La point guard n°3 dei Rockets, dopo 86 partite di playoff, accede per la prima volta in finale di conference, sfatando un mito che si portava dietro da 13 anni: "È solo l'inizio, nessuno gioca per festeggiare una qualificazione: dobbiamo vincerne altre otto"
C’è sempre una prima volta, anche se ogni tanto sei costretto ad aspettare 13 anni prima che questa arrivi. E Chris Paul si è meritato sul campo la possibilità di abdicare al ruolo di “giocatore con più presenze ai playoff senza aver mai giocato una finale di conference” (86 partite, conquistato e perso al tempo stesso questa notte, lasciando Dominique Wilkins in testa in solitaria). Un traguardo mai raggiunto prima, ma di certo non quello da festeggiare, visto che la cavalcata dei Rockets non vuole interrompersi come tre anni fa a questo punto sempre contro Golden State: “Non voglio alcun tipo di celebrazione: chi gioca soltanto per conquistare una finale di conference? Capisci quello che intendo? Abbiamo altre otto vittorie da portare a casa da qui a fine stagione. Non so cosa si prova a stare su un palcoscenico di quel tipo, so soltanto che abbiamo ancora un bel po’ di lavoro da fare”. La point guard dei Rockets se l’è preso con le unghie e con i denti, giocando il miglior quarto e la miglior partita ai playoff della sua carriera. Venti punti nella quarta frazione (mai così tanti in 13 anni), chiudendo a quota 41 punti (massimo in carriera), dieci assist e zero palle perse. Dal 1977 a oggi – ossia da quando vengono conteggiati a referto anche i palloni gestiti con superficialità - mai nessuno era riuscito a mettere insieme cifre del genere in una sfida playoff. “La sua prestazione è stata incredibile - racconta James Harden, che per una sera ha lasciato il centro della scena a CP3 -, soprattutto considerando che per lui era un’opportunità unica. Era chiaro che volesse mettere il suo marchio su questa qualificazione. Si è caricato l’intera squadra sulle spalle dicendo: ‘Ascoltatemi, lasciate fare a me’. Ha messo a referto una prestazione storica, una partita unica nel suo genere. Si è portato dietro la borsa degli attrezzi e ha tirato fuori tutte le sue armi nascoste. Si vedeva già dal suo sguardo quali fossero le sue intenzioni”. E per una volta Harden, come tutto il Toyota Center che ha continuato a urlare per tutto il quarto periodo "CP3, CP3, CP3", si è goduto lo spettacolo.
Tanti i tentativi di Paul andati a vuoto in passato
“È una di quelle sere in cui se un avversario tira in quel modo, devi soltanto toglierti il cappello e rendere merito a un giocatore così in gamba”, racconta Donovan Mitchell, che è stato costretto ad arrendersi dopo un terzo quarto da 22 punti segnati a causa di un infortunio che lo ha messo ko. “Lui è sempre decisivo, ma questa notte ha fatto un ulteriore passo in avanti in quanto a prestazione”. E dire che in passato spesso non erano servite, visto che nei quattro tentativi precedenti (uno con New Orleans, tre con i Clippers) era sempre stato battuto in semifinale. Per ben due volte poi era arrivato a una sola partita dal traguardo: nel 2008 al suo esordio playoff contro San Antonio, battuto a gara-7; nel 2015 sconfitto in rimonta dai Rockets. Quelli che adesso sono tornati in finale di conference proprio grazie a lui: “Sapevo che questa volta non saremmo ritornati nello Utah, approfittando dell’opportunità di poter chiudere i conti in Texas – racconta Luc Mbah a Moute, che con Paul ha condiviso gli ultimi anni ai Clippers -, quando eravamo a Los Angeles abbiamo perso l’opportunità di andare in finale nonostante fossimo avanti 3-1. Adesso che Harden non è al meglio, sapevo che Paul avrebbe fatto di tutto per farcela. Nel quarto periodo è andato oltre ogni previsione. È di gran lunga una delle migliori partite che gli abbia mai visto giocare”. Messa a referto in uno dei momenti più importanti della sua carriera.