Un documentario in tre parti (trasmesse in prima serata) prodotto dal n°23 dei Lakers vuole indagare il ruolo avuto negli anni dai giocatori NBA nel plasmare il dibattito sociale, partendo dalle azioni di Russell e Jabbar per arrivare agli attuali scontri con la presidenza Trump
I protagonisti sono tutti di primo piano: LeBron James nelle vesti di produttore (insieme a Maverick Carter e alla loro Spring Hill Entertainment), l’ex giornalista di ESPN Jamele Hill come voce narrante, Gotham Chopra – già conosciuto per aver firmato il documentario su Kobe Bryant “Muse” – alla regia. Dalla loro unione è nato “Shut up and dribble”, un nuovo documentario in tre parti (la prima già andata in onda, le prossime attese per il 10 e 17 novembre, sempre in prima serata) pensato per raccontare l’impatto sociale dei giocatori NBA nel corso della storia. “La tesi che voglio sostenere – dice Chopra – è che la pallacanestro è il vero sport nazionale americano, per via dell’impatto che ha saputo avere nei vari settori della nostra vita, dalla musica, al costume, alla cultura generale”. Il progetto, nato da un’idea di LeBron James e Maverick Carter, era stato proposto come il racconto dell’impatto, in campo e fuori, dei giocatori NBA sulla società USA, usando le tre classi del 1984 (Jordan, Barkley, Stockton, etc.), 1996 (Iverson, Nash, Allen, etc.) e 2003 (James, Anthony, Paul, Bosh) come spunto iniziale. “Poi però, man mano che il progetto procedeva, l’impatto generato fuori dal campo da questi campioni mi è sembrato più importante da raccontare che quello semplicemente sportivo”, racconta Chopra e anche la scelta del titolo – il famoso invito fatto dalla giornalista di Fox Laura Ingraham a James, di “star zitto e continuare a palleggiare” – testimonia una certa radicalizzazione nel risultato finale. “Il significato di tutto il progetto in quel momento è cambiato – conferma Jamele Hill – perché seppur diciamo di voler imparare dalla storia, poi questo non accade. Basta vedere cos’è successo con Trump: un presidente che può ancora permettersi di chiamare ‘stupido’ LeBron James. Magari non usa la parola ‘nigger’, ma cerca ugualmente di gettare discredito su una delle storie di maggior successo personale che l’America oggi conosca”. Il documentario parte dalle parole con cui Steph Curry – “Non ci voglio andare” – declina un eventuale invito da parte di Donald Trump alla Casa Bianca, per le consuete celebrazioni post-titolo NBA. È uno dei momenti chiave in cui il dibattito assume nuovi contorni e una lunga tradizione di lotta e proteste sociali di tanti grandi campioni NBA del passato – da Bill Russell a Kareem Abdul-Jabbar e Oscar Robertson – sembra trovare nuova linfa nei nuovi protagonisti oggi attivi sulla scena sportiva e mediatica americana.
Il silenzio di Michael Jordan, il ruolo di Donald Trump
Molto più di un Michael Jordan (che ha declinato di farsi intervistare per il documentario), oggi LeBron James e i suoi colleghi americani hanno libertà e audacia di esprimere liberamente le loro posizioni: “È complicato”, afferma Chopra”. “Michael è diverso, ed è espressione di un’epoca differente. È cresciuto nel Sud, gli è stato insegnato di non infangarsi in posizioni compromettenti, perché è pericoloso. LeBron è di una generazione diversa, può far sentire di più la sua voce, senza dover temere che Nike o qualche altro sponsor gli annulli i contratti”. “Quello in cui viviamo oggi è un mondo diverso da quello del passato – concorda Steve Kerr – per via di una combinazione di eventi sociali e politici, per l’avvento dei social media, per determinati cambiamenti ormai accettati. Poi l’avvento di Trump ha accelerato tutto, e la questione è deflagrata completamente”. Da questo contesto è nato così “Shut up and dribble”, che mantiene anche un approccio storico molto interessante, tornando indietro ai tempi di Bill Russell (a cui era vietato di mangiare nei ristoranti dei suo compagni di squadra bianchi) e di Isiah Thomas, chiamato a difendere l’opinione scottante di un suo compagno (Dennis Rodman: “Se fosse nero, si parlerebbe molto meno di Larry Bird”). Si passa, ovviamente, anche dalla famosa rissa del Palace di Auburn Hills, “quando era quasi normale – afferma la Hill – rappresentare i giocatori afroamericani come dei delinquenti”. Fortunatamente tanto è cambiato, ma molto c’è ancora da fare. E anche un progetto come “Shut up and dribble” forse può contribuire a mantenere il dibattito attivo.