Stanotte si affrontano per la prima volta da avversari, ma il rapporto tra gli allenatori di Golden State e Houston risale a un'unica e fallimentare stagione assieme ai Phoenix Suns. Ecco perché tra loro due le cose sono finite male, nonostante le premesse fossero ottime
Questa notte Steve Kerr e Mike D’Antoni cominceranno la serie di finale di conference che determinerà la finalista dell’Ovest alle Finali NBA, nonché con ogni probabilità la favorita assoluta alla vittoria del titolo. Ma questa serie è soltanto l’ultimo capitolo di un rapporto personale che affonda le sue radici a più di dieci anni fa, quando i due hanno condiviso la stessa franchigia per un’unica ma significativa stagione ai tempi dei Phoenix Suns. In quei giorni D’Antoni era l’allenatore più vincente della storia della franchigia, detenendo peraltro un enorme potere all’interno della squadra; Kerr, invece, era appena passato da commentatore televisivo e consulente della squadra al ruolo di General Manager per la prima volta nella sua carriera post-basket giocato. La combinazione, almeno vista da lontano, aveva tutto per funzionare: entrambi intelligenti, divertenti, amichevoli, comunicativi e innovativi nel loro modo di intendere la vita e la pallacanestro. Idealmente sarebbe potuta essere una grande collaborazione. La realtà, però, spesso racconta una storia diversa rispetto a quella idealizzata, e il motivo è da ricercare in tutti quei fattori esterni che inevitabilmente finiscono per interferire nella relazione personale di due menti di pallacanestro straordinarie. Come raccontato in maniera molto approfondita dal giornalista Anthony Slater di The Athletic, questa è la storia di come il rapporto così promettente tra Kerr e D’Antoni alla fine non ha portato ai risultati sperati, ma anche di come funga da sfondo alla serie tra Golden State e Houston che comincerà stanotte.
Uomo di Colangelo, uomo di Sarver
Come spesso accade, i problemi tra i due cominciarono molto prima del loro effettivo incontro. Mike D’Antoni era stato assunto come assistente allenatore dalla precedente proprietà dei Phoenix Suns, quella sotto la gestione di Colangelo padre (Jerry, proprietario) e figlio (Bryan, GM della squadra). Le cose però hanno cominciato a cambiare molto in fretta a partire dalla promozione di D’Antoni a capo-allenatore nel dicembre del 2003: 32 giorni dopo quella scelta, infatti, la dirigenza guidata da Bryan Colangelo decise di cedere la stella Stephon Marbury ai New York Knicks, e al termine della stagione Jerry Colangelo completò la vendita della franchigia a Robert Sarver per la somma (al tempo record) di 401 milioni di dollari. Ad aiutare quella transazione fu proprio Steve Kerr, introdotto a Sarver da un amico comune e importante nel mettere in contatto il miliardario con il commissioner David Stern per entrare nella NBA.
La riconoscenza di Sarver nei confronti di Kerr si sarebbe manifestata negli anni successivi con un contratto da consulente, spesso cercando il suo consiglio sulle decisioni cestistiche da prendere – cosa che tendeva a irritare dirigenti e allenatori stipendiati dalla franchigia, spesso ignorati o ritenuti meno “autorevoli” rispetto ai tanti personaggi esterni consultati dal vulcanico Sarver. La dirigenza della squadra era comunque rimasta in mano a Bryan Colangelo, perché immaginare i Suns senza un membro di quella famiglia era semplicemente impensabile, ma dopo una lunga serie di incomprensioni – dovute principalmente allo storico “braccino corto” di Sarver, responsabile soprattutto della mancata estensione di contratto con Joe Johnson – Bryan decise di accettare l’offerta dei Toronto Raptors nel 2006, diventandone il presidente.
Invece di cercare un nome esterno (e quindi pagare un contratto in più), Sarver decise di affidare l’incarico di GM allo stesso D’Antoni, che già con Colangelo in carica aveva ottenuto un potere sempre maggiore all’interno della franchigia grazie agli ottimi risultati ottenuti insieme a Steve Nash. Nella realtà di tutti i giorni il GM di fatto dei Suns era David Griffin, poi campione NBA con i Cleveland Cavaliers nel 2016, ma almeno all’apparenza era il coach a detenere l’ultima parola su tutto. L’ennesima eliminazione per mano dei San Antonio Spurs – quella più dolorosa, dovuta alla sospensione di Amar’e Stoudemire e Boris Diaw a seguito della “giocata sporca” di Robert Horry su Nash –portò Sarver a cambiare qualcosa pur di superare l’ostacolo nero-argento, chiedendo a Kerr di diventare il General Manager della squadra, togliendo di fatto una parte di potere a D’Antoni. Soprattutto, alla base della tensione del loro rapporto c’era questa insindacabile verità: D’Antoni era un uomo dei Colangelo, Kerr era un uomo di Sarver. E sulla panchina aleggiava la voce che il secondo avrebbe potuto diventare un allenatore nel breve periodo.
Le interferenze nel coaching e il dubbio sulle ambizioni di Kerr
Kerr ebbe una veloce introduzione ai metodi di Sarver quando come prima cosa da fare ebbe l’ordine di andare sotto la soglia della luxury tax, venendo costretto a cedere il contratto di Kurt Thomas insieme a due prime scelte (poi diventate Serge Ibaka e Quincy Pondexter) ai Seattle Supersonics per alleggerire il monte salari e quindi l’esborso della proprietà. Questo però non ebbe ripercussioni dirette sull’anno passato insieme a D’Antoni quanto le interferenze di Kerr nella composizione della panchina. Con un posto da assistente allenatore da dover coprire, l’idea del GM era di aggiungere uno specialista della difesa, arrivando anche a tenere a colloquio nientemeno che Tom Thibodeau, poi passato ai Boston Celtics. Per D’Antoni però quello della difesa era un punto debole che mal digeriva, essendo convinto che le presunte “mancanze” dei Suns fossero di gran lunga sproporzionate rispetto alla realtà che li vedeva nella media della NBA per rating difensivo nonostante la presenza di due “casellanti” come Nash e Stoudemire. D’Antoni, ad esempio, era solito scrivere sulle sue lavagne messaggi come “Per 61 volte lo scorso anno abbiamo avuto la miglior difesa in campo”, citando le 61 vittorie raccolte nel 2006-07 nelle quali, a suo modo di vedere, segnando più degli avversari aveva dimostrato di avere una difesa migliore di quella degli avversari.
Oltre a quello, un altro momento controverso avvenne quando Kerr arrivò nella stanza degli allenatori a seguito di una rara sconfitta suggerendo di concedere più possessi in post basso a Stoudemire. Le intenzioni erano buone e sincere, nel senso che Kerr voleva davvero dare una mano per fornire un’opinione costruttiva, ma il momento e il posto erano sbagliatissimi, dando l’impressione che Kerr volesse un giorno diventare capo-allenatore della squadra. Questa opzione per la verità era totalmente fuori da ogni discussione per l’attuale coach degli Warriors, che non voleva lasciare la sua casa di San Diego fino a quando i suoi figli non fossero andati al college – cosa che poi è effettivamente successa nel 2014 prendendo il posto di lavoro offerto da Golden State, ma rifiutando diverse offerte negli anni precedenti.
La trade di Shaquille O’Neal e l’addio
La goccia che ha fatto traboccare il vaso di quella stagione e del quadriennio di D’Antoni a Phoenix è stato lo scambio che ha portato lo scontento Shawn Marion a Miami in cambio di un appesantito Shaquille O’Neal, arrivato ormai ai ferri corti con Pat Riley. L’idea era che i Suns non potessero superare l’ostacolo rappresentato dagli Spurs senza una presenza in area capace di contrastare Tim Duncan, ma non tutti erano convinti del fit di Shaq in quei Suns che avevano voglia di alzare i ritmi – a partire da Kerr, l’ultimo a convincersi che fosse la mossa giusta da fare. Tutti però alla fine erano concordi che qualcosa dovesse essere fatto, considerando anche la possibilità di risparmiare aggiungendo il contratto scomodo di Marcus Banks, cosa estremamente gradita alla proprietà. L’esperimento, però, come ben noto non andò a buon fine, chiudendo bene la stagione regolare con un record di 15-5 ma venendo eliminati, ancora una volta, da San Antonio al primo turno di playoff, complice una rarissima e pesantissima tripla di Duncan in gara-1 per forzare il secondo supplementare, poi vinta dando l’abbrivio al successo in cinque partite. Ad aggiungere ulteriori problemi ci fu una media availability tra le prime due gare della serie in cui sia D’Antoni che Kerr parlarono alla stampa contemporaneamente, una cosa che normalmente non succede per lasciare che sia il coach l’unico a parlare a nome della franchigia in un momento difficile. Anche qui le intenzioni di Kerr erano buone (voleva togliere un po’ di pressione al coach prendendosi le sue responsabilità), ma il suo gesto venne interpretato come un tentativo di scavalcare la figura dell’allenatore.
Con la tensione che serpeggiava da mesi, alla fine della serie contro San Antonio D’Antoni chiamò il giornalista Jack McCallum di Sports Illustrated dicendogli chiaramente che se ne sarebbe andato, notizia che sconvolse la franchigia. Nel pezzo sul suo addio venne anche citato un certo malcontento dell’allenatore per il fatto che Kerr avesse mantenuto la sua casa a San Diego, a significare un mancato coinvolgimento nelle sorti della squadra (per quanto il GM avesse preso un appartamento a Phoenix e fosse presente in tutte le riunioni). Nel pezzo su The Athletic Kerr non ha voluto riaprire quel capitolo, limitandosi a dire che “le circostanze ci hanno portato a un momento difficile e non abbiamo gestito la cosa nel migliore dei modi, ed essendo il GM tutto comincia da me”. Fatto sta che neanche un pranzo a tre tra Kerr, D’Antoni e Sarver riuscì a sistemare la situazione, anche perché Chicago e New York avevano già recapitato all’allenatore le loro offerte, di cui la seconda consisteva in un quadriennale da 24 milioni di dollari complessivi – una cifra altissima per l’epoca e poi accettata, pentendosene, dall’allenatore.
In quel modo si concluse il rapporto tra i due, che dopo quella stagione così tesa hanno appianato le loro divergenze anche grazie al “ponte” rappresentato da Alvin Gentry, promosso da Kerr dopo l’addio di D’Antoni e assunto come assistente nel 2014 quando l’ex GM è diventato capo-allenatore ai Golden State Warriors. “Sono entrambi delle persone stupende” ha commentato sulla storia Steve Nash, anello di congiunzione tra entrambe le figure. “È triste che la loro collaborazione non sia finita in termini migliori, ma è la natura di questo business: tutti sono sottoposti a un’enorme pressione. Avevamo una squadra che voleva fare grandi cose, ma c’erano tante decisioni da prendere e questo ha lasciato degli strascichi sul loro rapporto lavorativo”. Oggi si affrontano da avversari in campo: chi mai lo avrebbe potuto dire dieci anni fa?