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NBA, viaggio a Charlotte: c'è luce in fondo al tunnel degli Hornets

NBA
Massimo Marianella

Massimo Marianella

Due vittorie arrivate sulla sirena (contro Pistons e Knicks) portano alla ribalta i giovani protagonisti di casa Hornets. Perché se è vero che a Charlotte non si supera un turno di playoff dal 2002, uno stile di basket frizzante e divertente fa ben sperare per il futuro

CHARLOTTERebuilding. Termine usato spesso nello sport americano, e sorprendentemente accettato dalle tifoserie. Con la struttura tecnica che si ha non c’è prospettiva di vincere? Allora si devasta il roster e si prova a ricostruire. Può riuscire in tempi ragionevoli o bisogna attendere molto, come nel caso dei T’Wolves che hanno sacrificato Kevin Garnett nel 2007 e rivedono la luce solo ora con Karl-Anthony Towns e Andrew Wiggins. C’è però anche il caso degli Charlotte Hornets, dove la ricostruzione è una specie di progetto eterno. Un viaggio tormentato attraverso un cambio di nome, di logo, di colori, una franchigia ceduta a New Orleans, cause, tribunali e, alla fine, il recupero dell’identità, quantomeno sotto forma di divise, mascotte e denominazione. Per il progetto tecnico, invece, siamo ancora ai lavori in corso. Da anni. Forse troppi. La garanzia — o più che altro la speranza — è il nome del chairman, ma negli anni neanche Michael Jordan ha dimostrato il tocco magico da lui atteso, tanto nelle scelte al Draft che in quelle degli allenatori. La lista dei grandi giocatori che hanno vestito la maglia degli Hornets è impressionante soprattutto se paragonata alla povertà dei risultati ottenuti. Vero, in tanti — Tony Parker, Robert Parish, Robert Reid, Kurt Rambis, Kelly Tripucka, Otis Thorpe e Juwan Howard — sono arrivati nel North Carolina soltanto per far echeggiare il canto del cigno. Discorso ben diverso, però, per i vari Glen Rice, Vlade Divac, BJ Armstrong, Vernon Maxwell, Shawn Livingston, Corey Maggette, Jason Richardson, Eddie Jones e Jamal Mashburn il cui talento, in alcuni casi straordinario, non è servito a vincere nulla d’importante. Il capitolo Draft, come probabilmente per tante altre franchigie, racconta tante luci e altrettante ombre. Campioni come Zo Mourning, Baron Davis e Larry Johnson chiamati da Charlotte ma anche grandi delusioni, come quelle di Adam Morrison ed Emeka Okafor, o decisioni incomprensibili come scegliere con la 9° assoluta nel 2015 Frank Kaminski quando c’erano a disposizione Terry Rozier, Devin Booker, Justice Winslow e Josh Richardson, oppure nel 2008 (sempre al primo giro) il francese Alexis Ajinca con giocatori del calibro di De Andre Jordan, Ibaka, Dragic o Mario Chalmers in attesa di un fischio. Vero che a rileggere le chiamate dei vecchi Draft tutti hanno rimpianti, ma nel North Carolina l’ultima chiamata di cui essere davvero orgogliosi risale al 2011 con Kemba Walker.

Devonte Graham, PJ Washington e un nucleo futuribile

L’ambiente nel bellissimo Spectrum Center (al cui interno fa un freddo irreale…), in pieno centro città, è molto rilassato: molti bambini e tante famiglie tra il pubblico, perfino un tocco di bellezza in campo con Ashley Shahahmadi, forse la bordocampista televisiva più affascinante della lega, ma il nomignolo “Buzz City” continua a stonare un po’. Festeggiato da poco il trentennale dalla fondazione, sono finora soltanto dieci le apparizioni ai playoff, solo tre negli ultimi 15 anni, la più recente quattro stagioni fa. Per superare un turno di playoff, invece, occorre tornare addirittura al 2002. C’è insomma molto grigio attorno agli Hornets: grigio come quella sorta di nuvoletta che accompagna la storia della franchigia, ma anche come il colore dei seggiolini vuoti, tanti, più della metà dell’arena durante le partite non esattamente di maggior fascino. Eppure sulla carta quella di quest’anno è potenzialmente una squadra divertente, guidata da Terry Rozier — che ha ereditato le responsabilità e la leadership di Kemba Walker — e con giovani elettrizzanti come Malik Monk, PJ Washington e Devonte Graham. Washington, rookie da Kentucky, ha dato il buongiorno alla NBA con 27 punti, stabilendo così il record di franchigia per un esordiente. Ala decisamente moderna, più dinamica che fisica ma con un buon tiro dalla distanza, PJ ha sommato più di 13 punti, più di 6 rimbalzi e quasi 2 assist a partita nelle sue prime dieci gare da professionista. Divertente (e molto) anche veder giocare Devonte Graham, guardia al secondo anno da Kansas, che soprattutto nel gioco in transizione e nella meccanica di tiro dalla distanza regala ai fedelissimi dello Spectrum Center un ricordo forse un po’ nostalgico di Kemba Walker. Uscito dalla panchina nella gara contro New Orleans è rientrato negli spogliatoi alla fine con 24 punti e 10 assist, la sua terza doppia doppia punti-assist della stagione. La promozione in quintetto per questo ragazzo di casa (nato a Raleigh, North Carolina) sembra a questo punto dietro l’angolo, e non solo per gli infortuni di Dwayne Bacon e Nicolas Batum. Trentacinque punti nella vittoria al supplementare contro Indiana (solo Manu Ginobili nel 2007 e Lou Williams — due volte — negli ultimi 25 anni hanno segnato così tanti punti in uscita dalla panchina, sapendoci aggiungere anche 5 assist e 3 palloni rubati), 29 con 9 triple (compresa quella della vittoria) nel successo su New York e 8 volte su 11 miglior assist-man della squadra sono numeri troppo evidenti per non imporre all’attenzione di tutti il nuovo idolo della tifoseria, che lo reclama già in campo sulla palla a due. Comincia invece a intristirsi un po’ in panchina Michael Kidd-Gilchrist, che nonostante abbia da poco superato statisticamente Larry Johnson al nono posto per partite giocate nella storia degli Hornets e Alonzo Morning al quinto per rimbalzi catturati, non vede il campo da sei partite per scelta del tecnico James Borrejo, l’undicesimo della storia della franchigia, il cui impegno dichiarato ora è lavorare su una difesa che in tutta la stagione solo una volta — a San Francisco a casa degli Warriors — ha tenuto gli avversari sotto i 100 punti. Per il momento il record è negativo, sotto il 50 %, ma più di uno spiraglio positivo s’intravede. Un basket divertente, giocato in velocità, con un tiro da tre affidabile e un nucleo giovane e frizzante. Difesa e credibilità anche a livello playoff gli step successivi.