Da oggi su Netflix è disponibile "The Last Dance" - serie dedicata all’ultima stagione ai Bulls di MJ, disponibile a un prezzo vantaggioso per gli abbonati Sky che sottoscrivono l’offerta Intrattenimento Plus su Sky Q. Per gustarselo al meglio, ecco dieci gustosi retroscena da conoscere assolutamente prima di mettersi davanti alla tv
CASA THOMPSON | Dici “Thompson” e la prima associazione è quella con Klay, straordinario tiratore dei Golden State Warriors o, per chi ha qualche anno in più, con il padre Mychal, ex prima scelta assoluta e centro di riserva dei Lakers di Magic e Jabbar. Poi però c’è Andy — Andy Thompson — fratello di Mychal e zio di Klay. Professione, nel lontano 1997: produttore di NBA Entertainment. Si deve a lui l’ardire di proporre un progetto ai suoi capi: “Hey, Michael Jordan si ritirerà a fine anno e noi non abbiamo mai documentato in maniera completa un intero anno di uno degli atleti più forti nella storia dello sport”. Aveva conosciuto MJ durante le Olimpiadi di Barcellona, quelle del Dream Team “e visto che Michael adorava mio fratello [tanto che da ragazzino era solito firmarsi Mychal Jordan, ndr] io e lui siamo subito diventati amici”. Un’amicizia fondamentale per la realizzazione di “The Last Dance”
DAVID STERN E ADAM SILVER | Il primo era il commissioner NBA, ruolo oggi ricoperto dal secondo che al tempo invece era a capo di NBA Entertainment (in pratica: il boss di Andy Thompson). Il progetto di filmare per un anno i Bulls in pellicola — un progetto imponente e dai costi altissimi — passa ovviamente anche da loro. “Vi riporto cosa disse David Stern a Andy Thompson”, ha raccontato Adam Silver. “Andy ha avuto un budget illimitato. Ed è riuscito a superarlo”
JERRY REINSDORF | Il primo approccio per arrivare a Jordan da parte di Adam Silver fu quello di andare dal proprietario dei Chicago Bulls, a sentire la sua opinione su un progetto del genere. “Aperto e disponibile a realizzarlo — racconta oggi Silver — ma a condizione che Jordan e Phil Jackson fossero d’accordo”. “Alla fine chi comanda in spogliatoio è l’allenatore — aggiunge ancora Silver — per cui avevamo bisogno della cooperazione di Phil Jackson”
PHIL JACKSON | E Silver si ritrova a parlare del progetto con “Coach Zen” durante la trasferta parigina dei Bulls per il McDonald's Championship 1997, a ottobre. E l’attuale commissioner NBA racconta che Phil Jackson capì immediatamente la portata del progetto — ma non per questo non miseuna condizionealla sua realizzazione: “Quando lo richiedo, voglio avere la libertà di chiedere a Andy Thompson e ai cameramen di lasciarci in pace”
MICHAEL JORDAN (e David Falk) | Poi, ovviamente, c’era da convincere Michael Jordan. Il genio di Adam Silver emerge qui in tutta la sua grandezza: “Il nostro accordo era questo: nessuna delle due parti — né tu, né la NBA — può usare il materiale senza il permesso dell’altra”, racconta Silver. Jordan — e il suo agente David Falk — erano gelosissimi dell’immagine del n°23 dei Bulls, convinti che il suo valore “diminuisse ogni volta che veniva utilizzata”, ma Silver riesce a convincerli, sfoderando anche un’ironia non sempre riconosciutagli: “Male che vada avrai il miglior home video mai girato da far vedere ai tuoi figli”
IL GIRATO | I Bulls — Reinsdorf, Jackson, Jordan — accettano, le telecamere si accendono, iniziano le riprese. Finiranno per essere 500 ore di pellicola, che verranno custodite per anni in una zona separata da tutte le altre dell’archivio di immagini e filmati che NBA Entertainment ha nel New Jersey, a Secaucus. Non tutti sanno che questo girato esiste, e chi lo sa sa anche che non è utilizzabile fino all’ok di Jordan. Per Connor Schell — oggi vice presidente responsabile dei contenuti di ESPN e produttore esecutivo di “The Last Dance” — quel girato assume connotazione quasi mitiche: “Ricordo un dvd dorato con il titolo scritto a penna sul disco”, dice
7/10
O.J. SIMPSON | Gennaio 2016, a Park City nello Utah — all’interno del consueto appuntamento con il Sundance Film Festival — viene presentato “O.J. Simpson: made in America”, un documentario sulla controversa storia dell’ex campione NFL e dei suoi guai con la giustizia. Il dettaglio fondamentale: è un prodotto di 450 minuti (7 ore e mezza) presentato in otto episodi. Dettaglio che non sfugge a Mike Tollin
IL PRODUTTORE | Ci aveva provato Spike Lee, ovviamente. Ci aveva provato perfino Danny DeVito. In tanti avevano tentato di approcciare Michael Jordan per proporgli un progetto del genere: mettere le mani su quelle 500 ore di girato e costruire il più bel documentario sportivo di sempre. Secondo Curtis Polk, storico business partner di Jordan, “nessuno di loro venne neppure ammesso a un faccia-a-faccia con Michael”. Che viene invece concesso nel giugno 2016 a Mike Tollin, che aveva già firmato "Varsity Blues" nel 1999 e "Coach Carter” nel 2005 e che ispirandosi al documentario su O.J. Simpson progetta un longform: “Per anni ci era stato detto less is more. Ora more is more”
LEBRON JAMES | “L’universo ha uno strano senso dell’umorismo”, afferma oggi Tollin. Perché per incontrare Michael Jordan e proporgli l’idea “The Last Dance” Tollin parte con un volo red-eye da Los Angeles per essere a Charlotte all’alba. Effettuato il check-in in hotel, accende la tv. “Stavano trasmettendo la parata dei Cavs con LeBron James trofeo in mano”. Da un grande a un altro.
10/10
ALLEN IVERSON | Tollin racconta che la prima pagina della presentazione che mette in mano a Michael Jordan è una sua lettera al 23 dei Bulls, che inizia così: “Caro Michael, ogni giorno nel mio ufficio entrano ragazzini con ai piedi le tue scarpe che non ti hanno mai visto giocare”. Jordan però è più impressionato dall’ultima pagina di quella presentazione: “Ci sono i titoli di tutti i miei precedenti lavori, dal documentario su Kareem Abdul-Jabbar al lavoro su Hank Aron fino a ‘Coach Carter’. Ma Michael si fissa su un titolo: ‘Iverson’ [presentato in anteprima al Tribeca Film Festival nel 2014, ndr]. ‘L’hai fatto tu?’, mi chiede. E poi mi dice: ‘L’ho guardato tre volte, mi ha fatto piangere. Amo quel piccoletto’”. Se oggi c’è “The Last Dance”, quindi, lo dobbiamo un po’ (o forse tanto) anche ad Allen Iverson