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NBA, Kyrie Irving chiede scusa ai Celtics e telefona a LeBron James

NBA

Parole da leader per il n°11 dei Celtics che dopo il successo contro i Raptors ha commentato i suoi errori di comunicazione degli ultimi giorni, sottolineando come l'esperienza da leader gli abbia fatto capire le ragioni e i comportamenti di LeBron nei suoi confronti ai tempi dei Cavs

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Il grande campione sa quando fare un passo indietro. Quando spiegare il suo punto di vista e cercare di ricomporre una situazione complicata in spogliatoio. E Kyrie Irving ha dimostrato di esserlo, approfittando del suo straordinario ritorno sul parquet – protagonista nel fondamentale successo contro i Raptors con i suoi 27 punti e 18 assist – per piazzare la giocata più importante davanti ai microfoni nel post-partita. Dopo un periodo complicato, pieno di confronti e dichiarazioni velenose, c’era solo un modo per rimettere le cose a posto: chiedendo scusa. E a chi gli fa presente le lamentele di Jaylen Brown dopo l’ultima sconfitta incassata contro Brooklyn (“Non dobbiamo essere una squadra in cui i giocatori puntano il dito uno contro l’altro, ma questo è un processo che deve partire dal vertice  e non dalla base”), il n°11 dei Celtics replica convinto: “Ha ragione lui. Ho fatto un pessimo lavoro nelle ultime settimane con i miei compagni, parlando pubblicamente e provando così a tirare fuori qualcosa da loro. Non sai mai in quale modo possono essere accolte critiche di questo genere, non puoi valutare quanto sia fragile un ragazzo o che periodo stia attraversando. È lecito aspettarsi dei risultati, ma bisogna farlo discutendone all’interno del gruppo. Io voglio testare questi ragazzi, metterli alla prova, ma non facendo il bullo in questo modo. Voglio tirare fuori il meglio, ma non posso farlo attaccando in maniera personale. È stato un momento di crescita per tutti, in cui mi sono reso conto di quanto sia forte e riconoscibile la mia voce e quanto incida sulle sorti del gruppo. Avrei dovuto fare la cosa giusta e non puntare il dito sui singoli, ma cercare di capire cosa fare come gruppo. Sono stato in una squadra da titolo, ho già provato e testato tutte le difficoltà del caso. Ma non posso pretendere che loro sappiano già fare lo stesso. Devo lavorare sulla mia pazienza, lavorando per loro e permettendogli così di competere contro le migliori franchigie della Lega. Se vogliamo affermarci come una squadra con ambizioni da titolo, dobbiamo dimostrare ogni giorno di aiutare la squadra non solo quando si tratta di affrontare gli Warriors o i Raptors, ma contro qualsiasi tipo di avversario”.

La telefonata a LeBron: “Era la persona più adatta con cui parlare”

Una situazione del tutto nuova per il n°11 dei Celtics, partito per Boston due estati fa proprio per assumersi anche responsabilità del genere. La necessità era quella di staccarsi in qualche modo da LeBron James, con cui Irving aveva mantenuto a lungo un atteggiamento simile a quello dei giovani talenti che stanno crescendo attorno a lui a Boston. Per questo, una volta passato dall’altra parte, l’All-Star di Boston ha raccontato di aver telefonato al suo ex compagno di squadra ai Cavaliers per chiedere consiglio e scusarsi anche con lui: “Ovviamente non è stato semplice per me – sottolinea Irving - perché ho dovuto spiegargli che gli stavo chiedevo scusa per essere stato ai tempi di Cleveland io stesso quel ragazzino che voleva tutto nelle sue mani, che pretendeva di avere il mondo ai suoi piedi. Volevo essere il giocatore che guidava i Cavaliers al titolo, il leader riconosciuto del gruppo. Pretendevo tutte queste cose, ma la responsabilità di vestire i panni del miglior giocatore al mondo ed essere in grado di trascinare gli altri a vincere un titolo NBA è un ruolo che non possono ricoprire in molti. LeBron è uno di quelli, è arrivato a Cleveland per provare a mostrarci come si diventa una squadra in grado di vincere l’anello, ma non è stato facile per me. Alle volte riuscire a ottenere il massimo da un gruppo non è la cosa più semplice da fare”. Irving è un fiume in piena, vuole tirare fuori tutto quello che gli è passato per la testa negli ultimi giorni: “Come ho già detto, soltanto in pochi possono pensare di essere adatti a ricoprire un ruolo del genere e io ho pensato che lui fosse la persona più adatta da contattare. È stato spesso in una situazione di questo tipo, lo ha fatto con me quando io ero un 22enne che non faceva altro che pretendere qualsiasi cosa. Arrivavo da una stagione in cui aveva giocato da titolare all’All-Star Game e dopo pochi mesi dovevo trovare il modo di adattare il mio gioco con una presenza così ingombrante in spogliatoio. Una scelta del genere si tende a prenderla sul personale, ma in fondo tutto ciò che ha fatto era per il bene della squadra”. Pace fatta insomma, anche a parole.