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NBA, al momento giusto: l’esplosione dei Denver Nuggets di Nikola Jokic

NBA

Ennio Terrasi Borghesan

La migliore partenza della storia della franchigia del Colorado è una storia che nasce due anni fa, e finora è stata più forte di sfortuna e infortuni.

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Nella Western Conference ultra-competitiva di questa stagione, una delle cose più difficili è individuare dei punti di riferimento. Le gerarchie in classifica cambiano di continuo: ben 14 squadre su 15 hanno visto la loro posizione nella proiezione di griglia playoff cambiare continuamente nelle ultime 3-4 settimane. Pensate soltanto alla quantità di squadre che si sono alternate nelle posizioni di testa: dai Memphis Grizzlies agli L.A. Clippers, dai Golden State Warriors agli Oklahoma City Thunder.

C’è una squadra che sin qui ha sempre rappresentato un solido punto di riferimento nelle gerarchie della Conference, protagonista del migliore inizio della sua storia proprio nell’anno in cui ci si attendeva il definitivo salto di qualità. Eppure la strada per i Denver Nuggets non è sin qui stata delle più semplici.

Perso un giocatore chiave come Will Barton alla seconda partita stagionale - ma il ritorno del prodotto di Memphis dovrebbe essere imminente -, a inizio dicembre si sono aggiunte le tegole degli infortuni di Gary Harris e Paul Millsap, fuori per almeno un mese e fondamentali sino a quel punto nel rendere i Nuggets una delle migliori difese della Lega.

Quello che nell’era Malone era stato il vero tallone d’Achille della squadra (nei primi tre anni dell’ex allenatore dei Kings i Nuggets hanno chiuso al 25°, 29° e 23° posto per rating difensivo), nel 2018-19 si è trasformato in un inatteso punto di forza: oggi le statistiche avanzate dicono che quando parliamo dei Nuggets ci riferiamo alla quarta difesa della NBA. E nonostante due infortuni importanti, il rendimento non ne ha risentito, anche grazie a un calendario che sin qui ha offerto molti giorni di riposo tra una gara e l’altra.

Le prime 30 partite dei Denver Nuggets 2018-19 non sono però qualcosa di casuale, ma il compimento di un progetto maturato al momento giusto, capace di salire di livello anno dopo anno (nell’era Malone si è passati da 33 a 40 e 46 vittorie) e arrivare al top proprio quando era lecito attenderselo. Questa crescita, però, parte da lontano.

La scelta di Nikola Jokic

Non è sbagliato pensare che gli attuali Denver Nuggets siano ufficialmente nati il 15 dicembre 2016. Dopo un inizio da appena 9 vittorie in 25 partite, Michael Malone decise di mettere definitivamente in soffitta l’esperimento tecnico che puntava sulla coesistenza tra due giovani lunghi slavi, entrambi prodotti “in casa” dopo essere stati scelti al Draft.

Tra Jusuf Nurkic e Nikola Jokic la scelta del coach - e della franchigia - è ricaduta sul secondo. Più giovane di qualche mese (febbraio 1995 contro agosto 1994) del lungo bosniaco, più sulla ribalta dopo la positiva stagione da rookie dell’anno precedente e pronto ad approfittare della contemporanea assenza prolungata di Nurkic a causa di un infortunio al ginocchio.

L’esperimento sulla coesistenza tra Jokic e Nurkic, nato nel corso delle ultime tre partite della stagione precedente, ha avuto quindi vita breve: un mese e mezzo dopo da quella vittoria contro i Portland Trail Blazers, il bosniaco viene scambiato proprio alla volta degli avversari di Division, permettendo al talento cristallino di Jokic di sbocciare definitivamente.

Nelle 51 partite da principale punto di riferimento dei Nuggets in quella stagione, Jokic - alla sua stagione da sophomore, conviene ricordarlo - produce medie da All-Star (18.9 punti a partita con 10.9 rimbalzi e 5.8 assist, il tutto con il 58% dal campo) e convince progressivamente la dirigenza a accelerare il cambio della guardia e implementare un nuovo ciclo tecnico.

Quell’estate i Nuggets salutano un altro punto di riferimento come Danilo Gallinari, oltre a mettersi alle spalle, progressivamente, giocatori come Wilson Chandler, Kenneth Faried o anche una scommessa bollata come persa su Emmanuel Mudiay. Da quel 15 dicembre 2016 Denver ha un record di 98 vittorie e 71 sconfitte, e in questo periodo i miglioramenti di Jokic sono stati continui.

Dopo un inizio di 2017-18 non totalmente positivo, il lungo serbo ha chiuso la stagione mettendo insieme nelle ultime 18 partite della stagione - e quindi nella volata finale verso i playoff, che ha visto i Nuggets perdere lo spareggio decisivo l’ultimo giorno di regular season contro Minnesota - medie da 24 punti, 11.5 rimbalzi, 6.4 assist e un incredibile 47.6% nel tiro da 3 punti.

Oggi i numeri di Jokic fanno particolarmente impressione soprattutto per quanto concerne gli assist: 7.4 di media a partita, un dato da esterno pur. Nella storia NBA sono esistiti sin qui soltanto quattro giocatori capaci di abbinare a quella cifra almeno 17 punti e 9 rimbalzi di media: Wilt Chamberlain, Oscar Robertson, Magic Johnson e Russell Westbrook.

Ma è quando si vanno a vedere le differenti modalità di inserimento del Jokic-playmaker all’interno del sistema di gioco dei Nuggets che ci si rende conto di essere in presenza di un giocatore diverso, unico nel suo genere.

Proponendosi come ricevitore e distributore in un dai-e-vai, con il suo blocco che consente il taglio backdoor dell’attaccante, Jokic catalizza le attenzioni della difesa anche grazie al suo tiro dall’arco comunque da rispettare. L’istinto per il passaggio è una caratteristica del serbo che si vede in tanti dei possessi offensivi di Denver, tanto da farlo entrare nel ristretto novero dei migliori passatori della lega.

Nella clip qui sopra possiamo osservare tre situazioni diverse di passaggio consegnato di Jokic a un compagno di squadra, sul cui difensore porta immediatamente un blocco magari non eccessivamente granitico, ma utile nel consentire all’attaccante di potere scegliere opzioni diverse. Harris alterna entrate verso il canestro a tiri piazzati dall’arco, potendo sempre contare su un attimo di vantaggio nei confronti del difensore, vantaggio concesso da in primis dalla presenza di Jokic.

Un aspetto sottovalutato del gioco offensivo del serbo, e che magari è meno appariscente dei passaggi no-look che spesso popolano le classifiche delle migliori giocate della notte NBA, è l’eccezionale capacità di leggere i raddoppi, soprattutto quelli portati in post, e capovolgere sempre la situazione creando il miglior tiro possibile per il compagno.

Nella clip qui sopra, infatti, possiamo ammirare come Jokic sia in grado di trovare la migliore lettura possibile nel minor tempo necessario, garantendo due (o tre) punti comodi ai suoi Nuggets. Nel corso dei mesi, il serbo ha mostrato una connection di altissimo livello con quello che può essere considerato ormai, a tutti gli effetti, la sua spalla.

La crescita del "Robin" canadese

I Nuggets hanno sempre avuto delle certezze sotto canestro, per la presenza di Nurkic prima e di Jokic ora. Ma oltre a quello il roster è pieno di giocatori intercambiabili anche ricambi nelle posizioni di ala e di guardia. Il ruolo della point guard, invece, è sempre stato un punto debole nell’era Malone, faticando a trovare il giocatore giusto da implementare al meglio, alternando novità di roster ed esperimenti.

Jameer Nelson, Randy Foye, D.J. Augustin, Emmanuel Mudiay, Erick Green e Devin Harris: sono i nomi dei giocatori chiamati, nel corso dell’era Malone, ad allungare le rotazioni dei Nuggets portando quella necessaria capacità di ball-handling all’inizio dell’azione.

Se Nikola Jokic è il Joker, l’accostare Jamal Murray al Robin del serbo può non essere un esercizio di stile con solide basi fumettistiche, ma è indubbio che l’idea sia resa quando entrano in gioco le considerazioni tecniche dei due mentre condividono il parquet.

Dopo una stagione di apprendistato, il talento del giovane canadese è definitivamente esploso nel 2017-18, trovando ottime indicazioni anche per quanto sin qui concerne il rapporto con il giocatore di riferimento dell’attacco - e della franchigia - in ogni situazione, Murray ha dimostrato di essere un giocatore in grado di adattarsi a contesti e momenti diversi.

Nella clip qui sopra, Murray dimostra la sua abilità nel cercare continuamente un capovolgimento di fronte, giocata che il giovane canadese dimostra di essere in grado di applicare in modi diversi. Quella dei suoi secondary assists è una delle storie della stagione NBA, visto che il prodotto di Kentucky è, ad oggi, il migliore della Lega in questo dato.

Tutto questo porta a un totale di 11.4 punti a partita generati da assist (compresi i secondari) di Murray, un dato nettamente migliore rispetto a quello della scorsa stagione (8.2). Il canadese sta trovando un modo di ricoprire un impatto sempre più positivo all’interno della sua squadra nonostante il significativo peggioramento delle sue percentuali al tiro, soprattutto quelle dalla lunga distanza: Murray sta tirando con poco meno del 30% da 3 punti, quasi l’8% in meno rispetto alla sua stagione da sophomore. Un dato condizionato da un deludente 32% sui tentativi wide-open, che crolla fino al 23.4% quando a essere presi in considerazione sono i tentativi in sospensione.

Nonostante le percentuali deludenti di Murray, Denver sin qui non ne ha risentito particolarmente: i Nuggets tirano dalla distanza con percentuali simili rispetto alla scorsa stagione, e sono una delle migliori squadre della Lega a creare tentativi da 3 wide open. È possibilissimo, quindi, presupporre che quello di Murray sia uno slump destinato a terminare presto, rappresentando quindi un margine di miglioramento per la squadra di Malone.

Contro tutti gli ostacoli

Siamo stati abituati, nell’era Malone, a vedere Denver come una squadra dal grande attacco e dalla capacità di divertire con uno stile veloce e imprevedibile. Ad esempio, i Nuggets sono la seconda squadra della lega in transizione (dati SynergySportsTech) con 1.15 punti per possesso, e quella di correre è una volontà espressa soprattutto dalla second unit.

Tra i migliori giocatori in transizione, infatti, vi sono quei punti di riferimento della panchina Nuggets saliti alla ribalta dopo i già citati infortuni di Barton, Harris e Millsap. In primis bisogna fare il nome di Monte Morris, la grande sorpresa della stagione di Denver. Visto in campo per soli 25 minuti nella stagione da rookie, Morris sta riuscendo dove non è stata in grado quella serie di point guard citate in precedenza: rappresentare una guida affidabile in quei momenti “di transizione” della partita.

In transizione Morris segna 1.33 punti per possesso, il secondo dato migliore di squadra dopo quelli di Trey Lyles e Juancho Hernangomez, altri due grandi protagonisti della panchina dei Nuggets. Il dato quasi sconvolgente del prodotto di Iowa State è però un altro: al momento in cui scriviamo, Morris può vantare ben 123 assist a fronte di 20 palle perse in tutta la stagione. Un livello di efficienza nel manovrare il gioco dei Nuggets che è arricchito anche da una percentuale rispettabile dalla distanza (il 45% da 3 su 2.5 tentativi di media a partita).

La fiducia con cui sta giocando Morris si può vedere anche nella sicurezza nel condurre una transizione uno contro tre, pur in una partita ben indirizzata come quella contro gli Atlanta Hawks.

Il valore aggiunto di Morris non sta, sin qui, soltanto nell’essere un ottimo scudiero del più celebrato titolare, ma anche nel rendere su ottimi livelli nei momenti in cui tocca condividere il campo con Murray: con i due in campo, Denver ha un Net Rating di +10 su 100 possessi - il terzo miglior dato di squadra, considerando le coppie che hanno condiviso almeno 340 minuti sul parquet in questa stagione.

Oltre ai già citati Lyles e Hernangomez, che stanno elevando il loro rendimento per sopperire alle assenze di Millsap, Barton e Harris, una menzione a parte la merita anche Malik Beasley, altro protagonista della second unit Nuggets in crescita esponenziale in queste prime 30 partite. Dopo due stagioni da comparsa, passate tra la NBA e la G-League, il prodotto di Florida State sta trovando sempre più spazio nelle rotazioni: nelle prime 30 partite ha già raggiunto i minuti totali passati sul parquet nel 2017-18 in 62 apparizioni, migliorando le sue percentuali al tiro nonostante le responsabilità aggiuntive (quasi il 40% da 3 su 3.6 tentativi medi a partita).

Una breakout season le cui premesse sono state buone sin dall’inizio.

L’importanza di Beasley nell’attacco dei Nuggets la si vede anche nel suo essere il migliore in squadra in spot-up, dove segna 1.22 punti per possesso ed è nel migliore 10% della Lega. Nello stesso momento, però, la 19esima scelta del Draft 2016 è uno dei protagonisti dell’impressionante crescita sulla metà campo difensiva di Denver, che non ha risentito delle sue assenze importanti.

Il vero clou della svolta completa dei Nuggets, difensivamente parlando, risiede nel rendimento nell’ultimo quarto: il quarto Defensive Rating della Lega (dietro Thunder, Celtics e Pacers) nei 12 minuti finali degli incontri diventa il primo, con margine sul secondo e uno dei due sotto i 100 punti per possesso (solo 97.0, davanti ai 99.2 di Indiana).

Nelle otto partite giocate a dicembre, di cui sei senza Millsap e tutte senza Barton e Harris, tale dato si è ulteriormente abbassato (87.3 punti subiti su 100 possessi negli ultimi quarti, contro i 94.2 dei Grizzlies), con i Nuggets che agli avversari hanno concesso soltanto il 46.3% di percentuale effettiva nello stesso periodo. Un miglioramento che non passa più che altro dall’arrivo di nuovi giocatori, ma piuttosto da una crescita individuale dei membri più importanti del roster.

Tutti i giocatori chiave dei Nuggets hanno migliorato il proprio apporto rispetto al 2017-18, e la crescita maggiore è arrivata proprio dai comprimari: ad esempio Mason Plumlee, diventato un vero e proprio fattore nella metà campo difensiva. L’ex Blazers è passato da 107.2 a 99.3 di Defensive Rating (è il migliore di Denver tra i principali giocatori di rotazione), e quando si va a vedere il dato degli ultimi 12 minuti il miglioramento è ancora più impressionante: il “medio” dei fratelli Plumlee, da un ratio di 107.2 negli ultimi quarti della scorsa stagione, è infatti passato a un notevole 84.4.

Dove possono arrivare i Denver Nuggets?

L’instabilità totale che regna all’interno della Western Conference in questa regular season in cui nulla si può dare per scontato - basti pensare ad esempio che i Warriors sono 11-10 nelle ultime 21 partite disputate - porta naturalmente a chiedersi quali siano le prospettive a breve termine dei Denver Nuggets.

La squadra di Malone è riuscita sin qui a sopperire mirabilmente agli infortuni giocando un numero ridotto di partite (solo nove tra l’1 e il 25 dicembre). A gennaio la musica cambierà: dopo la chiusura del loro 2018 nella notte tra sabato 29 e domenica 30 sul campo dei Phoenix Suns, i Nuggets non potranno contare su due giorni consecutivi di riposo per quasi un mese, scendendo in campo ben 11 volte nei primi 19 giorni del nuovo anno.

In quel periodo dovrebbero rientrare quantomeno Barton e Harris, mentre è presumibile pensare che al termine di questo filotto di partite Denver possa riabbracciare anche Paul Millsap. Con una quantità così concentrata di partite, per i Nuggets sarà fondamentale cercare di non perdere ritmo, per non dilapidare quanto di buono seminato in questi primi due mesi e mezzo nonostante gli infortuni, e centrare quel ritorno ai playoff che in Colorado mancano dal 2012-13. Dimostrando che la maturità del roster è davvero arrivata al momento giusto.