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Playoff NBA: Golden State-Houston, una finale di Conference anticipata

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Due roster pieni zeppi di All-Star, una sfida offensiva di livello assoluto e un testa a testa tra MVP presenti, passati e futuri: non c'è bisogno di molte parole per nobilitare la serie più interessante e carica d'aspettative dei playoff 2019. Uno spettacolo da godere su Sky Sport

Segui Golden State-Houston dalle 21.30 in diretta su Sky Sport NBA

L'INFORTUNIO DI STEPH CURRY: A RISCHIO GARA-1

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Ci siamo. Il momento che tutti aspettavano da 11 mesi è arrivato, la seconda opportunità per Houston – cambiata rispetto alla passata stagione, ma pronta a completare il suo percorso di crescita e superare l’ostacolo Warriors. Da quando Kevin Durant è arrivato a Oakland, nessuno è andato così vicino all’impresa: i Rockets erano in vantaggio di 17 punti in gara-6 le scorse finali di Conference e di 16 lunghezze in gara-7, ma il 3-2 a favore nella serie è diventato 4-3 Warriors e il rimpianto per l’infortunio di Chris Paul lascia ancora di più l’amaro in bocca. Stavolta il fattore campo premia i campioni in carica, ma in questa sfida d’esordio i texani hanno dalla loro due giorni di riposo in più – Golden State infatti torna sul parquet a 36 ore di distanza dalla partita decisiva di Los Angeles vinta contro i Clippers. La Oracle Arena nel primo turno non è stata un fattore come in passato: in una settimana Golden State ha perso più partite in casa ai playoff (due) che in tutte le ultime due post-season messe insieme (19-1 di record), mostrando delle crepe che devono fare da carburante alle ambizioni di Houston. L’upgrade DeMarcus Cousins non sarà a disposizioni per ragioni fisiche, mentre i Rockets hanno perso per strada Trevor Ariza e Luc Mbah a Moute – difensori pregevoli e duttili contro il camaleontico quintetto Warriors. L’opzione lungo è dunque in parte accantonata per Golden State, nonostante Kevon Looney ad esempio resti uno dei fattori più sottovalutati (tra quelli decisivi) nella serie contro i Clippers: +87 nei 108 minuti in cui è rimasto sul parquet per Golden State, contro il -18 di plus/minus complessivo nei 180 in cui è rimasto seduto a guardare i compagni. Anche lui potrebbe dunque ricoprire un ruolo non marginale, basterà trovare il momento giusto per lanciarlo sul parquet.

Due stili di gioco opposti, nonostante le similitudini

A guardare le caratteristiche dei giocatori, il talento e la duttilità spesso coincidenti tra i due roster, fa strano rendersi conto attraverso i dati di come le scelte dei due coaching staff spesso risultino invece molto distanti. Il movimento del pallone (molto più che degli uomini) in casa Warriors è un diktat che Steve Kerr ha fatto imparare a memoria ai suoi giocatori negli ultimi cinque anni: il risultato è che Golden State viaggia con il 70% dei canestri assistiti anche in una serie complicata come quella contro L.A., straprima per numero di passaggi, passando spesso per il post-up e attaccando poco il canestro in penetrazione (22 a partita di media, il numero più basso tra tutte le squadre ai playoff). Una filosofia ben diversa rispetto a quella dei Rockets, che nel primo turno contro Utah hanno segnato 18 punti di media in più dall’arco rispetto ai Jazz - mandandone a bersaglio almeno 15 nei primi quattro episodi - in una serie che è stata la meno “efficiente” in quanto a produzione offensiva: l’esatto opposto di quanto capitato agli Warriors contro i Clippers – ennesimo dato in controtendenza e opposto tra le due squadre. Houston ha tirato nel 50.1% dei casi con i piedi oltre l’arco: sì, il sogno di coach D’Antoni diventato realtà (la sperimentazione va avanti ormai da anni, con Harden principale beneficiario), con Golden State che nonostante i Curry, i Thompson e tutti gli altri tiratori a disposizione si ferma al 36% dei tentativi totali da lontano. Gli Warriors hanno tirato (in sei partite) 132 volte dal midrange, i texani soltanto in 19 casi con una sola gara in meno disputata. In casa Rockets infatti non esistono mezze misure: o tiro da lontano, o penetrazioni al ferro (59 di media, secondo dato di questi playoff). Tutti lo sanno, ma nessuno riesce a fermarli.

Il miglior Kevin Durant di sempre, da affrontare senza i difensori di 12 mesi fa

Oltre alle chiare differenze di scelta e di costruzione di gioco, resta un enorme discrepanza a livello di talento offensivo tra le squadre. È dovuta a un giocatore che porta il n°35 sulle spalle e che nel primo turno ha fatto pesare i suoi centimetri e le sue doti. Contro i Clippers infatti abbiamo assistito in religiosa contemplazione a una delle migliori versioni di sempre di Kevin Durant, pungolato dopo gara-2 (in cui aveva tirato poco, ma la striscia da 20+ punti ai playoff era stata comodamente prolungata), replicando con un definitivo: “Sono Kevin Durant”, con un significato implicito dovuto al fatto di non aver nulla da dimostrare. Nei fatti però, la richiesta di “prendersi più responsabilità” avanzata da coach Kerr è stata esaudita: 38 punti con 14/23 al tiro in gara-3, seguiti poi dai 33 con 12/21 dal campo, per chiudere in crescendo prima con 45 punti e 14/26 al tiro; aggiornando un massimo in carriera, riscritto a 48 ore di distanza con i 50 stampati in faccia alla difesa Clippers allo Staples Center con 15/26 a referto. Efficienza, produzione e istinti che vanno ben oltre qualsiasi mappa di tiro, selezione delle zone in cui attaccare e/o difensore da fronteggiare. Una delle cose che meglio aveva funzionato nei primi cinque episodi della serie 2018 per i Rockets era stata la capacità di cambiare marcatura, uomini e scelta su KD, limitandone l’impatto grazie ai vari Trevor Ariza e Luc Mbah a Moute. D’Antoni questa volta dovrà inventarsi qualcosa, non potendo lasciare il solo PJ Tucker in balia di un attaccante che ha fissato tre delle sue migliori sette prestazioni in carriera ai playoff negli ultimi dieci giorni. Se gioca così, è incontenibile per qualsiasi tipo di difesa.