A 36 anni, il campione NBA con la maglia dei San Antonio Spurs ha deciso di appendere le scarpe al chiodo. Da oggetto misterioso ad antesignano di una rivoluzione tattica nel ruolo di 4, la sua carriera è stata tutto tranne che scontata o normale
I QUATTRO DELL'ADDIO: CHI NON SARA' IN CAMPO L'ANNO PROSSIMO
Boris Babacar Diaw, a 36 anni, ha deciso di appendere le scarpe al chiodo. Siccome non è stato un giocatore banale, il suo annuncio è arrivato a sorpresa e in una modalità che potremmo definire pienamente “alla Boris Diaw”: un video con gli amici di sempre, Ronny Turiaf e Tony Parker, girato sulla sua barca, un catamarano di 23 metri ribattezzato “Babac”, ovverosia uno dei suoi innumerevoli soprannomi.
Venti minuti che valgono la pena di essere visti. Se non amerete Bobo dopo questo video vuol dire che avete il cuore di pietra
Chiudere la propria carriera non è mai un momento facile per uno sportivo, eppure Diaw dà l’impressione che sia stato tutto molto naturale e c’è da credere che sia così. “Alla fine della scorsa stagione mi sono detto: vediamo come va l’estate e poi decido. E l’estate è andata benissimo!”. L’obiettivo ora è una vita in vacanza, praticamente. Ma c’è anche dell’altro: la serenità dovuta all’aver raggiunto i propri obiettivi.
Sulle orme di mamma Élisabeth
Boris ne cita uno in particolare: aver eguagliato - con la sfida alla Russia dello scorso 2 luglio e valida per le qualificazioni al Mondiale 2019 - le 247 presenze in Nazionale della mamma. Élisabeth Riffiod è da più parti considerata la più forte giocatrice francese di sempre, il classico pivot dominante che negli anni ‘60 e ‘70 ha vinto molto meno di quanto il suo talento avrebbe meritato. “Ho sempre pensato che fosse un numero irraggiungibile e quando ci sono riuscito ero incredulo. E non voglio battere il record di mia mamma, per rispetto di quello che ha fatto e per la sua carriera”.
C’è un altro punto di contatto con mamma Elisabeth e pure con papà Issa: la frequentazione da adolescente dell’INSEP - l’Institut national du sport, de l'expertise et de la performance, o detto in termini più semplici la scuola francese dello sport. Lì la Riffiod entra dopo aver battuto una malattia del sangue che le avrebbe impedito di giocare e incontra il senegalese Issa Diaw, specialista nel salto in alto poi diventato avvocato. Lì Boris entra per affinare le sue qualità cestistiche emerse nel Bordeaux: oltre a crescere come giocatore, fa incontri decisivi per la sua vita come appunto quelli con Ronny Turiaf e Tony Parker. Quando 18enne va al Pau Orthez è una guardia con un range di tiro limitato ma con un senso del gioco clamoroso, un’intelligenza cestistica innata e affinata partita dopo partita. È uno dei migliori talenti della sua generazione quando viene chiamato dagli Atlanta Hawks al numero 21 del magico Draft 2003, preceduto al numero 11 dal compagno di squadra Mickaël Piétrus.
Lo strano sviluppo della carriera in NBA
L’inizio della carriera in NBA non è esaltante: la sua intelligenza cestistica è evidente, ma a rallentarne l’ascesa è la difficile collocazione tattica. A dispetto di un’elevazione sottovalutata, Diaw è troppo lento per giocare guardia o ala e in attacco viene costantemente battezzato per la mancanza di tiro. Insomma, si fa fatica a inquadrarlo in un ruolo preciso e finisce presto ai margini delle rotazioni. C’è da dire che quegli Hawks non sono propriamente una squadra da applausi scroscianti: 41 vittorie in due anni, due coach diversi - Terry Stotts e Mike Woodson -, un tourbillon di giocatori. Da qualunque parte la si guardi, non il contesto ideale per un giovane cerebrale come Diaw, che ha bisogno di un sistema organizzato per dare il meglio di sé - anche, a volte, solo per il gusto di andare contro le regole e gli schemi.
È il passaggio a Phoenix nell’estate 2005 in una trade con Joe Johnson e l’incontro con il basket di Mike D’Antoni a trasformare il ruolo di Diaw nell’NBA e dargli un nuovo e brillante senso. Lo scetticismo attorno a Bobo è diffuso e Alvan Adams, una vita da giocatore Suns e all’epoca arena manager per la franchigia, commenta lo scambio così: “Chi cazzo è il russo?”.
Ma con il Baffo e il suo basket di corsa, “Bobo” diventa “3D”, ad indicare sia il numero di canotta che il motto. Il Drive, Dish and Defend di Diaw diventa la linea guida di un giocatore multidimensionale che avvicina il suo raggio d’azione a canestro ed entra nella storia del Gioco come uno dei primissimi playmaking 4, quelli che oggi costituiscono merce tatticamente preziosa - un antesignano di Draymond Green, per capirci. Quello che pareva un limite invalicabile, ovverosia la collocazione tattica, diventa il pregio migliore per Diaw, che approfitta del ko al ginocchio di Amar’e Stoudemire per entrare in quintetto e non uscirne più. Il 2005-06 è talmente positivo che arriva il premio come Most Improved Player e anche se la stagione si chiude amaramente in finale di Conference contro Dallas - con Diaw che gioca centro e in gara-1 ne mette 34, compreso il canestro della vittoria a 5 decimi dalla fine - le prospettive in Arizona sono luminose. Boris è diventato un giocatore NBA nel modo che gli è più congeniale, ovvero in un sistema in cui la sua intelligenza costituisce un asse portante e il suo talento è libero di esprimersi.
Il 2007 si chiude in maniera ancora più amara, con il ko con gli Spurs in semifinale della Western Conference in una delle serie più dure e senza esclusioni di colpi della storia recente NBA. In gara-4 Robert Horry abbatte Steve Nash e dalla panchina Boris Diaw, insieme a Stoudemire, si alza per difendere il suo compagno (anche se nella sua carriera sosterrà sempre di non avere avuto alcuna intenzione di attaccare un avversario, ma solo di sostenere Nash). Viene ovviamente squalificato perché il commissioner David Stern è inflessibile: di fatto la serie finisce lì, perché i Suns in gara-6 (pur rimanendo a lungo in vantaggio nel corso della partita) non hanno le energie per sostenere la rimonta di San Antonio, suggellata da un canestro dall’angolo di Bowen. L’anno dopo il GM Steve Kerr porta Shaquille O’Neal in città e per i Suns di D’Antoni è l’inizio della fine.
Gli anni bui di Charlotte fino al titolo di San Antonio
Con l’addio del Baffo inizia la smantellazione di quella squadra e di quella filosofia che ha fatto la fortuna di Diaw. A metà della stagione 2008 viene ceduto a Charlotte, con in panchina Larry Brown che lo schiera sì da 4, ma senza dargli quella libertà di pensiero e di manovra necessaria per farlo rendere. Basti un dato: a fronte di un aumento sensibile dal punto di vista realizzativo - 14.4, 11.5, 12.0 sui 36 minuti nelle tre annate, peraltro non complete - l’offensive rating è più basso rispetto agli anni di Phoenix. Boris mette su anche qualche chilo di troppo, pur restando comunque un giocatore bellissimo da vedere. È sprecato in una squadra non di vertice che per di più non crede in lui, così come lui palesemente non crede in loro. E il 23 marzo 2012, due giorni dopo essere stato lasciato libero dai Bobcats, San Antonio si fionda su di lui.
Se D’Antoni era stato il primo a comprendere dove e come Diaw potesse fare la differenza in NBA, Popovich diventa colui che sfrutta le qualità del franco-senegalese per cambiare assetto tattico in corso d’opera. Splitter e Duncan sono i lunghi titolari ma Diaw è quello che finisce spesso le partite: in una lega in cui lo Small Ball prende sempre più potere, avere il capostipite dei playmaking 4 a disposizione è un bel vantaggio rispetto alla concorrenza.
In due stagioni Diaw gioca una pallacanestro sontuosa, raggiungendo l’apice nel 2014 e in particolare nella finale contro i Miami Heat che ad oggi resta una delle migliori espressioni di basket giocate dalla squadra campione nell’atto conclusivo. Dal post alto e dal post basso domina incontrastato, fa sempre la scelta giusta ed è parte integrante, per non dire fondante, della sinfonia Spurs. Quella San Antonio è uno spettacolo, quel Boris Diaw è uno spettacolo: da gara-3 (con la serie sull’1-1 dopo le due partite in Texas) diventa titolare ed è un enigma irrisolvibile per LeBron James e compagni, facendo un figurone anche in difesa grazie alla sua intelligenza.
Il trionfo in nazionale
In meno di 12 mesi Babac raccoglie i successi più importanti della sua carriera. E lo fa insieme al suo amico di sempre Tony Parker, del quale è stato anche testimone di nozze con Eva Longoria. Prima di conquistare l’anello NBA, i due sono protagonisti in terra slovena a Eurobasket 2013. La Francia che si presenta ai quarti è una squadra di talento, peraltro vice campione in carica, ma non riesce ad avere continuità. Nella fase ad eliminazione diretta cambia tutto: Parker sale in cattedra, tutto il team lo segue, e in rapida successione Slovenia, Spagna e Lituania sono spazzate via. I transalpini salgono per la prima volta sul tetto d’Europa e Boris Diaw, che ve lo diciamo a fare, è determinante. A suo modo: al servizio della squadra, di compagni più talentuosi, facendo sempre la cosa giusta al momento giusto. Da capitano vero, insomma. D’altronde il rapporto con la Nazionale è stato stretto e proficuo sin dalle giovanili, sin dall’Europeo U18 vinto nel 2000 con Parker e Turiaf.
Un amore per la maglia Blues incondizionato, senza mai anche solo l’alone del dubbio di restare un’estate fermo. Come nel 2014, quando Diaw è uno dei pochi veterani a partecipare al Mondiale di Spagna. Tra rinunce e infortuni la Francia si presenta con tanti volti nuovi, compreso un 22enne Evan Fournier che 9 anni prima aveva partecipato a uno spot con Boris.
Spot profetico per la carriera di Evan
Di quella Nazionale Diaw è il leader emotivo, il giocatore a cui l’intero spogliatoio si appoggia. I Blues partono così così, finiscono terzi nel girone dietro Spagna e Brasile, poi negli ottavi vincono una battaglia con la Croazia. Ai quarti, a Madrid, i padroni di casa hanno una sola missione nella loro testa: sfidare gli USA in finale.
E invece si trovano di fronte una Francia tosta, concentrata, guidata spiritualmente e tecnicamente da Boris Diaw. Ci sono state decine di partite in cui Bobo è stato fantastico, ma quella partita è probabilmente il suo capolavoro. Non c’è un momento nei 40 minuti in cui perde il controllo: mette subito la museruola a Marc Gasol facendogli capire che sarà una serataccia per lui e per il fratello Pau; ha sempre piena consapevolezza di quello che accade, di quello che accadrà e di quello che c’è da fare. Se nel finale Heurtel si prende il palcoscenico, l’indiscusso MVP lungo i 40 minuti è Boris. “Ho solo detto ai compagni di mettersi nella condizione di non avere rimpianti, di dare il 100%. Non solo stasera, anche nella vita” dice maestro Babac dopo la partita. In semifinale la Francia cede alla Serbia di Milos Teodosic in un’altra partita memorabile, ma poi batte la Lituania e conquista il bronzo, prima medaglia iridata della propria storia. Su quella conquista ci sono le impronte delle mani vellutate di Boris Diaw.
Un giocatore speciale in campo e fuori
Questo il Diaw giocatore: cerebrale, scaltro, decisivo. Le statistiche con lui contano poco più di zero: bisogna averlo visto giocare per rendersi conto della straordinaria capacità di esserci quando contava, di alzare il proprio rendimento quando la posta in palio era elevata. Poi c’è il Boris Diaw uomo: spensierato, ironico, curioso, generoso. Ha la sua fondazione, la Babac'Ards, che si occupa di progetti sportivi in Senegal. E da capitano della nazionale Campione d’Europa nel Natale del 2013 ha regalato un preziosissimo orologio a tutti i componenti della squadra, staff compreso. Sempre a suo agio con la stampa e uno dei pochi a potersi permettere di uscire dal rigido codice in atto a Spursello, è stato tra i pochi a poter e saper usare l’ironia per rispondere alle punture di Popovich, soprattutto a quelle aventi come oggetto il peso di Bobo che più di qualche volta veleggiava senza controllo. Sempre riuscendo in qualche modo a garantire elevata professionalità in allenamento e in partita, ma senza rinunciare ai piaceri veniali della vita, come il buon cibo e un buon caffé, portandosi in giro la macchinetta fino allo spogliatoio. E poi l’amore per la natura, per gli animali, per la fotografia. Variegati interessi di una persona che vuole conoscere il mondo nella sua interezza e nelle sue sfaccettature, non limitandosi a saper giocare a basket. E questa insaziabile voglia di sapere ha alla fine preso il sopravvento sul desiderio di giocare ancora.
Tutti quelli che l’hanno conosciuto vi diranno la stessa cosa: Bobo è una persona con cui chiacchierare piacevolmente e che non ti annoia. Uno di quelli da cui vai volentieri a guardare le diapositive delle sue vacanze perché sai che fa belle foto e ti sa raccontare aneddoti azzeccati. Se non ci credete fate un giro sul suo profilo Instagram, del quale vi offriamo un breve compendio.
Cosa farà adesso Boris Diaw? Sicuramente continuerà a godersi la vita come farebbero moltissimi al suo posto, poi chissà se rientrerà nel basket, da allenatore o da istruttore o da dirigente. Se Manu Ginobili sembra destinato a rimanere in un modo o nell’altro nel mondo della palla a spicchi, Bobo non dà la stessa sensazione. Eppure la pallacanestro, non solo francese, avrebbe un gran bisogno del suo approccio professionale e allo stesso tempo disincantato allo sport e alla vita. Quello che è certo è che a tutti noi mancherà.