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Kobe Bryant, l'estratto esclusivo del nuovo libro "The Mamba Mentality - Il mio basket"

NBA

Un viaggio per parole e immagini nella mente di un artista tra i più geniali e vincenti della storia dello sport. In esclusiva un estratto di "The Mamba Mentality - Il mio basket", il ritratto definitivo di Kobe Bryant con i contributi di Phil Jackson e Pau Gasol

INTERVISTA ESCLUSIVA AL FOTOGRAFO DI "THE MAMBA MENTALITY"

Solo poche settimane dopo l’uscita negli Stati Uniti, arriva nelle librerie di tutta Italia per Rizzoli il libro-testamento che Kobe Bryant ha voluto scrivere in prima persona, affidandosi alle fotografie di Andrew Bernstein (fotografo ufficiale dei Lakers che ha coperto tutta la sua carriera) e alle parole di chi, in campo e fuori, ha conquistato la sua ammirazione, fiducia e amicizia (Phil Jackson cura l’introduzione, a Pau Gasol è affidata la prefazione). Un volume di oltre 200 pagine in perfetto equilibrio tra parole (quelle affidate in prima persona al “Black Mamba”) e immagini (tutti gli scatti di Andrew Bernstein), per raccontare una carriera indimenticabile e leggendaria e per conoscere meglio anche l’uomo Kobe Bryant. Uno che – dopo vent’anni di carriera nella stessa squadra (i Los Angeles Lakers) cinque titoli NBA, due ori olimpici e un’infinità di record personali – ha scelto di ritirarsi nel 2016 scrivendo una toccante lettera d’addio al basket che è diventata un cortometraggio animato premiato con un Oscar nel 2018. Sulle pagine di “The Mamba Mentality – Il mio basket”, Bryant racconta il suo modo di intendere il basket: le sfide sempre più dure lanciate a se stesso e ai compagni in ogni allenamento, i riti per trovare la carica o la concentrazione, tutti i retroscena della preparazione ai match e i motivi per cui, semplicemente, per lui perdere non è mai stata un’opzione. E ancora: la volontà di superare il dolore e rinascere ogni volta più forte dopo i tanti infortuni patiti in carriera, i suoi maestri, lo studio maniacale degli avversari – da Michael Jordan a LeBron James – per carpire loro ogni segreto possibile e migliorare, migliorare ancora e ancora fino all’ultimo minuto dell’ultima partita disputata. In esclusiva per l’Italia pubblichiamo qui un estratto del libro selezionato dalla sezione in cui Kobe analizza uno per uno ogni avversario significativo con cui ha incrociato le armi in carriera, da Tim Duncan a Paul Pierce, da Tracy McGrady a Michael Jordan. Qui invece le sue opinioni senza filtro su tre grandi giocatori di oggi, Kevin Durant, LeBron James e Russell Westbrook. 

THE MAMBA MENTALITY - IL MIO BASKET

ESTRATTO ESCLUSIVO

Da giovane Kevin Durant non era molto difficile da gestire

Nei suoi primi anni nell’NBA, KD aveva certe lacune tecniche che potevo sfruttare. Faticava a tirare in sospensione verso destra e non sapeva lavorare bene in post. Queste carenze, nonostante la sua statura altissima, lo rendevano marcabile. Poi però, nel giro di poco tempo – un anno o due – diventò molto bravo a fermarsi andando a destra. Qualche anno dopo aggiunse alcune nuovi movimenti in post con la spalla sinistra. Era diventato una gatta da pelare alta due metri e dieci. E questa è la storia di Kevin Durant. Per quasi dieci anni non ha fatto altro che affrontare le sue debolezze e migliorare il suo gioco. Ormai ha sviluppato appieno tutte le sue capacità. In attacco non ha punti deboli. È un incubo scontrarsi con lui, e si è impegnato a fondo perché fosse così.

LeBron James

LeBron è più grande di me, in altezza e in larghezza, ma a me piaceva picchiare e farmi picchiare molto più che a lui. Questo influenzava i nostri scontri diretti. Quando era LeBron a marcare me, usava il corpo e non si proteggeva con l’avambraccio perché era abituato a essere più forte di chiunque altro. Nel mio caso, però, questo andava a mio vantaggio. Mi piaceva lo scontro fisico e sapevo usare le mani per farlo indietreggiare quanto bastasse per girarmi. Poi, la volta successiva, lui doveva ipercompensare e io potevo ruotare sulla linea di fondo per tirare o per andare a canestro. A un certo punto iniziò a piazzarsi davanti a me in post. Lo prendevo in giro: «Sono uno e novantasei, perché mi marchi in post?». E lui diceva: «No, non ci casco. Non voglio che tu prenda la palla quaggiù». Con il tempo lo vidi maturare molto come difensore. Capì il significato e l’importanza della difesa. Comprese che, se vuoi vincere il Titolo, tu, la star, devi assumerti la responsabilità di marcare il miglior giocatore dell’altra squadra. Mi sono sempre vantato di marcare i migliori.

Russell Westbrook

All’inizio Russ non sapeva tirare. Quindi era facile tenerlo a freno. Sapevo dove voleva andare con la palla e potevo tagliargli la strada. Più il suo tiro in sospensione migliorava, più Russ iniziava a crearmi qualche problema. A quel punto provavo a farlo arrabbiare il più possibile. Lo stuzzicavo. Braccia, gomiti, toccatine, strattoni. Qui gli sto bloccando il braccio destro mentre palleggia. Se tira su la palla gli strattono il braccio, appena appena, quanto basta perché se ne accorga. Trucchi del mestiere che l’arbitro non può vedere. A quel punto la sua battaglia sarebbe con gli arbitri e non con me. Da giovane Russell era molto incostante. Ne approfittavo per fargli credere che fosse una buona idea andare al tiro contro di me. Più avanti, quando iniziò a tirare bene, mi costrinse a ripensare la strategia. A quel punto dovetti davvero chiedermi quale fosse il modo migliore per marcarlo. Cercai di spezzargli il ritmo. Per esempio, quando attraversava il campo prevedendo di fermarsi per un tiro in sospensione, io gli facevo una finta. Così cambiava idea e pensava di poter avanzare fino al canestro, ma a quel punto io potevo indietreggiare e spezzargli il ritmo. Era difficile, però, soprattutto quando arrivava a tutta birra. Come LeBron, quando Russ accellerava diventava un problema: quindi dovevo mettergli i bastoni tra le ruote da subito. Diventava un divertente gioco al gatto e topo. Russell continua a evolversi: non smette mai di imparare. A ventinove anni venne nell’Orange County e insieme ci allenavamo per qualche ora alle cinque del mattino. A quell’età tanti giocatori pensano di sapere già tutto. Lui voleva lavorare sul post, sul gioco di gambe in post. Capiva che era il passo successivo della sua evoluzione e il segreto per rimanere tra i migliori. Ecco la cosa davvero importante: avere sete di conoscenza e desiderio di migliorarsi. Quindi dedicammo parecchio tempo a lavorare su quegli aspetti, e nella stagione successiva lo vidi mettere in pratica alcune delle lezioni che aveva appreso.