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NBA Finals, come Andre Iguodala ha lasciato il segno in gara-3

NBA

Fabrizio Gilardi

Dopo sei partite di assenza, il veterano dei Golden State Warriors è tornato in campo in gara-3 ed è stato subito decisivo, chiudendo col secondo miglior plus-minus alle spalle di Kevin Durant e lasciando la firma sulle giocate più importanti del finale di partita

Con una dote di due anelli di Campione NBA che a breve dovrebbero diventare tre, un premio come MVP delle Finals 2015, altri riconoscimenti individuali di rilievo e una candidatura legittima per un posto nella Hall of Fame, Andre Iguodala non è più un giocatore sottovalutato e non ha più bisogno che le sue qualità vengano messe in risalto. Inoltre, la differenza di valori messa in campo dalle due squadre finaliste di quest’anno è talmente ampia che probabilmente i Golden State Warriors non avrebbero avuto bisogno di lui per battere quattro volte in sette gare i Cleveland Cavaliers — nonostante il rendimento tutt’altro che brillante di Patrick McCaw, al rientro da un infortunio piuttosto serio alla schiena, e di Nick Young, cui coach Seve Kerr ha provato (o forse sarebbe meglio dire si è trovato costretto) ad assegnare un posto in rotazione in assenza di Iguodala.

La cronaca della partita che quasi certamente ha indirizzato in modo deciso e definitivo la serie ci ha dato conferme non richieste, ma sempre utili sulle condizioni di questi due giocatori: McCaw sostanzialmente non ha messo piede in campo e Young ha realizzato un trilione (zero in tutte le voci statistiche incluse nel tradizionale tabellino) da quasi 5 minuti, pareggiando le imprese di altri tre atleti e issandosi al terzo posto del podio della categoria nelle sole Finals dietro ai leader Todd MacCulloch (8 minuti in gara-3 delle finali 2001) e Damon Jones (12 incredibili minuti di nulla in gara-1 nel 2007), rispettivamente compagni di Allen Iverson e LeBron James in altre due sfide in cui la differenza di talento e profondità tra le squadre coinvolte era enorme. Solo che Young in questo caso gioca per quella forte, il che se possibile rende la situazione ancora più paradossale.

Tornando al punto, gara-3 ha offerto un bigino di cosa è in grado di fare il 34enne Andre Iguodala (classe 1984 come LeBron James… e come Kendrick Perkins: prova nº 27639 che LeBron non ha senso e non appartiene a questo mondo), di quali abilità siano in calo e quali caratteristiche siano ancora invece assolutamente adatte al livello di una finale NBA.

 

L’ultima regular season è stata la peggiore della carriera al tiro: per la prima volta sotto il 30% di realizzazione e con drastico calo anche dei tentativi (solo 3.5 per 100 possessi, il dato più basso degli ultimi 10 anni). Lo sa lui, che non guarda nemmeno il canestro e restituisce il pallone a Klay Thompson come fosse una patata bollente, e lo sa LeBron, che non guarda nemmeno Iguodala e si preoccupa di riempire l’area. Thompson è fenomenale, ma la creazione di un tiro dal palleggio, specie attaccando il canestro, non è esattamente tra le sue specialità e il risultato è abbastanza prevedibile.

Questo però non significa che Iguodala sia dannoso per l’attacco degli Warriors, anzi: il tiro è una componente fondamentale della fase offensiva nella NBA attuale, ma non è totalmente imprescindibile, a patto che i non-tiratori presenti in campo siano in grado di rendersi utili in altro modo. In gara-3 i Cavaliers hanno deciso — o per meglio dire anche in questo caso sono stati costretti dall’esplosione di Steph Curry in gara-2 — di blitzare il portatore di palla, cioè gettargli addosso due difensori prima che potesse incontrare un blocco, spesso appena passata la linea di metà campo. Gli Warriors però sapevano esattamente che questo sarebbe successo e avevano già preparato la contromossa corretta.

Iguodala agisce da lungo, finta il blocco e taglia verso il canestro (azione che prende il nome di slip, ideale contro una difesa che cambia in modo sistematico o quasi) e Kevin Durant non deve fare altro che affidargli il pallone per creare una situazione di 4 contro 3 che inevitabilmente si conclude con un tiro comodo o addirittura non contestato al ferro come in questa occasione e in altre 21 durante la partita, realizzandone 18.

Iguodala riesce a essere un giocatore positivo in attacco anche solo grazie ai tagli e al playmaking: che il parziale decisivo nel quarto quarto (+7 negli ultimi 7 minuti) sia arrivato in sua presenza è tutto tranne un caso. Anche la storia del suo plus-minus nella Finali è tutto tranne un caso: su partita singola il plus-minus è un dato statistico che dice poco e può essere corrotto da rumore di fondo, ma sul lungo periodo se una squadra batte regolarmente le avversarie quando schiera un certo giocatore o una certa combinazione di giocatori un motivo ci sarà.

Nel 2015 ha raccolto un +62 complessivo (serie vinta da Golden State con 43 punti di scarto totali), sempre positivo, con il miglior differenziale tra Net Rating in campo e Net Rating fuori dal campo. Nel 2016 ha chiuso con +19 (serie vinta dai Cavs di 4 punti); nel 2017 +60 in soli 141 minuti (+34 Warriors), nuovamente sempre positivo, nuovamente con il miglior differenziale on/off; in gara-3 di quest’anno, l’unica disputata per via dell’infortunio al ginocchio rimediato contro Houston, ha finito con +14, secondo solo al +15 di Kevin Durant, per quanto poco possa valere.

Il piatto forte della casa resta però la difesa. Di nuovo: non è un caso che la tripla di Curry, l’unica di una serata cominciata con 9 errori consecutivi da tre, derivi dal caos creato da una maestosa palla rubata di Iguodala non è un caso.

La rapidità e la precisione con cui riesce a mettere le mani su qualsiasi pallone gli capiti a tiro non ha eguali in tutta la NBA, spesso fino al punto che gli arbitri in assenza di visuale chiara gli fischiano fallo sulla (s)fiducia, per le pochissime possibilità che l’attaccante abbia perso il possesso senza interventi irregolari, quando in realtà le immagini mostrano solo una (enorme) mano su un pallone, come successo anche un paio di azioni prima di quella mostrata nella clip.

Iguodala non è il nuovo Scottie Pippen, anche se si è sempre ispirato a lui. Non è il nuovo Manu Ginobili, anche se la sua disponibilità a rinunciare al posto in quintetto ha contribuito ad aprire le porte ad una dinastia. E non è nemmeno il nuovo Ron Harper, anche se l’arco della sua carriera ha seguito lo stesso percorso di quella del pretoriano per eccellenza di Phil Jackson, da stella in squadre mediocri a collante di una leggendaria. 

Servirà cercare il nuovo Andre Iguodala, piuttosto, perché quello vero ha aiutato a cambiare la NBA e continua a farlo.