattro GM: urge stabilità e la proprietà ingaggia Dave Checketts come nuovo presidente, un uomo d’affari prestato allo sport saldamente connesso a David Stern, un executive fondamentale per lo sviluppo della struttura degli Utah Jazz. Al suo fianco opera Ernie Grunfeld, ormai uno dei pochi volti riconoscibili del management e l’uomo delle pubbliche relazioni con i veterani.
La responsabilità di riportare al vertice la franchigia ricade sul pluridecorato Pat Riley, reduce da quattro campionati vinti con i Lakers e ormai da due anni impiegato come analista di lusso. La sua missione è quasi impossibile: trasformare un gruppo con talento discreto in una squadra da titolo nel culmine dell’era Jordan, con una della situazioni ambientali più complesse di tutto lo sport professionistico. La direzione che sceglie di intraprendere per questo scopo è semplice solo in apparenza: assemblare la miglior difesa NBA e disciplinare i giocatori alla miglior condizione fisica possibile, con una chimica complessiva in grado di superare dei limiti tecnici oggettivamente enormi. Nasce e si sviluppa uno stile di gioco che si ispira ai Pistons di Chuck Daly ma che vive principalmente della leadership di Riley e delle capacità di Patrick Ewing su entrambi i lati del campo. Gli uomini copertina diventano inevitabilmente i componenti più duri e generosi della squadra, destinati a rapire il cuore di una generazione intera di tifosi: a fare tendenza sono i muscoli di Charles Oakley, l’intensità di John Starks e lo sguardo truce di Anthony Mason, anime operaie che conquistano il Paradiso.
Già nel primo anno (1991-92) la nuova filosofia paga importanti dividendi. Nonostante un attacco di cabotaggio modesto maturano ben 51 vittorie e una considerazione generale di altissimo livello. La stagione va in archivio con la prestigiosa eliminazione dei battaglieri Pistons, che vengono fisicamente spazzati via da un sistema costruito a loro immagine e somiglianza, tipo quel meme di Spiderman contro Spiderman. L’ottima annata viene sublimata da una meravigliosa serie con i Bulls di Jordan e Pippen che arriva alla settima partita: una battaglia che entra di diritto a far parte dei classici NBA e che definisce il tono di una rivalità che di fatto rappresenta l’unico ostacolo credibile allo strapotere di Chicago sul versante della Eastern Conference. Pat improvvisa persino una prestazione alla Willis Reed che manda in visibilio il pubblico nostalgico quando in gara-6 resta in campo dopo una brutta distorsione alla caviglia e trascina i compagni alla vittoria con 27 punti, senza però riuscire a uscire vittorioso dalla serie.
Quella del 1992 è l’estate del Dream Team di Barcellona che lo vede tra i grandi protagonisti, ma al suo rientro in città trova un roster profondamente cambiato e orfano di giocatori storici come Wilkins e Mark Jackson. Non si fanno sconti a nessuno nel tentativo di un ulteriore passo in avanti. Nel 1092-93 Riley guida New York al miglior record della conference grazie ad una difesa che sale ulteriormente di livello: le uniche corazzate che tengono il passo sono i Phoenix Suns di Charles Barkley e ovviamente le maglie rosse del solito e onnipresente MJ.
Ai Knicks però manca un play di grande spessore e almeno un altro esterno di qualità capace di alleviare la pressione dai giocatori in vernice. La cattiva stampa non lascia mai solo il numero 33 e non gli perdona una rivedibile percentuale dal campo che scende sotto il 50% per le “cure” degli avversari da un certo punto della stagione in poi. Nasce un primo abbozzo della “Ewing Theory”, la “Too Much Ewing”: gli isolati exploit in attacco dei compagni nelle sue rare assenze sono costantemente sottolineati e diventano oggetto di ulteriore biasimo. Tra lo spento Rolando Blackman e il veterano Doc Rivers le alternative non sono in grado di far desistere Riley da un approccio completamente fondato sul suo pivot titolare. Il grande cuore del gruppo non delude nella prima parte dei playoff in cui vengono asfaltati Pacers e Hornets, per approdare alla sospirata finale di Conference con gli arcirivali Bulls. La serie segue il consueto copione: New York getta il cuore oltre l’ostacolo e gioca nuovamente al di sopra dei suoi limiti impegnando una delle squadre più forti della storia in sei combattute partite, ma il finale è sempre lo stesso.
Le Finals e il tramonto del progetto Riley (1994-1998)
Quando nell’estate del 1993 arriva la notizia del clamoroso ritiro di Michael Jordan, la compagnia diventa inevitabilmente una delle grandi favorite alla successione del trono di Chicago. I cronici problemi nel backcourt peggiorano quando dopo poche partite Doc Rivers è costretto a lasciare i compagni per un grave infortunio. I Knicks lo sostituiscono con il veterano Derek Harper, e grazie al nucleo storico e alle stesse proverbiali qualità chiudono la regular season vincendo la conference. Un anno speciale che sembra trovare conferma nelle serie con Bulls e Pacers che arrivano a gara-7 e vedono il roster sopravvivere e reagire ai momenti peggiori. In particolare è Indiana con uno spiritato Reggie Miller a mettere in crisi i sogni di gloria del Madison: sull’orlo dell’eliminazione è ancora Ewing a trascinare i compagni chiudendo la contesa con una schiacciata a 20 secondi dalla fine dell’ultimo capitolo. I suoi 24 punti, 22 rimbalzi, 7 assist e 5 stoppate valgono il viaggio verso la finalissima.
Il capitolo conclusivo è ovviamente costruito sulla rivalità tra due dei più grandi centri di sempre: Pat deve affrontare lo stesso Olajuwon che ha già sconfitto con Georgetown nel 1984, ma il raffinato gioco del nigeriano è al suo apice assoluto e i suoi Houston Rockets possono contare su una squadra complessivamente più talentuosa. Lo scontro è durissimo e anche in questo caso si consuma in sette agoniche partite senza respiro. Riley utilizza la sua stella per creare spazio vitale agli esterni più che come classica arma in post basso, strategia enfatizzata dalla sua efficacia come tiratore, un aspetto che spesso manda in crisi gli avversari. In qualche occasione i Knicks orchestrano persino un doppio blocco per liberare al tiro il loro centro, un meccanismo davvero inusuale per i tempi. Hanno diverse occasioni per conquistare l’anello, ma si infrangono sul nervosismo di Starks, su qualche testardaggine del coach e soprattutto sul calo finale di Patrick, che arriva sulle gambe nell’ultima gara. Olajuwon, dal canto suo, si dimostra insensibile a ogni tipologia di difensore che incrocia le sue piste, completamente a suo agio contro ogni raddoppio di marcatura e vince il confronto diretto con il grande rivale. New York esce a testa alta, ma sconfitta e duramente provata.
Nelle annate successive il conto che le martoriate ginocchia presentano al numero 33 è comprensibilmente salato. La progressiva perdita di mobilità laterale e la diminuzione di velocità diventa sempre più evidente e incide notevolmente nell’economia del suo gioco. Nel 1994-95 una nuova campagna durissima (con lui in top-10 per media punti, rimbalzi e stoppate) si consuma con un altro scontro al cardiopalma con gli Indiana Pacers che nel frattempo hanno ingaggiato Mark Jackson. Sono necessarie ancora sette partite per decidere la serie: risolve il finale di gara-5 con un canestro a due secondi dal termine, ma nella decisiva azione della settima sfida sbaglia l’ultimo tiro. Elude il raddoppio, si invola verso il ferro ma quando arriva il momento di concludere non ha più forza nelle gambe doloranti e al posto di una sicura schiacciata è costretto ad affidarsi a una conclusione morbida che viene respinta dal ferro. Un episodio che ancora pesa come un macigno per tutto l’ambiente e segna la mezzanotte di una vera e propria era. A seguito della cocente eliminazione Pat Riley abbandona la città anche a causa di un brutto rapporto con il resto della dirigenza: è tutto da rifare e il fardello di responsabilità sulle sue spalle è sempre più pesante.
Dopo una breve parentesi con Don Nelson è lo storico assistente Jeff Van Gundy a rilevare la panchina, anche se ormai appare evidente il declino del nucleo storico della franchigia. Gli innesti del 1996-97, Larry Johnson e Allan Houston, infondono lo slancio necessario per una buona annata che si conclude con 57 gare vinte e ottime sensazioni da parte degli addetti ai lavori. Tuttavia un nuovo amaro epilogo è pronto ad aspettare i Knicks nei playoff: avanti per 3-1 nella serie con la Miami del redivivo Riley, una clamorosa rissa e le squalifiche conseguenti cancellano una serie già praticamente vinta. Curiosamente le sanzioni colpiscono anche chi pur non partecipando all’alterco si è semplicemente allontanato dalla panchina. L’anno successivo si procura un grave infortunio in una partita di regular season, quando si frattura il polso con l’interessamento dei legamenti e solo grazie ad una feroce determinazione rientra in un tempo record che gli consente di disputare le ultime gare dei playoff. Lo spirito è la motivazione sono quelle di sempre.
Nel 1998-99, con il lockout appena finito, è martoriato da una serie di problemi al tendine d’Achille e al solito ginocchio che ne compromettono ulteriormente le prestazioni. Van Gundy ottiene un faticoso ottavo posto e una sofferta qualificazione alla post-season. Il telaio sta inesorabilmente cedendo, ma Pat fa ancora in tempo a risultare decisivo nel primo turno contro i soliti Miami Heat e nel capitolo successivo con gli Atlanta Hawks. È costretto a sventolare bandiera bianca solo in finale di conference dopo un nuovo infortunio, proprio contro gli Indiana Pacers che ormai recitano il ruolo dei grandi favoriti. Tra lo stupore generale, però, i compagni passano il turno anche in sua assenza sfoggiando un basket estremamente dinamico e modellato sulle doti di Latrell Sprewell e Allan Houston, ormai nuovi punti di riferimento. Una forma di “Small Ball” ante litteram che pone interrogativi sulla permanenza e il ruolo del vecchio leader che sta diventando nuovamente oggetto di polemica. In finale contro gli Spurs del tandem Robinson-Duncan non ci sono risposte per New York che cede nuovamente il passo e si arrende per 4-1.
L’amaro epilogo
La grande prestazione della squadra con una strutturazione più dinamica segna di fatto una frattura insanabile tra i giocatori più giovani e lo stesso Ewing che si trova a condividere lo spogliatoio con compagni che non vedono l’ora di metterlo da parte. La stanza dei bottoni non riesce a gestire una frattura che diventa sempre più importante. Parte della città lo considera il responsabile di un fallimento sportivo vero e proprio e ha fretta di voltare pagina. Gioca più che discretamente nei playoff del 1999-00, ma ormai la separazione è solo questione di tempo ed è lo stesso Patrick che sblocca una situazione diventata insostenibile: chiede e ottiene la cessione, con la nuova dirigenza capitanata da Scott Layden che non si fa troppi scrupoli a esaudire questo desiderio, spedendolo a Seattle (passando poi a Orlando) alla ricerca di uno spazio e una considerazione ormai perdute tra le mura amiche. Il suo scambio è orchestrato in modo orrendo: pur di liberarsene la proprietà accetta come contropartita una serie di pessimi contratti (tra cui Luc Longley e Glen Rice) rinunciando alla invitante free agency che l’accordo in scadenza della vecchia stella avrebbe favorito. Un’operazione che appesantisce il salary cap con quasi 90 milioni di dollari e che inaugura un decennio scellerato, fatto di pessime scelte e di strategie incomprensibili. Sotto la gestione di Layden e più avanti di Isaiah Thomas, la franchigia conosce il punto più basso della sua storia.
Patrick Ewing lascia il Madison Square Garden dopo 1.183 partite in 15 stagioni, con una media di 21 punti, 10 rimbalzi e oltre 2 stoppate a partita e un controverso rapporto con i suoi tifosi, un legame sospeso tra affetto e rimpianto che gli anni successivi non hanno mai definito o curato fino in fondo. Dal momento del suo ritiro ha speso circa 15 anni come assistente di alto livello (ha curato lo sviluppo di Yao Ming e di Dwight Howard) nella vana attesa della grande chiamata di una squadra NBA come capo-allenatore. Un periodo di tempo più unico che raro per un componente del Dream Team originale alle prese con ambizioni di panchina. Lui, dal canto suo, ha lanciato segnali inequivocabili e sognato di tornare per riscattare un epilogo amaro e risollevare le sorti di una franchigia che ha visto più volte toccare il fondo.
Quello che rimane, però, è un instancabile perfezionista che ha sdoganato la figura del centro tiratore e che trascinato il fardello dei Knicks senza un grande cast di supporto, con una girandola dirigenziale che non gli ha certo giovato; un giocatore completo su entrambi i lati del campo che ha fatto i conti per tutta la carriera con delle ginocchia di cristallo; un leader singolare dal carattere introverso e generoso che è forse la vittima più illustre dello spietato dominio di Michael Jordan. In definitiva: uno dei più grandi interpreti di sempre del ruolo, probabilmente penalizzato da una riservatezza esemplare, ma dotato di un’anima da guerriero vero.
È stato il solito John Thompson a ricordarsi di lui e a reclutarlo per la guida di Georgetown in una situazione difficile e alla ricerca di risposte a una crisi che ha progressivamente cancellato l’ateneo dalle principali rotte NCAA. Patrick si è rimesso in gioco con passione nella speranza di rinverdire i fasti della “Hoya Paranoia” dei primi anni Ottanta. In attesa che prima o poi qualcuno a New York decida di riallacciare i rapporti: in fondo certi amori non finiscono, fanno giri immensi e poi, come suggerisce una celebre canzone...