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13/30: P.J. Tucker, il centro del progetto degli Houston Rockets

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©Getty

Senza lunghi presenti nel roster, a Houston hanno deciso di puntare tutto sullo small-ball, su quintetti duttili e sottodimensionati in cui il n°17 dei Rockets deve inventarsi in un nuovo ruolo. Non una novità nella carriera di PJ Tucker, giramondo diventato fondamentale in NBA con oltre un decennio di ritardo

A mali estremi, estremi rimedi. A Mike D’Antoni, ormai da decenni nel mondo NBA, il coraggio non è mai mancato, ma mai aveva portato la sua idea di pallacanestro così in là. Ben oltre il limite del consentito, rendendo estremo il concetto di small-ball negli ultimi 40 giorni di regular season prima dello stop forzato dovuto al coronavirus. Il 1 febbraio scorso i Rockets avevano fatto notizia: nessuno degli otto giocatori schierati contro i Dallas Mavericks superava i 2 metri d’altezza. “La Banda Bassotti”, proprio come l’Olimpia Milano che negli anni ’80 sotto la sua sapiente guida sul parquet era riuscita a conquistare tutto in Italia e in Europa. Pochi giorni dopo però quella condizione d’emergenza a causa degli infortuni è diventata permanente per scelta a seguito della trade che ha portato Clint Capela lontano da Houston: senza il lungo svizzero (con lui è partito anche Nené), i Rockets hanno gettato la maschera, passando all’ultima fase di un progetto che ha l’intenzione di far saltare il banco e puntare a conquistare il titolo NBA. Liberare l’area dalla presenza di un lungo vuol dire lasciare spazio alle scorribande dal palleggio di Russell Westbrook, cresciuto per resa, punti ed efficacia nelle ultime settimane nonostante la complicata convivenza al fianco di James Harden. Le otto partite di febbraio giocate dal n°0 ex-Thunder sono il parametro migliore per comprendere la scelta dei texani: oltre 33 punti di media con il 55% dal campo, un’area sempre aperta da quattro tiratori presenti al suo fianco sul parquet e una soluzione offensiva estrema che mette alle corde qualsiasi tipo di difesa. Una scelta che inizialmente ha colto di sorpresa molti (sei vittorie nelle prime otto per Houston), per poi perdere in parte d’efficacia contro quintetti lunghi, grossi e soprattutto molto presenti in area e a rimbalzo. Tutte mansioni a cui è stato deputato PJ Tucker, l’unica vera ragione per cui i Rockets possono sperare che le loro scelte funzionino su entrambi i lati del campo.

Protagonista con oltre un decennio di ritardo

Soltanto qualche stagione fa, Tucker non avrebbe mai immaginato di rivestire un ruolo del genere - reduce da una storia personale e cestistica di difficile collocazione e raffronto con quelle dei suoi colleghi. Prospetto collegiale di ottimo livello, scivolato al secondo giro al Draft nel 2006 nelle mani dei Toronto Raptors che in pochi mesi si sono letteralmente liberati di lui per fare spazio ad altri. “È stato l’anno peggiore della mia vita, non solo sul campo da basket”, ricordava nel 2018 - quando proprio grazie ai Rockets è riuscito a ritrovare in età avanzata centralità in un progetto NBA come duttile arma difensiva da sfruttare contro realizzatori avversari di ogni tipo. Nel 2011 Tucker era arrivato a Montegranaro ad aprile inoltrato (al termine di un giro fatto di tappe in D-League, Israele, Ucraina, Grecia e concluso poi in Germania), lanciato sul parquet a neanche 48 ore dallo sbarco in provincia di Fermo contro l’allora Lottomatica Roma per dare una mano a un roster pieno di infortuni. Un rincalzo che una volta ritornato in NBA per scelta - rinunciando ai tanti soldi offerti dalla Russia pur di giocare con i Phoenix Suns - ha saputo costruire una carriera di livello, trovando ai Rockets l’opportunità che si era lasciato sfuggire 10 anni prima.

Una scelta estrema che condanna Houston a convivere con alti e bassi

Tucker non è mai stato inserito a fine anno in uno dei migliori quintetti difensivi selezionati dalla lega, ma in Texas non hanno avuto bisogno di quel tipo di valutazione per costruire attorno alla sua duttilità un sistema in cui lui e il nuovo arrivato Robert Covington sono chiamati a non far pesare l’assenza sotto canestro di lunghi “di ruolo”. Una scelta dalla doppia valenza (e risultato), come dimostrato da due partite simbolo disputate dai Rockets prima della sospensione della regular season: la trionfale vittoria raccolta contro i Lakers e la sofferta sconfitta incassata contro i Knicks. Nel primo caso i texani si sono goduti la miglior prestazione di Westbrook in questa stagione, garantendo attorno a lui un attacco da 45% con i piedi oltre l’arco e non patendo la serata storta di un Harden da 10 tiri e 14 punti complessivi. Il dato incoraggiante nella sfida di Los Angeles è stato però il -1 alla voce rimbalzi totali catturati rispetto ai Lakers (38 a 37), diventato un disastro -31 nella partita del Madison Square Garden contro i Knicks. Concedere 20 rimbalzi offensivi e ben 64 punti in area a qualsiasi avversario porta soltanto a un risultato: la sconfitta, anche se giochi contro New York e nonostante tu riesca a realizzare 20 triple. Contro Randle, Gibson e Robinson (39 rimbalzi in tre, più dei 34 complessivi dei Rockets) la capacità di adattamento di Tucker è servito a ben poco: un interrogativo a cui coach D’Antoni e il suo staff dovranno trovare una risposta.

Il miglior tiratore dagli angoli della NBA (e non solo)

A prescindere dagli scivoloni però, a Houston proseguiranno lungo questo sentiero (almeno nel breve periodo). Tucker infatti continua a essere una garanzia sotto diversi punti di vista. Primo e non trascurabile aspetto, la situazione salariale: il n°17 dei Rockets conviene, nel vero senso della parola. È il quinto giocatore più pagato della squadra e i quasi 8 milioni previsti per il prossimo anno dal suo contratto verranno certamente garantiti da Houston. Nonostante l’età infatti Tucker ha dato conferme sotto l’aspetto atletico e di continuità invidiabili sul parquet: l’ultima gara saltata risale al 2 aprile 2017, in campo per 270 partite consecutive considerando anche i playoff. In generale dal suo ritorno in NBA nell’autunno 2012, sono soltanto nove i match su 675 in cui ha dovuto alzare bandiera bianca per problemi fisici. Un giocatore su cui poter fare sempre affidamento, la chiave in difesa e al tempo stesso un’arma utile anche in attacco: in questa stagione infatti le 80 triple realizzate dall’angolo lo rendono il realizzatore più prolifico da quella porzione di campo dell’intera lega. Più di Duncan Robinson e di altri specialisti per produzione, garantendo un 40% di conversione che permette a Houston di continuare a scommettere sul suo tiro. Giocare al fianco di Harden e Westbrook infatti aiuta a trovare spazio in alcune zone di campo - i suoi 200 tentativi sono di gran lunga il dato più grande dell’intera lega, con Bojan Bogdanovic secondo a quota 152 - ma ciò non toglie che le difese avversarie non possono permettersi il lusso di lasciarlo libero di tirare. Per far funzionare l’attacco Rockets basta questo, ennesima arma nell’arsenale di Tucker - il centro, di nome e di fatto, del progetto portato avanti dai texani.