Il Los Angeles Times pubblica l'ultima intervista con l'ex superstar dei Lakers, che lo scorso 21 ottobre aveva concesso una ventina di minuti ad Arash Markazi. Parole che mettono in luce il grande amore verso le figlie (Gigi in particolare) e quel ruolo da insegnante/mentore/educatore che Bryant sembrava intenzionato ad assumere in maniera sempre più convinta
Un triste primato, che nessuno avrebbe voluto avere: quello di aver acceso per l’ultima volta i microfoni davanti alla bocca di Kobe Bryant. È toccato ad Arash Markazi, nota firma del Los Angeles Times, a cui l’ex superstar dei Lakers ha concesso quella che oggi rimane la sua ultima vera intervista. Markazi racconta il dietro le quinte di quel 21 ottobre – a 24 ore soltanto dal via della nuova stagione, che per i Lakers significava il primo derby dell’anno contro i Clippers – con Bryant che lascia al giornalista del Times la scelta di fare l’intervista (20 minuti circa) di persona o al telefono. “Erano due ore ad andare e due a tornare, per 20 minuti uno può pensare che non abbia senso fare tutta quella strada: e invece è stata una delle migliori decisioni che ho preso in vita mia”, racconta ora col senno di poi. E nello spiegargli il perché 24 ore dopo non sarebbe stato allo Staples Center (“Vado a vedere la partita di pallavolo di Natalia”, la sua figlia più grande, di 16 anni), Bryant presenta un nuovo lato di sé: “Essere allo Staples vuol dire non essere a casa, perdere un’altra opportunità di stare con le mie ragazze, che crescono in fretta. Voglio far sì di dover restare lontano da loro solo se proprio ne vale la pena, perché oggi come oggi preferisco stare in famiglia che fare qualsiasi altra cosa”. La famiglia davanti anche ai Lakers, di cui infatti si parla poco, nei 20 minuti che Kobe concede ai microfoni del Los Angeles Times. Se non per le parole spese per Dwight Howard: “Sono contento per lui, perché a volte non realizziamo quanto davvero amiamo questo gioco, o quanto ci manca, finché non ci avviciniamo alla fine della nostra carriera. È allora che magari dici: ‘Cavoli, vorrei tanto un’altra opportunità per mostrare a tutti quello che so ancora fare’ – e magari quell’opportunità non arriva. Per questo credo che Dwight finirà per apprezzare tantissimo la sua esperienza ai Lakers, e sono certo che avrà un grande impatto”. Torna anche sull’annata (era il 2012-13) dell’Howard primo estratto sulla ruota di L.A., esperienza da tutti ricordata in maniera negativa: “Si parla tanto del fit di Howard in quella squadra, del suo mancato inserimento, ma non lo sapremo mai perché a due gare dalla fine della stagione mi sono rotto il tendine d’Achille. Stavamo andando alla grande, sul finire della stagione [8 vinte nelle ultime 10, ndr]: non c’era una squadra della Western Conference che voleva incontrarci”, dice Kobe.
Le parole sulla figlia e sul suo ruolo di insegnante
Che poi – ironia della sorte – trascorre il resto del tempo con Markazi a parlare proprio di Gianna Bryant, che come lei stava costruendosi una carriera sul parquet, descritta con parole che oggi sembrano davvero beffarde: “Quello che amo di lei è la curiosità che ha per la pallacanestro. Anche nelle fasi più calde di una partita sa distaccarsi dal momento ed è in grado di farmi domande davvero molto specifiche, una cosa davvero non comune. E mi piace molto, così come mi piace rivedere me stesso nel modo in cui si muove, in alcune sue espressioni. I geni non mentono”, commenta divertito. Gianna era l’allieva preferita del Kobe Bryant allenatore, mentore, insegnante, una missione che l’ex stella dei Lakers aveva preso molto seriamente nella fase post-NBA della sua vita: “Allenare i ragazzini è qualcosa di molto importante”, afferma infatti Kobe ai microfoni di Markazi. “Se penso ai ragazzi che ascoltano i propri insegnanti in classe, stando seduti dietro un banco, li vedo mentre apprendono delle nozioni, che è sicuramente importante, ma manca loro quell’elemento emozionale che invece è presente quando giocano, in palestra. C’è più emozione, più vulnerabilità ma anche molta più potenza. E se un allenatore – o un insegnante – non ha consapevolezza della sfera emotiva dei ragazzi può fare un sacco di danni, anche solo con una strigliata o con un’alzata d’occhi”. Parole sagge, di un Kobe Bryant che – attraverso la Mamba Academy o i romanzi fantasy/sportivi che stava pubblicando – sembra avesse realmente trovato un interesse sincero nell’indagare il mondo delle generazioni più giovani. Che oggi restano orfane di un vero maestro.