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NBA, Ron Harper: “La mia carriera tra Jordan, Kobe e gli Warriors”

NBA

Dario Vismara

Ron Harper tra Michael Jordan e Scottie Pippen, i membri del Breakfast Club (Foto Getty)
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Ospite d'onore della NBA Fan Zone di Milano, Ron Harper ha raccontato a lungo la sua carriera nella NBA, costellata da cinque titoli di campione. "Non nascerà mai più uno come Michael Jordan, meglio di LeBron e di Kobe. I miei Bulls avrebbero battuto gli Warriors 4-0. Irving? Pensa solo a se stesso, io non me ne sarei mai andato"

L’opportunità di parlare, conversare e discutere con un cinque volte campione NBA non capita tutti i giorni. Per questo, quando insieme ad altri colleghi della stampa abbiamo avuto l’opportunità di parlare a lungo con Ron Harper, ospite d’onore del weekend milanese alla Fan Zone organizzata in Piazza Duomo, non ci siamo fatti scappare la possibilità di andare in profondità nella sua carriera NBA. Una carriera partita da lontano, da Dayton nell’Ohio, e che lo ha portato al massimo livello del mondo della pallacanestro e in posti diversissimi, “luoghi in cui non avrei mai pensato di poter visitare quando ero solo un ragazzino a cui piaceva la pallacanestro”. Ron Harper è passato alla storia come la point guard titolare dei secondi Chicago Bulls di Michael Jordan, quelli dei tre titoli consecutivi e del miglior record della storia della NBA, quel 72-10 che solo due anni fa è stato superato dai Golden State Warriors di Steph Curry, Klay Thompson e Draymond Green. Inevitabile allora partire proprio dal paragone tra quelle due squadre, su cui Harper non ha dubbi: “I miei Bulls sono una delle migliori squadre di sempre: avevamo grandissimi giocatori, da Michael Jordan a Scottie Pippen – due dei giocatori più competitivi con cui io abbia mai giocato –, ma anche altri che hanno avuto grandissime carriere come Dennis Rodman, Steve Kerr, Toni Kukoc, gente che sapeva come giocare. Ma soprattutto ci divertivamo a giocare insieme in un ambiente altamente competitivo. Detto questo, in una serie al meglio delle sette li avremmo battuti 4-0. Sono troppo piccoli, non avrebbero potuto batterci. Nel gioco di oggi si parte dal perimetro, dalla linea dei tre punti, e si prova ad andare dentro; noi invece partivamo da dentro, vicino a canestro, e costruivamo conclusioni più facile. Se loro avessero sbagliato otto tiri in fila, noi avremmo segnato 10-12 punti in contropiede cruciali per l’economia della gara. Golden State sta vivendo un grande periodo e nel 2015-16 ha fatto una grande annata, ma come dico sempre: il loro 73-9 non è riuscito a vincere il titolo, invece il nostro 72-10 ‘has a ring to it’”.

Come battere i Golden State Warriors

Il tema di Golden State è ovviamente caldissimo, visto che è la squadra più vincente dell’ultimo triennio della lega ed oltretutto è allenata da un suo ex compagno di squadra come Steve Kerr: “Ma fatemi dire una cosa: anche voi potreste allenare quella squadra e sembrare bravissimi, perché talenti del genere si gestiscono da soli. Detto questo, Steve ha fatto un grande lavoro nel fare in modo che tutti stessero sulla stessa lunghezza d’onda e ha lasciato la sua impronta soprattutto in difesa”. Quando gli chiediamo che giocatori in attività sceglierebbe per batterli in una serie al meglio delle sette (ovviamente assieme alla miglior versione di se stesso), la sua risposta è articolata: “Questa è dura: devo scegliere me stesso prima o dopo l’infortunio [la rottura del legamento del ginocchio che nel 1990 ha cambiato la sua carriera, ndr]? Comunque sceglierei gente che sa segnare e giocare entrambe le metà campo – per questo non prenderei mai James Harden, che non la passa mai e non difende. Andrei innanzitutto con LeBron James e completerei il quintetto con Kawhi Leonard, Paul George e Russell Westbrook. Dite che Westbrook non la passa? Tranquilli, non avrebbe la palla in mano così tanto, abbiamo pur sempre LeBron che sa fare tutto quello che serve per vincere. Giocheremmo in funzione del suo talento, perché è il migliore a far rendere i suoi compagni al massimo livello”.

Il paragone James-Jordan e l’incubo di “The Shot”

Una volta uscito il nome di LeBron James, la domanda sul paragone tra il “King James” e “His Airness” non può che essere automatica: “Tra Jordan e James sceglierei comunque MJ, perché era un assassino silenzioso: ogni volta che entrava in campo voleva strapparti il cuore, voleva ferirti nell’orgoglio. LBJ invece fa tutto quello che serve per vincere, ma poi vuole essere amico di quelli con cui va in campo. A Jordan bastava dire ‘Prendi quello lì’ e lo cancellava dal campo. Quante volte James è andato in finale, otto? E quante ha vinto, tre? Quanto ha fatto Michael invece? Sei su sei. Perciò fate voi i conti…”. Harper ovviamente ha avuto grande successo nel ruolo di scudiero di Jordan, ma non è sempre stato così. Anzi. Uno dei ricordi più dolorosi della sua carriera è legato proprio a un canestro di MJ, quel “The Shot” che rappresenta il primo momento in cui Jordan si è affermato al mondo come l’incredibile talento che poi è diventato negli anni ’90, eliminando i Cleveland Cavaliers di Harper al termine di una combattutissima serie al meglio delle cinque gare. Quando gli chiediamo il suo ricordo di quell’azione, la sua risposta è tagliente quanto scherzosa: “In questo momento non mi piacete proprio per niente…” ha detto con un mezzo sorriso. “Io provai a dire in panchina cosa sarebbe successo, che sarebbero andati da Michael e che avremmo dovuto raddoppiarlo per negargli la ricezione o quantomeno il tiro. Ma decisero di difendere in maniera differente: quando ho visto che era riuscito a prendere il pallone, sapevo che avrebbe segnato di sicuro. Fece un paio di palleggi verso il centro, io ero in marcatura su Horace Grant [in realtà era su Pippen, ndr] e sapevamo tutti che Horace non avrebbe mai voluto quella palla, era come se fosse nel parcheggio. E mi dicevo: ‘Perché sto marcando questo? Non gliela daranno mai!’. Ma ero troppo lontano per poter intervenire su MJ, che ovviamente poi ha segnato e ci ha condannato all’eliminazione. ‘The Shot’ mi perseguiterà per il resto della mia vita e ancora oggi mi viene difficile raccontarlo: superando quel turno avremmo potuto battere New York o Detroit”.

Il mio amico MJ e la nascita del “Breakfast Club”

Per sua fortuna, Harper è poi passato dall’altra parte della barricata ed è diventato suo compagno di squadra ai Chicago Bulls – anche se, al momento della firma, non se lo sarebbe potuto aspettare. Dopo i Cavs, infatti, ha avuto un periodo molto lungo da miglior realizzatore dei Los Angeles Clippers, dal 1989 al 1994, insieme a un compagno sfortunato come Danny Manning (“Senza infortuni sarebbe passato alla storia come uno dei migliori di sempre, sapeva fare qualsiasi cosa”) e altri che bazzicano ancora oggi nella lega come Doc Rivers (“Si vedeva che sarebbe diventato un allenatore prima o poi”) e Mark Jackson (“Lui invece non quando giocava non sembrava avere il DNA da allenatore, ma quando giochi così a lungo da point guard nella NBA sei già un po’ un allenatore in campo”). Poi, nell’estate del 1994, ha accettato la corte dei Bulls che erano alla ricerca di un realizzatore che potesse colmare il buco lasciato da Jordan, impegnato con il baseball. “Nel mio primo anno ai Bulls non ero in forma per poter giocare e Phil lo sapeva, per questo mi aveva dato diverso tempo per rimettermi in sesto. MJ però stava in palestra più di quanto lo facessi io, era letteralmente lì tutti i giorni, eppure continuava a dire ‘No, non giocherò più, ho smesso, mi sto solo tenendo in forma…’ e poi era sempre in campo. Per quello gli dicevo: ‘Dai, smettila di prendermi in giro e torna a giocare, tanto sappiamo che è quello che vuoi’. ‘No no, a me piace solo il gioco e competere…’. Poi siamo andati via per il weekend dell’All-Star Game e io sono andato a Las Vegas per svagarmi; una volta tornato a Chicago, ho trovato telecamere e camion delle televisioni che assediavano il campo d’allenamento e mi sono detto ‘Ma che ca**o è successo? Mi hanno scambiato?’. Tutti mi si avvicinavano per una dichiarazione ma io non sapevo nulla, c’era il caos più totale. Quindi sono entrato in spogliatoio e sulla lavagna c’erano solo tre parole: ‘I AM BACK’. E non c’era bisogno di nient’altro, bastava questo”.

Per rimettersi in forma più in fretta, la prima mossa di Jordan fu quella di istituire il “Breakfast Club”, un gruppetto di allenamento privato formato da lui, Pippen e Harper seguiti strettamente dal trainer Tim Grover. “Michael è venuto subito da me e mi ha detto: ‘Da adesso in poi ci alleniamo a casa mia, vuoi venire?’. Io ho risposto: ‘Certo MJ, a che ora?’. ‘6.45. Della mattina’. ‘Man, a quell’ora a malapena mi giro nel letto, sei impazzito?’. E lui solo: ‘Fatti trovare a casa mia’. Da lì ho capito che era tornato per fare sul serio, ma in realtà lo sapevamo già tutti: non vai in palestra tutti i giorni se non vuoi davvero rientrare in campo”. Quel gruppetto però gli ha permesso di vedere un MJ nascosto, privatissimo – una visione privilegiata nel modo di prepararsi del più grande giocatore di sempre: “Non ci sarà mai più un altro come Michael Jordan, o uno fatto come lui – uno che veramente rispettava il gioco, che lavorava estremamente duro ogni giorno, che si metteva in competizione con tutti per qualunque cosa, uno che da piccolo si era sentito dire che non avrebbe potuto fare certe cose e da quel giorno si è impegnato a dimostrare che ci sarebbe riuscito. Mi sono divertito a competere contro di lui all’inizio della mia carriera, ma quando ho avuto la possibilità di diventare suo compagno e vedere da vicino quanto lavorasse sul suo gioco, mi ha fatto scoprire una persona completamente nuova”.

Da realizzatore a point guard e i titoli in serie

Il ritorno di MJ, però, non fu indolore per Harper. “Avevo appena cominciato a giocare bene quando è tornato Michael: mi ricordo che nella partita di New York [quella del famoso “double-nickel”, 55 punti alla quinta partita dopo il rientro, ndr] non ho giocato neanche un secondo per scelta tecnica ed ero arrabbiato. Coach Phil Jackson allora è venuto da me e mi ha detto solo: ‘Stai tranquillo, preparati e fatti trovare pronto, troveremo un modo di farti giocare’. È stato difficile, ma sapevo che per rimanere in una squadra da titolo dovevo dimostrare di poter ricoprire anche un altro ruolo rispetto a quello che avevo avuto fino a quel momento. Sono tornato in palestra e mi sono allenato per giocare da point guard, perché in quel ruolo avrei potuto partire da titolare con Michael e Scottie. Ci ho messo un’estate intera, ma ancora ricordavo come ricoprire quel ruolo dai miei tempi all’high school e al college. Se vuoi giocare al più alto livello, devi sapere anche come giocare”. Harper ha dovuto sottoporsi a un bagno di umiltà per poter vincere quello che ha vinto, ma non ha neanche un rimpianto per quanto riguarda la sua carriera: “Tutti vogliono essere i realizzatori che segnano 20 punti a partita ed essere considerati i giocatori-franchigia: io lo sono stato, e le mie squadre non erano poi così forti. Dopo nove anni da ‘scorer’, volevo solamente vincere un titolo: ci si allena tutto l’anno per vincere l’ultima gara della stagione e quando vedi gli altri che lo fanno ti fa stare malissimo. Dopo un po’ ti accorgi che la regular season non conta nulla, e lo stesso vale per l’All-Star Game: solo i playoff e i titoli sono davvero importanti. Una volta accettato questo, diventa più facile trasformarsi in un giocatore di ruolo, specialmente quando ti ritrovi in squadra con gente del livello di Jordan, Pippen e Kukoc. Con quei tre sapevo che non ci sarebbero stati tiri per me in quella squadra – perciò ho dovuto concentrarmi di più sulla metà campo difensiva, e a me stava bene. Per il successo che ho avuto, preferisco la seconda versione di Ron Harper rispetto alla prima, perché da miglior realizzatore non sarei riuscito a vincere quello che ho vinto”. 

Oltre a giocatore importante in campo, però, Harper ha ricoperto un ruolo cruciale anche nello spogliatoio, cercando di tenere assieme tutte le anime della squadra – tra cui quella inquieta di Dennis Rodman. La sua opinione a riguardo, però, è per certi versi sorprendente: “Non è stato per niente difficile integrarlo nel nostro spogliatoio: Dennis è un ragazzo di grande talento ed è molto intelligente. Faceva vedere a tutti i suoi capelli colorati e in campo si faceva notare per i rimbalzi, ma era tutta una messa in scena, il suo modo di dettare al resto del mondo come parlare di lui. E lo faceva meglio di tante altre ‘superstar’. In realtà era uno tranquillo e non abbiamo cercato di cambiarlo in nessun modo: quando è arrivato, l’unica cosa che gli abbiamo chiesto è di mostrarci rispetto e di farsi trovare in orario – cosa che ogni tanto non faceva, ok. Ma quando entrava in campo per allenarsi o per giocare, era un professionista esemplare che dava tutto quello che aveva senza uscire dallo spartito. Ed era l’unica cosa che ci importava, perché volevamo solamente vincere”. L’estate del 1998 però la maggior parte di quella squadra leggendaria se ne è andata, mentre lui è rimasto a Chicago per un’altra stagione a fare da chioccia a un roster giovanissimo: “L’anno dopo che Phil, Michael, Scottie e Dennis se ne erano andati è stato tristissimo. Ero passato da una squadra da titolo al lockout, che fortunatamente ha accorciato una stagione in cui tutte le squadre cercavano di prenderci a calci nel sedere dopo che noi lo avevamo fatto per anni. È lì che mi sono detto che avevo fatto abbastanza, che non avevo più voglia di quella vita. Avevo fatto la mia carriera, ero a posto con me stesso”.

La chiamata di Phil Jackson e il passaggio ai Lakers

Proprio quando si stava preparando a una vita da giocatore amatoriale di golf, sul suo telefono è arrivata una chiamata dal suo coach, Phil Jackson: “Quando ho lasciato Chicago ero convinto di aver finito la mia carriera in NBA, ma quando Phil ha preso il posto di capoallenatore a L.A. mi ha chiamato e mi ha detto ‘Ron, che cosa stai facendo?’. Io ho risposto: ‘Ehi coach, vado sul green a giocare a golf!’. E lui: ‘No, rimettiti in forma, devi tornare a giocare’. ‘Ma no coach, ormai ho finito, mi sono fatto i miei anni’. ‘No che non hai finito, vieni qui che ho bisogno di te’. ‘Ok, coach, arrivo’. Poi quando sono arrivato a L.A. ho visto immediatamente quanto potenziale ci fosse nei giovani di quella squadra, ma giocavano tutti in maniera individualistica e non riuscivano a diventare un gruppo. Quando Phil mi chiese cosa ne pensassi gli ho detto ‘Talento ne abbiamo, ma non c’è nessuno che muove la palla’. E lui mi ha risposto: ‘Quello è esattamente il motivo per cui ti ho chiamato’. Mi ricordo quel momento come se fosse passato un giorno: eravamo a bordo campo quando aveva appena finito di dire quella frase, e Shaquille O’Neal ha tirato giù un rimbalzo difensivo, è partito in contropiede solitario, ha fatto una virata a metà campo, è andato in mezzo alle gambe e una volta arrivato alla linea dei tre punti ha fatto un balzo e poi ha saltato a centro area, schiacciando con tutta la forza che aveva. Mi sono girato verso Phil e gli ho detto: ‘Vinceremo il titolo, senza alcun dubbio. Siamo a posto, qui ci penso io”.

Tenere assieme le personalità di due come Shaquille O’Neal e Kobe Bryant, però, è stato tutt’altro che semplice: “Oh, Shaq e Kobe si amavano un sacco… [ride, ndr]. Dovessi scegliere uno dei due, però, andrei tutta la vita con Shaq: nei suoi giorni migliori non si poteva fermare. La differenza tra loro due è che Shaq ci teneva che tutti gli volessero bene, voleva essere amato, mentre a Kobe non gliene fregava niente: diceva di essere il miglior giocatore della squadra e si comportava come tale. Kobe si faceva trovare sempre pronto a giocare, mentre Shaq aveva bisogno di entrare in forma gradualmente, cosa che faceva incazzare Bryant. Lui diceva: ‘Non ho tempo di aspettarlo, perciò vado in campo e segno’. Eravamo noi veterani che dovevamo dirgli di prendersela con calma, di non accelerare così tanto, perché dovevamo darla dentro a Shaq per i primi tre quarti e poi nell’ultimo saremmo andati da lui per chiudere la pratica, perché era il migliore in quello. Né O’Neal né Bryant erano sempre d’accordo con quel piano, ma alla fine ha funzionato”. Non a caso, nella sua prima visita a Milano (“Non vedo l’ora di assaggiare il vostro cibo, non sarò mai in stanza”, ha promesso ridendo) Harper aveva al dito l’anello conquistato nel 2000 contro gli Indiana Pacers. “Come ci si procura un anello da campione NBA? Lavorando duro e avendo in squadra grandi giocatori. Tutti parlano di quanto sono forti i Golden State Warriors oggi, ma vogliamo parlare di quanto erano forti Shaq e Kobe da giovani, di quanto fossero inarrestabili? Shaq non si poteva fermare, Kobe è la cosa più vicina a MJ che si sia mai vista, e avevamo un sacco di giocatori di complemento – Robert Horry, Rick Fox, Horace Grant, Derek Fisher, Brian Shaw – che formavano una grande squadra. C’erano anche dei litigi all’interno, ma quando andavamo in campo giocavamo e basta”.

Ron Harper oggi, da Kyrie Irving a suo figlio

Parlando di questi temi, Harper ha un’opinione molto peculiare sulla scelta di Kyrie Irving, in cui rivede alcuni tratti dei compagni avuti a L.A.: “Kyrie è un grandissimo talento, ma non gli interessa della sua squadra: gli interessa solo di se stesso. E nella NBA di oggi bisogna avere due o tre grandi giocatori per vincere il titolo. Io non avrei mai chiesto di andarmene da una squadra che ha fatto le Finali NBA per tre anni in fila, che mi ha fatto vincere il mio primo titolo e che ha perso solamente contro Golden State. Io non so cosa diavolo sia successo, non lo conosco personalmente, forse non voleva vivere nell’ombra di LeBron James, ma io penso che non si giochi per quello che c’è scritto sul retro della maglia ma per quello che c’è davanti. E poi la squadra che ha LeBron James è sempre la favorita per vincere il titolo e mi aspetto che Cleveland vinca di nuovo la Eastern Conference. Kyrie giocherà all’All-Star Game, ma per il resto… addio”. Parole da veterano ma anche da orgoglioso abitante dell’Ohio, il suo stato natale in cui ha lasciato il cuore: “Giocare a casa mia è stato bellissimo, la miglior sensazione del mondo. Quando ho detto a mia madre che avrei voluto andare ad Arizona State per il college, lei mi ha detto solo ‘No, non lo farai. Tu andrai a Miami University a Oxford, Ohio, perché è a 45 minuti di distanza da casa. Non prenderò un dannato aereo per vedere giocare mio figlio’. Ma è stata la cosa migliore della mia vita. Io amo l’Ohio. E anche se ora vivo nel New Jersey, passo i miei mesi estivi in Ohio. E anche se sono orgoglioso di aver giocato per i Chicago Bulls, nel mio cuore sono un tifoso dei Cleveland Cavaliers perché è la squadra del mio stato. E lo sarò per sempre”. Oggi però c’è un’altra impellenza nella vita di Harper: la carriera di suo figlio Ron Jr., che il prossimo anno giocherà a Rutgers University. Inizialmente Harper è sorpreso dalla domanda sul primogenito (“Ma come è possibile che in Italia riceva domande su mio figlio…” dice ridendo), poi non si lascia pregare nel tesserne gli elogi: “Sono molto orgoglioso di quello che sta facendo, sta lavorando tantissimo e con grande umiltà perché ha sempre amato il gioco. Io non lo ho mai spinto verso quella direzione, è cresciuto con questo amore e sono contento che le sue doti da giocatore di pallacanestro finalmente abbiano raggiunto la misura dei suoi piedi, che sono enormi [ride, ndr]. Non sono un papà assillante, vado alle sue partite e mi siedo in alto per non dare fastidio, lui mi saluta e io ricambio: lascio che faccia il suo percorso. Un consiglio che gli darei? Che continui a essere se stesso e che non provi a diventare come me”. Parola di un cinque volte campione NBA che oggi, a 53 anni, ha più storie di raccontare di quelle che potrebbero riuscire ad ascoltare i suoi prossimi nipotini.