La leggenda gialloviola racconta il suo allenamento estivo con "The Greek Freak", si sbilancia sulle favorite per il titolo 2019, incorona il più grande di sempre e rivela il suo amore per New York: "Mi sarebbe piaciuto giocare al Madison Square Garden"
Dopo un premio Oscar, un premio Pulitzer? Kobe Bryant, lontano dalla pallacanestro, continua a tenersi occupato e a far parlare di sé, e così al successo di “Dear Basketball” vorrebbe ora far seguire quello di “The Wizenard Series”, una serie di cinque libri da lui ideata e scritti da Wesley King basati sulle avventure (inventate) dei West Bottom Badgers, una squadra di basket allenata da un misterioso coach con poteri magici di nome Rolabi Wizenard. Per quanto Bryant faccia di tutto per archiviare il suo passato sul parquet, ogni occasione – anche il lancio del primo dei suoi cinque libri all’NBA Store di New York – è buona per sentire la sua opinione sull’attualità NBA, e il “Black Mamba” non risparmia opinioni e commenti. A partire dalle squadre che vede favorite per l’anello 2019: “Golden State mi sembra la squadra che gioca con più dedizione, con più senso, sanno come far male alle difese avversarie sfruttando i loro punti deboli. E poi hanno esperienza e un giocatore come Kevin Durant che può cambiarti ogni partita grazie alla combinazione di centimetri e abilità di segnare canestri quando il cronometro si avvicina allo zero. Anche Houston però sta migliorando, sia nella capacità di far male alle difese avversarie che nel controllare il ritmo di gioco. A Est invece se Boston mette in fila una striscia di vittorie allora diventa difficile fermarli e con la gara in equilibrio Kyrie Irving è sempre un problema per qualsiasi avversario”. La discussione sull’anello sembra essere l’unica che interessa all’ex gialloviola, che invece perde interesse nelle eterne diatribe sul miglior giocatore di tutti i tempi: “La verità è che non importa chi sia il più forte individualmente. Importa solo chi vince. Per cui Bill Russell [11 titoli NBA vinti, ndr] per me è il più grande di sempre”, afferma Bryant.
“Mi sono allenato con Antetokounmpo: prendeva appunti…”
Che però, tra i tanti talenti che oggi popolano la lega, una parola di riguardo la spende per Giannis Antetokounmpo, rivelando anche interessanti aneddoti del loro incontro estivo: “Quando ci siamo allenati assieme si è presentato in palestra un’ora e mezza prima. Abbiamo iniziato parlando per una ventina di minuti e lui ha tirato fuori un taccuino e ha iniziato a prendere appunti. Sono rimasto senza parole: ma cosa sta facendo? Io dicevo una cosa, e lui scriveva. E poi mi faceva domande, sul lavoro di piedi, sulle coperture difensive, sul tipo di difesa che gli dava più fastidio. Lo stesso anche dopo l’allenamento, per un’altra ora. È un ragazzo che studia in continuazione come migliorare, per cui non sono sorpreso di quello che sta facendo. Ha la mentalità giusta, quella di voler migliorare in continuazione. Quello che stiamo vedendo è solo la punta dell’iceberg Antetokounmpo”. Un aspetto che forse Bryant ha visto molto simile al suo approccio al gioco: “Quello che distingueva dagli altri giocatori? La mia curiosità. Alcuni si limitano a giocare, bene o male – ma questo per me non è mai stato sufficiente. Quando vedevo giocare Michael Jordan, Magic Johnson, Hakeem Olajuwon volevo capire ogni loro movimento, volevo capire come poter fare per fermarli: la mia era una ricerca infinita della perfezione. Quando abbiamo perso in finale NBA nel 2008 contro i Celtics non mi bastava pensare: ‘OK, sono un’ottima squadra, sono stati meglio di noi’. No. Perché abbiamo perso? Cos’avrei potuto fare meglio? Questa curiosità costante è quello che mi differenziava dagli altri”. Questo e anche un altro piccolo particolare, una frecciatina che Bryant oggi non risparmia verso le grandi superstar di oggi: “Se potevo camminare, potevo giocare. Questo è sempre stato il mio approccio, per due motivi: primo, la tua carriera di giocatore finisce in fretta e quindi ogni occasione di poter scendere in campo va colta; secondo, per rispetto verso chi viene a vedere la partita, spendendo i soldi risparmiati per mesi, magari per l’unica partita della loro annata”.
“Mi sarebbe piaciuto giocare a New York”
Un approccio old school, viene da dire, che si riflette anche nella dichiarazione di amore al Madison Square Garden e, indirettamente, ai New York Knicks: “Mi sarebbe piaciuto giocare a New York, è vero. Da tifoso le tre grandi arene storiche per me erano il Garden di New York, il Chicago Stadium e il Boston Garden. Le ultime due non ci sono più, il Garden resiste ancora: mi sarebbe piaciuto far parte della storia di una franchigia come i New York Knicks”. Invece come tutti sanno la sua carriera lo ha visto per 20 anni sempre in gialloviola, legato indelebilmente a doppio filo ai Lakers, franchigia su cui anche oggi ha la sua opinione: “Sono davanti a un bivio, possono prendere due strade, entrambe valide. Il punto è relativo a cosa vorranno fare con il nucleo giovane di giocatori che hanno a roster: li vogliono scambiare per una superstar o li vogliono tenere e puntare sul loro sviluppo? Tutte e due le soluzioni alla fine daranno i loro frutti, ma la prima è più rapida della seconda, perché porti in squadra giocatori che possono subito dare una mano a LeBron”. E visto che non mancano tanti anni alla fine della carriera di “King” James, la risposta a cosa faranno i Lakers in estate forse sta già tutta qui.