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NBA, LeBron James: “Il futuro? Ora non lo so, ma voglio giocare per il titolo e aver talento attorno a me”

NBA

Mauro Bevacqua

Appena suonata la sirena di gara-4, il tema del destino futuro di LeBron James l'ha fatta immediatamente da padrone: conterà l'opinione della famiglia - dice lui - ma anche le prospettive di vittoria nell'ultima fase della sua carriera: "So di poter dare ancora tanto a questo gioco"

CLEVELAND, OHIO — Se ha giocato la sua ultima partita in maglia Cavs, le emozioni non sono mancate. Molte però non le ricorderà volentieri, a partire dalla delusione per la sconfitta (108-85) di gara-4, una partita che LeBron James chiude con soli 13 tiri e un tabellino che dice 23 punti, 8 assist e 7 rimbalzi. Per lui nulla di eccezionale, almeno non al livello di una serie in cui ha ha creato, assistito o segnato 70 punti in gara-1, 68 in gara-2 e 73 in gara-3 (solo 47 nell’ultima sfida, per un totale di 258 punti sui 404 messi a tabellone in totale dai Cavs). Poi c’è il dramma della mano rotta, rivelato negli attimi immediatamente successivi alla sirena finale (“Vi piace il tutore che indosso, eh?”, chiede divertito all’esplosione di flash ogni volta che la mano destra incriminata diventa visibile agli obiettivi dei fotografi in conferenza stampa). E poi, ovviamente, le domande sul suo futuro, il vero elefante nella stanza dal momento in cui si sono concluse le finali NBA 2018. “Il mio futuro? In questo momento non ne ho idea. Sceglierò insieme alla mia famiglia, come ho sempre fatto, tenendo in considerazione anche le esigenze dei miei figli. Ci sederemo attorno a un tavolo e considerò qualsiasi aspetto”, dice LeBron James. “Farò quello che ho fatto anche nel 2010 e poi nel 2014”, aggiunge. “Al tempo ho scelto di giocare al fianco di giocatori di grande talento ma anche di grande intelligenza, giocatori cerebrali capaci di capire un gioco prima che lo stesso gioco si sviluppi. Se pensi di essere davvero bravo a fare quello che stai facendo, vuoi farlo insieme ad altri giocatori del tuo livello, studenti del gioco, grandi menti. Questo è un qualcosa che non è mai cambiato. Anche quando sono arrivato qui nel 2014 ho voluto con me giocatori intelligenti, capaci di pensare fuori dagli schemi, e non con gente che si limitasse a scendere in campo ed eseguire degli schemi”. Sul ritorno nella sua Cleveland nel 2014 si concentra poi l’attenzione, per provare a capire se le motivazioni extra-cestistiche — di cuore, sentimentali — possano giocare un ruolo anche nella free agency 2018. “Sono tornato nel 2014 perché sentivo di dover portare a termine un lavoro. Far parte di quella squadra che due anni fa è riuscita a vincere — e vincere nel modo in cui lo abbiamo fatto — è qualcosa che ricorderò per sempre. Ce lo ricorderemo tutti. Il nostro trionfo ha messo fine a un’attesa durata 50 e più anni a Cleveland, per cui verrà ricordata nella storia dello sport”. Ma un titolo è abbastanza per considerare compiuta la sua missione? “Questa è una domanda trabocchetto, non ci casco. Quello che posso dire è che sento di poter dare ancora tantissimo a questo gioco, voglio vincere ancora e sento di poterlo fare — esserci già riuscito in passato non fa che aumentare la mia fame di vittorie. Quest’anno penso di averlo dimostrato: finché gioco voglio sempre puntare al titolo”.

Da giocatore a… proprietario dei Cavs?

Nel dopo partita, poi, a James è stato chiesta una riflessione sulla stagione appena ultimata, una sorta di bilancio di 8 mesi di pallacanestro targati Cavs: La nostra stagione è stata una sorta di incognita, una centrifuga di emozioni: alti e bassi, parti belle e parti meno belle. Quello che so è che io ho provato ad assicurare un rendimento costante, ho provato e essere il miglior leader possibile. Sono venuto al lavoro e ho timbrato il cartellino ogni singolo giorno. Mi veniva chiesto sempre se saremmo stati in grado di cambiare passo nei playoff e arrivare fino in fondo. Era davvero impossibile dirlo. Ho pensato che se fossi rimasto sempre concentrato al massimo, grazie alla mia esperienza e a quella di alcuni miei compagni, avremmo potuto farcela e difatti è stato così, ma non riesco a considerare un successo una stagione che finisce con una sconfitta — non io, non ce la faccio. Certo, magari in futuro mi ricorderò con piacere di questi playoff e di come ho giocato in questi ultimi due mesi, ma adesso davvero non lo so”. Chiusa la riflessione sul passato, con LeBron James però sembra impossibile non proiettarsi in avanti e leggere nella sua sfera di cristallo: ci potrebbe essere un ruolo da proprietario dei Cavs, nel suo futuro? “Non credo di essere a un livello tale per potermelo permettere — scherza il n°23 — perché settimana scorsa è uscita una classifica e io ero solo sesto tra gli atleti più ricchi — credo che al primo posto ci fosse Floyd Mayweather a quota 252 milioni. Forse dovrei darmi alla boxe, ma come vedete dalla mia mano non fa per me”, dice col sorriso, ma poi torna subito serio e aggiunge: “Quello che so è che conosco bene il gioco, so valutare il talento, so fare le domande giuste per capire se qualcuno ha davvero il cervello per pensare pallacanestro nel modo in cui va pensata. Per cui penso di restare nel mondo della pallacanestro in qualche modo, magari da consulente o magari seguendo semplicemente i miei due figli che giocano”. Ma per quello c’è tempo, dal 1 luglio si impongono altre decisioni: ben più pressanti e sicuramente fortemente condizionanti per gli equilibri della NBA 2018-19.