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NBA, i quattro dell’addio: i giocatori che non vedremo il prossimo anno

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Dario Costa

Oltre a Manu Ginobili, l’estate ha visto l’addio di altri quattro volti storici della NBA (Roy Hibbert, Nick Collison, David West e Mo Williams). E la lega senza di loro è già più povera di storie, intrecci e personaggi

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Giunta dopo una lunga suspense, la notizia dell’addio di Manu Ginobili ha comprensibilmente monopolizzato le attenzioni di media e tifosi al rientro dalle vacanze. Nondimeno, prima del suo annuncio, altri nomi illustri avevano deciso di uscire dal campo senza più voltarsi indietro. Ben lontani dalla levatura dell’ex San Antonio Spurs quanto a impatto e palmares, Mo Williams, Nick Collison, David West e Roy Hibbert hanno comunque recitato ruoli tutt’altro che secondari nelle trame della NBA recente. I quattro hanno timbrato il cartellino per 51 stagioni complessive, ivi comprese numerose apparizioni ai playoff e viaggi alle Finals con tre anelli in cassaforte. Molto probabilmente, al contrario di quanto appare scontato per Ginobili, nessuno di loro finirà nella Hall of Fame di Springfield, ma ciò non toglie che sembrerà strano iniziare la nuova regular season senza vedere sullo schermo quei volti ormai così familiari.

Mo Williams

“Mi mandava LeBron, LeBron James”

Primo ad estraniarsi dalla lotta in ordine di tempo, Mo Williams ha ufficializzato la sua scelta lo scorso maggio. Inattivo dal gennaio 2017, il suo destino continua a essere segnato dalla figura di LeBron James anche dopo aver abbandonato la NBA. Prima di guadagnarsi un posto da assistente sulla panchina dei Matadors a Cal State, Williams ha guidato la selezione Drive Nation nell’All-Star Weekend intitolato a John Lucas giocatosi a Houston. In semifinale, i ragazzi allenati dall’ex-Cavs hanno incontrato i Blue Chips, tra le cui fila militava LeBron Junior, primogenito del Prescelto. In onore dei trascorsi col papà, Mo non si è fatto mancare un’animata sessione di trash talking con il tredicenne, che per contro ha risposto sul campo sciorinando tutto il corredo genetico ricevuto in dote.
E d’altronde il legame con LeBron ha caratterizzato la carriera del nativo di Jackson, Mississippi: scelto alla posizione numero 47 del Draft 2003, vestibolo dell’incoronazione di King James, Williams ha vissuto un percorso accidentato, vestendo la maglia di otto squadre diverse. I suoi momenti migliori, nemmeno a dirlo, sono stati quelli trascorsi a fianco del numero 23: prima dal 2008 al 2010, ricoprendo il ruolo di spalla e guadagnandosi perfino una chiamata all’All-Star Game; quindi un lustro più tardi, al ritorno a casa del figliol prodigo dell’Ohio, veterano e uomo spogliatoio in quei Cavs entrati nella leggenda dopo aver vinto gara-7 alla Oracle Arena. In mezzo a questi due picchi, tanta tracotanza e un’onesta interpretazione del ruolo, all’epoca piuttosto in voga, di combo-guard. Il suo personale cartellino dice 13.2 punti e 4.9 assist di media, statistiche che, qualora non bastasse l’anello di campione al dito, lo fanno uscire dal cono d’ombra dei tanti figuranti che passano su quei parquet senza lasciare traccia.

Tra le poche cose degne di nota combinate lontano da LeBron, il carrer high messo a segno approfittando di una caotica versione dei T’Wolves pre-Thibodeau

Nick Collison

Il tizio bianco che gioca con Westbrook e Durant

Negli ultimi quindici anni, sono cinque i giocatori ad essere rimasti fedeli a una sola franchigia NBA, e Nick Collison è tra questi. Non solo: è anche l’unico ad aver cambiato maglia senza cambiare squadra, avendo traslocato da Seattle a Oklahoma City nel 2008. Scelto alla numero 12 del Draft 2003 (sempre quello), l’ex-Kansas ha vissuto le sue prime cinque stagioni con i Supersonics per poi marchiare le successive dieci in maglia Thunder (unico a essere sempre presente dall’esordio della nuova franchigia insieme a Russell Westbrook). In quell’epopea che l’ha visto dividere il campo con tre futuri MVP, Collison ha recitato il ruolo di uomo spogliatoio e pertanto la profondità del suo apporto non risulta misurabile attraverso le cifre racimolate in partita (per la cronaca: 5.9 punti e 5.2 rimbalzi in 20.4 minuti di media). In mezzo a tutti quei talenti eccezionali, la sua impresa - per citare un poeta della canzone italiana - è stata rimanere normale. Per sua stessa ammissione, Collison aveva da tempo fatto l’abitudine a essere definito “il tizio bianco che gioca con Westbrook e Durant” dai tifosi meno attenti.

Il video celebrativo curato dai Thunder che spiega come e perché Collison sia stato molto più di un semplice giocatore di ruolo

A ogni buon conto, tutti in casa Thunder, da Sam Presti ai compagni che si sono via via succeduti, gli riconoscono il merito d’aver rappresentato un modello di professionalità dentro e fuori dal campo. In quest’ottica, i soli 75 minuti giocati all’ultimo giro di giostra si configurano come il preludio a un prosieguo tra panchina e front office. Ed è probabile che la destinazione da assistente allenatore o dirigente non sia molto lontana rispetto a quella mantenuta durante tutta la carriera agonistica.

David West

Vincere, a qualsiasi costo

Altro prodotto del Draft 2003, David West chiude aggiudicandosi il quinto posto nella classifica dei migliori marcatori sbarcati in the league quell’anno dietro a sicuri Hall of Famer come James, Anthony, Bosh e Wade. I 13.6 punti e 4.6 rimbalzi raccolti a partita l’hanno reso prima punto fermo degli allora New Orleans Hornets e poi di quegli Indiana Pacers che hanno dato battaglia agli Heat in finali di conference infuocate. Riciclatosi come specialista difensivo e feticcio da spogliatoio, ha subito l’accusa di essersi trasformato in un ring-chaser, come se rinunciare a milioni di dollari in stipendi pur di coronare il sogno di sollevare il Larry O’Brien Trophy fosse un’onta. Ma a David West dell’opinione pubblica è sempre importato poco e, andando dritto per la sua strada, ci ha provato prima a San Antonio, con scarso successo, per poi riuscire nell’impresa a Golden State. Giunto a Oakland dopo la clamorosa debacle delle Finals 2016, l’ex-Xavier ha rappresentato un puntello indispensabile per sorreggere la complicata struttura dei nuovi Warriors che con Durant avrebbero brutalizzato ogni avversario.

Non solo gomiti e difesa: West è stato un giocatore estremamente efficace su entrambi i lati del campo e ha sempre fatto ciò che di volta in volta serviva per vincere

Spesso a torto dipinto come ruvido guardaspalle dei compagni più celebri per la durezza esibita sul parquet, in realtà West si è sempre dimostrato uno degli atleti intellettualmente più attivi dell’intera lega. Appassionato di sociologia e storia contemporanea, in particolare quella riguardante la comunità afro-americana dalla schiavitù ai giorni nostri, durante il biennio in California è stato punto di riferimento per Steph Curry, incoraggiando il due volte MVP a esporsi su temi sociali tanto scottanti quanto complessi.
David West, quindi, non è il classico atleta per cui la vita dopo il ritiro apre un baratro pericoloso, tutt’altro. Alla soglia dei quarant’anni potrà scegliere se dedicarsi a una delle tante attività imprenditoriali avviate con i dollari guadagnati in canotta e pantaloncini o restare nel mondo del basket, oppure ancora diventare un educatore a tutto tondo, veste in cui sono in molti a sostenere che potrebbe dare il meglio di sé. Quello che è certo è che dopo una carriera trascorsa all’insegna dell’ostinata riservatezza, la dichiarazione con cui è uscito di scena ha, forse per la prima volta nella sua vita, destato un certo clamore. L’impressione, condivisa dalla cerchia ristretta che attornia il giocatore, è che una volta sentitosi libero dal sacro vincolo di fedeltà allo spogliatoio, West abbia voluto finalmente lanciare una provocazione. Senza motivazione o bersaglio particolare, così, tanto per vedere l’effetto che fa.

Roy Hibbert

Martire dello Small Ball

Tra i giocatori che hanno deciso di smettere quest’estate, Roy Hibbert è nettamente il più giovane. A 31 anni e con sole 9 stagioni NBA alle spalle, il prodotto di Georgetown ha ritenuto che la sua avventura sui parquet dovesse finire qui. Il tragitto di Hibbert, da arpione difensivo dei Pacers che sfioravano le Finals a corpo estraneo ignorato da tutte e trenta le franchigie, è forse l’allegoria perfetta dell’evoluzione subita dal gioco. Con lui a difendere il ferro, Indiana ha primeggiato quanto ad efficienza difensiva dal 2012 al 2014, trovando però la strada verso l’atto finale sbarrata da James, Wade e Bosh (si passa sempre di lì, da quel Draft del 2003, nel raccontare le storie degli ultimi quindici anni di NBA).

C’è stato un tempo in cui Roy Hibbert era il leader silenzioso di una squadra con ambizioni da titolo

A determinare il crollo delle quotazioni di Hibbert non è stato tanto il passaggio ai Lakers e l’annus horribilis 2015-16, quanto la sua palese incapacità di adattarsi a ritmi e spaziature dello stile di gioco ormai divenuto imperante. Interprete tra i più ortodossi della specialità “presidio del pitturato”, costretto ad abbandonare l’area ristretta per inseguire i vari Draymond Green e Al Horford fin dietro la linea dei tre punti, la sua utilità sul campo è crollata lungo un precipizio senza fine. E con pari velocità è sembrata crollare anche la fiducia in se stesso, fattore che ha segnato le esperienze alquanto deludenti a Denver e Charlotte. Assodata la totale assenza d’interesse da parte dei front office della lega, in un atto di lucida consapevolezza Hibbert ha deciso di dire basta. Di lui rimarrà un ricordo nitido, ma lontano nel tempo: la sua imperiosità vicino al canestro come un monumento ai martiri caduti sotto i colpi della rivoluzione chiamata Small Ball.