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NBA, se non puoi sconfiggerli unisciti a loro: Lance Stephenson insieme alla sua nemesi

NBA

Lorenzo Bottini

Dopo una carriera intera a cercare di innervosirlo, Lance Stephenson nella prossima stagione giocherà al fianco della sua "nemesi" LeBron James con la maglia dei Los Angeles Lakers. Uno sviluppo sorprendente e dai risvolti imprevedibili nella lunga storia di "Born Ready"

LA STORIA DELLA FAIDA LEBRON-LANCE - DIETRO LE FIRME DEI LAKERS C'È LEBRON

LeBron James ha firmato ufficialmente con i Los Angeles Lakers, ed evidentemente i fiumi di champagne versati per salutare l’arrivo del Re hanno avuto un profondo effetto sulla dirigenza dei gialloviola che, come in un drinking game, ha pensato bene che il modo migliore per procedere fosse firmare tutti i free agent che nel passato avevano avuto in qualche modo delle storie tese con James.

Rajon Rondo è l’ultimo samurai rimasto della Boston che arrivò a sfidare più volte Kobe Bryant per l’anello, e allo stesso tempo rimane l’unica squadra ad aver sconfitto LeBron in questo decennio nei playoff a Est. JaVale McGee ha vinto due anelli negli ultimi due anni con i Golden State Warriors proprio contro LeBron e in una cultura nella quale contano soprattutto i titoli questo merita almeno un contratto annuale. Sorvoliamo poi sulla firma di Kentavious Caldwell-Pope (che condivide lo stesso agente di James, Rich Paul) e arriviamo di volata sul nome più assurdo, impensabile e post-ironico che Magic Johnson e Rob Pelinka hanno tirato fuori dal cappello in accordo con il Re.

La scelta di firmare Lance Stephenson da parte della squadra che è appena riuscita a garantirsi le prestazioni del miglior giocatore al mondo, nonché l’unica ragione per la quale Lance è ancora in NBA invece che in Cina, è concepibile solo in un’epoca dominata dalla post-verità, dai layers cognitivi e dai meme. Siamo in un episodio crossover di BoJack Horseman in cui una star di una vecchia serie tv invecchiata malissimo telefona disperata a un suo collega che nel frattempo è riuscito a reinventarsi mille volte per rimanere sempre e comunque al top, implorando per un cameo, anche travestito da donna delle pulizie, nello spettacolo che sta per filmare a Hollywoo. Lance è arrivato a Los Angeles senza la polvere di stelle e il bagaglio di sogni di chi crede ancora di poter diventare il nuovo Jack Nicholson; Lance sarà invece più simile al Jack Nicholson attuale, seduto a bordo campo a guardare LeBron giocare davanti a ventimila maglie di Kobe.

Lance e LeBron, un binomio inseparabile

Eppure, in qualche modo non è così assurdo vedere “Born Ready” nella stessa squadra di James, e non solo per il vecchio adagio del “se non riesci a batterlo unisciti a lui”. Lance senza LeBron perde immediatamente consistenza, diventa uno dei tanti giocatori di talento scavalcati dall’evoluzione del gioco. Tutta la carriera di Stephenson è stata modellata sulla contrapposizione con LeBron, in un continuo tentare di crearsi il personaggio da antagonista del giocatore numero uno al mondo - un tentativo, per la verità, non sempre andato a buon fine.

Anche ad un’analisi iconografica i due sembrano inseparabili, almeno da parte di Lance. Se scrivete “Lance Stephenson” su Google Immagini è più facile che vi escano immagini con LeBron che senza: c’è Lance che marca LeBron, LeBron che marca Lance, Lance che floppa contro LeBron, LeBron che floppa contro Lance, Lance che imbruttisce a LeBron, LeBron che imbruttisce a Lance, Lance che contende la palla a LeBron, LeBron che contende la foto a Lance. È come se due modelli di foto stock si fossero contesi per anni le Finals a Est. Nella mia immaginazione sono ancora intrappolati in un’ala privata nel palazzo della Getty Images impegnati in un infinito uno contro uno.

Ma l’immagine che più rappresenta la loro tempestosa relazione è ovviamente quella iconica di Gara-4 della serie di playoff del 2014 durante la quale Lance ha deciso di entrare in un vecchio film di Robert Redford e sussurrare tutto il suo amore sotto forma di soffio nell’orecchio di LeBron, che incredibilmente non ha corrisposto i flautati messaggi del rivale. A rivederli ora, quei pochi secondi ormai incastrati irrimediabilmente nella memoria collettiva, mantengono ancora un'inalterata freschezza nonostante arrivino da una galassia lontana nei secoli: Lance che prima guarda in camera come fosse in una puntata di Jackass per poi avvicinarsi a LeBron con la confidenza di un vecchio amante; poi lo sguardo da psicopatico che ha appena soddisfatto il suo demone interiore, mentre James scuote la testa con il ciondolio tipico che contraddistingue l’incredulità che incontra la rassegnazione.

Lance contro LeBron è stata per anni la linea comica della Eastern Conference, un breve interludio slapstick prima delle finali che contavano davvero (almeno per LeBron). Chi tifa per il Re ha sempre ritenuto Lance un pagliaccio infantile, più a suo agio a provocare piuttosto che a giocare a basket. Chi non sopporta James ha visto in Stephenson un cavaliere dalla bianca armatura che ha fatto le cose che farebbe chiunque al suo posto se avesse avuto il suo stesso fisico. In realtà dalla polarizzazione che si è generata Stephenson ne è uscito sempre fuori come una figura piatta, un personaggio di seconda fascia nell’affresco michelangiolesco di LeBron James. Come si suol dire, la storia la scrivano i vincitori - e LeBron da queste sfide è uscito sempre vittorioso, decidendo lui come stiamo ricordando Stephenson.

“I’m from Brooklyn”

Non che questo rappresenti un problema per “Born Ready”: d’altronde, a chi ha vestito la competizione come una seconda pelle, il ruolo dell’antagonista calza a pennello. Nato e cresciuto in una Brooklyn che non aveva ancora conosciuto la gentrificazione, Lance è diventato in fretta una piccola leggenda dei playground newyorkesi già prima della pubertà. A 18 anni, nel promo della sua Youtube Tv chiamata BornReadyTV (lol), dichiara che i suoi idoli crescendo sono stati Sebastian Telfair e Stephon Marbury, entrambi passati dal suo stesso liceo, Lincoln High, lo stesso dove in un’altra realtà cinematografica dominava un certo Jesus Shuttlesworth. Sia “Starbury” che suo cugino non sono proprio gli esempi migliori per un fenomeno delle high school che vuole avere successo in NBA deve seguire, ma entrambi raccontano una storia di asfalto bollente, scarpe da 15 dollari e gradoni nei projects. Una storia di forte identità locale che chiunque venga dal quartiere porta sottopelle. E anche per Lance il senso di appartenenza a una comunità così forte ha sempre rappresentato una bussola nella sua carriera: Roy Hibbert ricorda ancora come negli allenamenti dei Pacers Lance urlasse continuamente “Brooklyn, Brooklyn, I’m from Brooklyn”.

Se sei di New York e vuoi diventare qualcuno usando una palla da basket non devi aver paura di niente e di nessuno. Quando nel 2005 l’ABCD Camp fu organizzato a Coney Island, gli occhi erano tutti puntati su quello che era ritenuto essere il miglior prospetto nelle high school d’America, O.J. Mayo, descritto all’epoca come "il nuovo LeBron James". E per i newyorkesi quando i migliori vengono a giocare nel tuo cortile, la sfida si fa sempre personale. Così uno Stephenson 15enne lancia la sfida a Mayo, di tre anni più grande, dominando la prima frazione di gioco. Il pubblico, ovviamente tutto schierato in sostegno del talento di casa, si infiamma ogni volta che tocca la palla e mette in mostra tutte le mosse tipiche dei playground della Grande Mela. O.J., che prima di scoprire le qualità rilassanti delle sostanze psicotrope sapeva come far canestro, lascia che il ragazzino si prenda l’applauso del suo pubblico prima di rimettere a posto le gerarchie.

Lasciarsi alle spalle la rivalità

Acceleriamo il nastro e arriviamo di corsa a giugno 2014. Lance affronta nuovamente LeBron, stavolta quello vero, dopo che due anni prima era stato scortato dai suoi compagni di squadra fuori dal campo perché i giocatori di Miami, con a capo i veterani Juwan Howard e Udonis Haslem, volevano picchiarlo per via del gesto del soffocamento mimato da Stephenson durante un tiro libero di James. All’epoca Lance viveva fisso in panca, mentre nel 2014 è in campo da protagonista e Indiana è alla sua ultima chance di eliminare Miami. Ovviamente Lance decide bene di giocarsela provocando LeBron. “Tranquilli, la serie sta per cambiare dopo che LeBron ha fatto del trash talking con me: è un chiaro segno di debolezza” afferma sicuro “Born Ready”, mentre LeBron risponde segnando 32 punti. Quattro giorni dopo le due squadre tornano in campo per l’elimination game a.k.a. la gara durante la quale Lance soffia nell’orecchio di LeBron, l’ultima come giocatore di basket prima di intraprendere una felice carriera da meme - e James ne segna 25 con 8/12 al tiro, eliminando Indiana per il terzo anno consecutivo.

Sarà anche l’ultima in maglia Pacers, iniziando un pellegrinaggio che lo porterà in cinque squadre in quattro anni prima di tornare da figliol prodigo nell’unica città che sembra assecondare le sue attitudini autodistruttive da rockstar maledetta, cresciuta troppo in fretta per poter diventare adulta. Durante gli scorsi playoff Lance e LeBron si sono incontrati per l’ennesima volta e per l’ennesima volta LeBron ha vinto e Lance ha perso, dopo una battaglia lunga sette sudatissime partite. In una di queste, tornando verso le rispettive panchine per un timeout, LeBron ha messo le mani addosso a Lance che non aspettava altro per tuffarsi verso il parquet come fosse a bordo piscina.

Forse in quel momento è scoccata la scintilla tra i due: spingendolo, LeBron ha accettato di entrare per un minuto nel parco giochi mentale di Lance, accontentandolo come si fa con un cane che scodinzola troppo.

Quando i Lakers hanno ufficializzato la firma di Stephenson, LeBron ha fatto sapere che tra loro non c’è più alcuna rivalità e che il tumultuoso passato è ormai alle spalle. Dopo anni di battaglie i due saranno per la prima volta dalla stessa parte: James non ha più nulla da dimostrare a Los Angeles, se non lottare a mani nude con i nostalgici di Kobe; Lance invece sta per arrivare alla soglia dei 30 e, per chi è sotto i riflettori da quando aveva 15 anni, la fatica comincia ad affiorare. Non ha più la stessa agilità nel floppare al minimo contatto avversario, la stessa mobilità per ruotare il collo all’ultimo secondo per trasformare in un no-look un semplice passaggio a due mani dal petto o la stessa vitalità nel flexare i muscoli dopo una stoppata mentre la squadra avversaria segna lo stesso.

Forse entrambi non vedevano l’ora di godersi il riposo sotto il sole della California e, come aveva già detto qualcuno prima di me, credo che questo possa essere l'inizio di una bella amicizia. Soffiala ancora, Lance.