Gli Warriors hanno tenuto nascosto per mesi il giocatore serbo, inserito nel roster a Santa Cruz con la squadra di G-League e mai presente sul parquet nelle gare in cui c'erano a bordocampo altri scout NBA. Un talento cresciuto nell'ombra da Golden State e scelto non appena possibile al Draft
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Nelle ore convulse e piene di scambi che hanno preceduto il Draft, anche i Golden State Warriors si sono mossi sorprendendo il resto della lega soltanto in parte, rinunciando a due seconde scelte future cedute ai Pelicans in cambio della chiamata n°39 di New Orleans con la quale hanno deciso di puntare sull’ala serba Alen Smailagic. Un 19enne di ottima prospettiva, che può far comodo sin da subito a una squadra che ha bisogno di talento giovane e reclutato a poco prezzo. Tutto normale, vero? No, per nulla. Smailagic infatti negli ultimi 12 mesi ha giocato per i Santa Cruz Warriors, la squadra di G-League legata alla franchigia degli ormai ex-campioni NBA. È approdato nella lega di sviluppo quando aveva soltanto 17 anni – selezionato da Kirk Lacob, GM della squadra di G-League e figlio del proprietario di Golden State - e non aveva ancora l’età per poter essere selezionato al Draft ed è stato tenuto nascosto dagli Warriors in questi mesi per evitare che altri scout mettessero gli occhi su di lui. Lo scorso inverno infatti tanti addetti ai lavori si sono presentati allo Showcase della G-League per vedere Smailagic all’opera, dopo che il serbo si era fatto notare grazie a ottime prestazioni a Santa Cruz. Ma Golden State, in maniera strategica, ha preferito tenerlo fuori e non farlo scendere sul parquet, aumentando così il mistero attorno a lui e non permettendo agli altri di capire quale potesse essere il suo reale valore. Un’assenza che nei mesi scorsi aveva fatto rumore, tornata prepotentemente d’attualità nelle ultime ore dopo la decisione degli Warriors di metterlo sotto contratto con la scelta n°39. Mosse che non vanno in alcun modo contro le regole, ma che hanno confermato dunque quale fosse l’intenzione di Golden State: mantenere sotto il proprio controllo un ragazzo promettente di 17 anni, crescerlo il più possibile al riparo da sguardi interessati, plasmarlo a proprio piacimento senza che la concorrenza potesse valutarne il reale impatto in campo. E infine, tenendo fede a una promessa non scritta, ma chiaramente nell’ordine delle cose, hanno deciso di ingaggiarlo non appena ha raggiunto l’età necessaria per esser scelto. Un’ulteriore evoluzione insomma del processo di scouting, seguendo uno schema che potrebbe essere replicato da altri anche in futuro.